Ė vero, come ha sostenuto di recente Orhan Kemal Cengiz, che la bufera della ‘tangentopoli’ turca rischia di rubare la scena ad altre importanti questioni che riguardano quel Paese (e, nel caso specifico, non solo). Degno di nota, infatti, è il recente viaggio del ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu a Yerevan, capitale armena. Il viaggio, di per sé un segnale di ripresa del dialogo diplomatico ad alti livelli dopo cinque anni di stallo, ha visto l’importante affermazione di Davutoğlu secondo cui la Turchia non ha mai supportato la deportazione degli armeni – con riferimento ovviamente allo sradicamento del 1915 –, definendo l’atto come inumano e impossibile da approvare. Si è trattato, come la maggior parte dei commentatori sia turchi sia armeni ha notato, di un’affermazione dal forte significato, che segnala probabilmente la ricerca da parte di Ankara di creare un clima meno teso in vista del 2015, anno in cui ricorrerà il centenario dei fatti alla base della spaccatura nella memoria turco-armena. L’affermazione è significativa perché definendo la deportazione degli armeni un fatto inumano che ha provocato enormi sofferenze, Davutoğlu da un lato ammette responsabilità da parte dell’allora governo dei Giovani turchi, e dall’altro ‘offre’ la chiave dell’empatia come via per l’elaborazione di un lutto che deve essere condiviso, con cui le due parti devono potersi entrambe identificare se la ferita vuole essere curata. Nel processo di elaborazione di un lutto e di definizione stessa di un evento come traumatico, il passaggio relativo all’identificazione con la sofferenza delle vittime è chiaramente cruciale, e non a caso l’empatia con la sofferenza delle vittime viene invocata in Turchia da quanti sono critici nei confronti della posizione ufficiale di Ankara – che semplicemente nega l’attribuzione di ogni responsabilità per fatti che se definiti come genocidio non sarebbero mai avvenuti – come condizione necessaria e primo passo da compiere. Passo che difficilmente Davutoğlu ha compiuto senza lucida consapevolezza del suo significato.
La questione è nota. Le memorie sono profondamente divise. Da un lato, quello armeno, si chiede il riconoscimento, a livello internazionale, dei fatti del 1915 come genocidio che ha causato 1.500.000 di vittime, dall’altro, quello turco, si nega che le vittime siano state più di 5/600.000, e soprattutto si nega che si sia trattato di un sistematico e deliberato sterminio di un popolo – dunque di un genocidio –, essendo piuttosto effetto collaterale di un’operazione di trasferimento di popolazione legittima in uno scacchiere di guerra, in cui la minoranza armena agiva da nemico interno all’integrità dell’allora Impero ottomano. Ma la questione è resa ancora più complessa a diversi livelli dalla molteplicità degli attori. Sul piano storico, la ricerca è resa difficile dalla indisponibilità, fino a pochissimo tempo fa, degli archivi russi e turchi, e dall’interferenza nella ricerca propriamente detta di interessi dell’uno e dell’altro governo che usano la storia a fini politici. Sul piano politico, oltre a due governi la cui storia di relazioni diplomatiche è recente, accidentata, piena di stop and go e inquinata ulteriormente dai rapporti turchi con l’Arzebaijan e dalla irrisolta questione del Nagorno-Karabakh, attori fondamentali sono le comunità armene della diaspora, impegnate sul piano politico e giuridico a far riconoscere ai diversi parlamenti nazionali i fatti del 1915 come genocidio. L’intento, ovviamente, è anche quello di creare un fronte internazionale che faccia pressione sulla Turchia, legittimando leggi nazionali contro la negazione del genocidio armeno, sulla falsariga di quelle (già controverse) sul negazionismo della Shoah. Il risultato, tuttavia, è anche il riflesso nazionalista che una simile strategia causa in Turchia, l’irrigidimento dei governi e della stessa opinione pubblica (attraversata da pesanti correnti nazionalistiche) e il rafforzamento dell’immagine dell’armeno come ‘altro’ per il turco e viceversa. Una spirale che avvelena i pozzi e allontana le possibilità di dialogo e, giustappunto, di empatia.
Le dichiarazioni di Davutoğlu si inseriscono in questo quadro, reso ulteriormente mosso da un altro importante fatto recente: una sentenza della Corte europea per i diritti umani che ha accolto il ricorso di Doğu Perinçek, leader del partito turco dei lavoratori che nel 2005, a Losanna, affermò pubblicamente che la questione del genocidio era una menzogna internazionale. Citato da una associazione svizzero armena, Perinçek fu condannato per discriminazione razziale. Oggi la Corte europea accoglie il suo ricorso, affermando che negare il genocidio armeno non può essere considerato un crimine e che non si possono stabilire in questo senso equiparazioni con la Shoah. La ragione, sostiene la Corte, è che la ricerca storica non è ancora pervenuta a prove certe, chiare, irrevocabili, circa i fatti, la loro dinamica, la loro entità, e che dunque una legge bloccherebbe la ricerca storica oltre a censurare la libertà di espressione, cosa ammissibile solo in caso di verità incontestabili. Si tratta, come è evidente, di una sentenza che rende priva di senso la – già strategicamente opinabile – attività di pressione sui parlamenti nazionali perché riconoscano il genocidio armeno, aprendo così la strada a leggi e sanzioni sulla sua negazione. La Corte europea vanifica in partenza una simile strategia.
Tutto ciò accade mentre dalla Turchia arrivano, tanto per cambiare, segnali contraddittori. L’Associazione degli storici turca richiede al Consiglio superiore dell’educazione (YÖK) di far sì che le singole università e i singoli docenti segnalino nomi degli studenti che scrivono tesi sulla questione armena, titolo del lavoro e informazioni relative ad esso. La motivazione ufficiale è quella di rendere noto all’associazione stessa lo stato della ricerca sul tema. Scontato, però, pensare che si possa trattare di un modo per schedare studiosi e docenti potenzialmente contrari alle tesi ufficiali, come denunciato da Agos, il giornale turco-armeno di cui era direttore Hrant Dink. D’altro canto, una recente conferenza tenutasi alla Boğziçi University in partnership con la Fondazione Internazionale Hrant Dink ha messo a tema, per la prima, la questione degli armeni forzosamente convertiti all’Islam dopo il 1915. Un altro tabù infranto, una questione mai prima discussa e oggi al centro di una conferenza pubblica.
Sullo sfondo, dopodomani, il 2015; ‘domani’, il 19 gennaio, la settima commemorazione dell’assassinio di Hrant Dink. Nella questione della memoria divisa turco-armena, nella formazione di una narrazione condivisa di un evento traumatico da ambo le parti riconosciuto, ogni elemento può essere assunto a indicatore dello stato di costruzione della narrazione stessa e, in un circolo sempre complesso, a fattore che sulla costruzione di quella narrazione incide profondamente. Credo che Hrant Dink avrebbe apprezzato le parole di Davutoğlu. Senza un segno di empatia, nessuna elaborazione comune del trauma è possibile, nessuna memoria divisa può essere elaborata e suturata. Si guardino i commenti agli articoli di quegli editorialisti che, in Turchia, appoggiano o sollecitano una revisione della politica ufficiale di Ankara in merito alla questione armena: sovente esprimono odio verso l’altro’, rozza riaffermazione di verità di parte, chiusura intransigente al dialogo e, soprattutto, alla sofferenza altrui. Definire ‘inumano’ quel fatto può aprire la strada all’empatia. Definirlo ‘genocidio’ a colpi di leggi può fare da blocco a qualsiasi discussione.