C’era una volta una trattoria lungo la via Flaminia, non lontano da piazza del Popolo, dove artisti che sarebbero diventati celebri e molto quotati – chessò, la Accardi, Turcato, Consagra – mangiavano “di base carbonara e bollito, ma nelle grandi occasioni persino l’aragosta”. Non potendo pagare il pranzo agli osti, i fratelli Nardi e Domenico Menghi, regalavano loro di tanto in tanto un’opera. Magari tratteggiavano un disegno sulle tovaglie di carta o sul tovagliolo al pari degli schizzi di cui Fellini disseminò Roma, o dipingevano murales sulle pareti del locale. Ve l’immaginate oggi? Quale ristoratore mai punterebbe sul talento dei bohémien? Eppure sono storie così ad aver intessuto l’autentico “mito italiano” che non sappiamo di poter far valere e sul quale pure viviamo di rendita in mezzo mondo, tranne che in Italia, appunto.
Qui, quando va bene, balugina la consapevolezza di avere “un grande avvenire dietro le spalle”, come Vittorio Gassman titolò l’ironica e amara autobiografia. Quando va male, e quasi sempre va male, vige l’oblio o il ciacolaio televisivo e adesso internettiano. Invece ad aneddoti del genere “trattoria Menghi” corrispondono volti, avventure intellettuali e relazioni sentimentali, amicizie indissolubili e contrasti violenti tra sodali, minima moralia e impareggiabili aforismi alla Flaiano nei caffè d’arte, botte di vita e lutti inconsolabili. Sono i molti fili che tessono la trama di un libro assai bello, avvolgente amarcord e reportage letterario, limpidamente fluido come il Tevere che fu: Addio a Roma di Sandra Petrignani (Neri Pozza ed, pp. 348, euro 16,50).
Emiliana fattasi trasteverina, giramondo per professione giornalistica e per passione (l’India nel cuore), impegnata fin dalle “navigazioni di Circe” del suo esordio narrativo in un femminismo non sotteso a effemeridi ideologiche, Petrignani compie un viaggio nel tempo e nei luoghi della città eterna. Come già accadeva nel libro E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, 2010), le soste contemplative dinanzi a un numero civico, a un crocicchio, a una piazza, a una finestra sbarrata, consentono all’autrice di spalancare mondi e squadernare un mondo. Sì, ci fu una Roma davvero caput mundi delle lettere e delle arti, del cinema e del teatro contemporanei, addirittura futuribili. E’ la Roma che nel 1952, l’anno della morte a Napoli del “papa laico” Benedetto Croce donde prende le mosse il racconto, viene attraversata dal ventisettenne borsista texano Robert Rauschenberg, destinato all’olimpo della Pop Art, allora squattrinato e affascinato dai Sacchi di Alberto Burri. Quest’ultimo a sua volta viveva in un atelier di via Margutta, prestatogli da un amico, nel quale regolarmente pioveva dentro. I passi non perduti dell’americano a Roma saranno gli stessi, sui medesimi sanpietrini umidi o arroventati, di tanti giovani promesse – fra cui i nostri sfortunati Rocco Scotellaro e Pino Pascali – che lungo gli anni Cinquanta e Sessanta s’inurberanno per un mese o per sempre in cerca di fortune, inseguendo un sogno. Il sogno italiano allora altrettanto vigoroso dell’american dream, a onta delle rovine materiali e delle macerie morali della guerra e del fascismo finiti solo ieri l’altro.
Oggi si fa un gran parlare di “beni comuni”, intendendo l’acqua, l’aria, il paesaggio da tutelare, ma nelle pagine di Petrignani in filigrana affiora la fiducia nel futuro come il bene comune più prezioso, quello che senz’altro abbiamo dissipato almeno a partire dall’assassinio di Pasolini nel 1975, l’anno in cui si ferma la narrazione. Lì, si notò già al tempo, uno o più “ragazzi di morte” sul litorale ostiense soppiantarono i “ragazzi di vita” cari al poeta friulano innamorato dell’Urbe: “Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria”.
Da Croce a Pasolini. In mezzo, naturalmente, c’è la Dolce Vita felliniana che battezzò l’umore di un’epoca (in italiano, mood) e propalò il fascino di Roma in Europa, in America, in Giappone. Ciò avvenne grazie all’aura del bagno angelico e sensuale di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella Fontana di Trevi e malgrado l’equivoco principe che da subito confuse le acque mentre incoronava il film: Fellini infatti fu e resta un antropologo visionario e il regista del disincanto nelle stagioni del miracolo economico, non meno lungimirante e agro di Pasolini o Bianciardi. Sebbene a Federico piacesse mentire a chicchessia, a cominciare da sé: “Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel vedere e nell’esprimere”.
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 13 gennaio 2013