Sono forse i dati più impressionanti che mi è capitato di leggere nel 2014.
Secondo il Credit Suisse (che non è un’organizzazione filantropica) lo 0,7% della popolazione mondiale detiene il 44% della ricchezza (finanziaria e immobiliare) del mondo; mentre al 68,9% delle persone ne spetta il 2,9%.
Proprio così: se un tempo non lontano (un secolo fa), l’economista Pareto definì inefficiente un sistema che alloca l’80% della terra (allora quasi tutta la ricchezza era rappresentato dalla terra coltivata) al 20% della popolazione, oggi meno del 10% degli uomini possiedono, circa il 90% della ricchezza.
Le cose sono molto peggiorate e, del resto, se negli anni settanta qualcuno disse che vale la regola dei due terzi (se due terzi della popolazione sta bene in una società, quella società sarà sufficientemente stabile), oggi due terzi del mondo (68,9%) non hanno praticamente nulla (gli spetta meno del 3% della ricchezza mondiale) e da ciò consegue che il mondo è assai instabile.
Certo, nel mondo abbiamo vissuto decenni di grande crescita (tranne che in Italia), forse quelli di più elevata crescita nella storia del mondo. Centinaia di milioni di persone (in Cina e in India, soprattutto) sono uscite dalla non occupazione o da lavori a un dollaro al giorno per approdare in occupazioni che gli garantiscono un appartamento e un automobile. Eppure, evidentemente, due terzi della popolazione mondiale non riesce, ancora, a vivere di null’altro che del proprio lavoro e molti sono quelli che lavorano per pagare debiti.
Persino, negli Stati Uniti che pure hanno fatto registrare uno spettacolare più cinque per cento nella crescita del PIL dell’ultimo trimestre, il reddito della famiglia media è ancora assai più basso che all’inizio della crisi del 2007 e ciò significa che la crescita è quasi tutta finita nella parte di popolazione più ricca.
La crescita diseguale è, indubbiamente, un problema, Per almeno tre ragioni.
Perché produce tensione tra chi vince e chi perde in questa ridistribuzione verso l’alto e ciò crea instabilità politica, come rileva lo stesso The Economist nell’ultimo numero dell’anno.
Perché una crescita così diseguale si ferma, prima o poi: già in più di una circostanza il capitalismo si è salvato solo ricordandosi che al di sopra di certi livelli di disuguaglianza lo stesso PIL si blocca perché mancano i consumi della sua classe media.
Infine e soprattutto per una ragione etica: che senso ha una società, un’economia che è funzionale a solo l’1% della sua popolazione?
C’è poi l’Italia. Un caso a parte: perché riusciamo a mettere insieme zero crescita e disuguaglianza crescente. Ma c’è di peggio: la nostra disuguaglianza non serve neppure a dare più risorse a chi (come forse avviene in altri Paesi) ha lavorato o studiato di più. Lo dimostrano i dati sul “premio” che il sistema Italia attacca al dottorato in materie scientifiche che da nessuna parte è così basso come da noi. Dalla parte vincente della redistribuzione ci sono poche persone oneste e laboriose; ma anche tanti corrotti, corruttori; avvocati che hanno (ad esempio al Sud) inventate vere e proprie filiere produttive della truffa sistematica; pensionati d’oro e persone che (in città come Roma) gestiscono patrimoni altrui e non hanno mai prodotto uno spillo.
Ragione in più per fare qualcosa: se il resto del mondo dovesse fermarsi perché la crescita non è quella giusta, la non crescita dell’Italia rischierebbe di trasformarsi in caduta verticale.
Questa è forse la sfida più grande del 2015: crescere; ma investendo sulle opportunità per tutti cominciando dalla scuola; combattendo il rischio di povertà (nessun Paese europeo ha, secondo EUROSTAT, tante persone che corrono questo rischio quante in Italia) con un welfare più efficiente; e allocando risorse da chi “conserva” a chi può innovare.