COSE DELL'ALTRO MONDO

Riccardo Cristiano

Giornalista e scrittore

1915-2017: il secolo lungo dei genocidi “difensivi”

Era il 27 dicembre dello scorso anno quando Thierry Messiyan, felicissimo per la liberazione di Aleppo, dal suo ufficio che si preume sia nella Beirut-sud controllata da Hezbollah scriveva sul sito dell’ideologia rosso bruna, Voltairent: “La liberazione della Siria dovrebbe continuare a Idlib. Questo governatorato è ora occupato da una serie di gruppi jihadisti, senza comando comune. […]Per sconfiggerli occorrerebbe dapprima tagliare le vie di rifornimento.” Missione compiuta, si potrebbe dire. Più difficile è capire come sia potuta passare tanto a lungo sotto silenzio la scelta di mandare proprio ad Idlib la popolazione, o ampia parte di essa, deportata da Aleppo. Chi non è stato internato o ucciso dopo l’operazione di Aleppo è infatti stato “accompagnato” –si direbbe con il consenso internazionale – proprio nella Idlib che Messiyan indicava come il next-target.

Messyian è l’ideologo di quella enorme rete transculturale che è arrivato a scrivere: “Dopo il ritiro di Fidel Castro, la morte di Hugo Chávez e il divieto imposto a Mahmoud Ahmadinejad di presentare un candidato alle elezioni presidenziali iraniane, il movimento rivoluzionario non ha più un leader mondiale. O meglio, non ne aveva più. Tuttavia, l’incredibile tenacia e sangue freddo di Bashar al-Assad ha fatto di lui il solo capo di un Esecutivo al mondo che sia sopravvissuto a un attacco concertato di una vasta coalizione coloniale guidata da Washington, e che sia stato largamente rieletto dal suo popolo.”

Esiste dunque un rossobrunismo laico-religioso che vede in Aleppo e in Idlib un passo avanti verso la liberazione degli oppressi. Come spiegarselo? Come riuscire in queste ore drammatiche a venire a capo di una simile matassa ideologica? Basta dire che l’ISIS ci ha chiuso gli occhi? No.

C’è e ci riguarda l’uso sapiente di molte perversioni ideologiche per creare una mega-perversione trasversale che si somma alla “teologia della geopolitica sovietica” la quale in molti casi spinge ancora molti di sinistra a ritenere che Mosca e i suoi alleati “laici” panarabisti abbiano sempre ragione, anche se l’unione sovietica non c’è più.

Ma è il genocidio armeno che ci aiuta a capire questo secolo tremendo, cominciato nel 1915 con il genocidio degli armeni e giusto oggi, nel 1917, a potersi far definire “il secolo lungo dei genocidi”. Innanzitutto si tratta di genocidi? Erano programmati, pianificati? Sì, infatti sono stati tutti genocidi difensivi. Per spiegarsi occorre prendersi un po’ di spazio.

Settembre 1862: chiuso nel suo ufficio di ministro degli esteri ottomano, Ali Pascià prese carta e penna e scrisse con toni accorati all’ambasciatore francese: “L’Italia, che è popolata da un’unica razza che parla la stessa lingua e professa una sola religione, ha sperimentato così tante difficoltà nella sua unificazione e al momento tutto ciò che ha raccolto è stato anarchia e disordine. Pensate a ciò che potrebbe accadere alla Turchia se tutte le diverse aspirazioni nazionali fossero lasciate libere… ci vorrebbe almeno un secolo e torrenti di sangue per ristabilire un pur minimo ordine” . La diffusione delle nuove idee europee, in particolare sul nazionalismo, spingeva Ali Pascià a una comprensibile preoccupazione. Espressa in termini che oggi possono essere definiti certamente “ottimisti”, visto che da allora è passato ben più di un secolo e i titoli dei giornali ci dicono che la via araba al nazionalismo ha fatto sprofondare quel mondo in una situazione che trova un possibile termine di paragone solo in quanto accadde ai tempi dell’invasione dei mongoli.

Non ho la pretesa di possedere lo specchio rotto della memoria araba, ho però una vecchia fotografia che ho comprato tanti anni fa su una bancarella del Cairo. Siamo in una strada non distante da Piazza Tahrir, il cuore della città moderna, in mezzo a quegli edifici in stile parigino con dolorosi inserimenti in stile sovietico; tra le auto del tempo si distinguono alcuni passanti, pantaloni a zampa d’elefante, basette lunghe, e una vigilessa: regola il traffico indossando una gonna al ginocchio. La sua divisa prevede anche una camicetta d’ordinanza e un foulard annodato al collo, che si vede spuntare sotto il colletto. Che cosa è successo? Probabilmente bisogna tornare proprio ai tempi del disfacimento dell’impero ottomano per farsi un’idea.

Quella foto, a mio avviso, ci indica proprio il lascito del mondo di cui parla il grande scrittore libanese Amin Maalouf, ricordando che suo nonno, un suddito del sultano di religione cristiana, poteva esibire fieramente la sua camicia bianca e il suo tarboush (o fez) rosso ben fermo in testa, dicendosi finalmente “orgoglioso di essere un cittadino ottomano”. Maalouf fa riferimento alla breve stagione della costituzione ottomana, quella che aveva trovato una soluzione al problema cruciale della cittadinanza. Il noto umanista Philip Mansel, studioso di Istanbul e dei sultani, ha riassunto con l’invidiabile capacità di semplificare nodi cruciali: “l’impero ottomano aveva al suo interno tanti popoli quanti ne aveva la monarchia degli Asburgo, e molte più religioni. Quel che lo rese unico fu il suo sforzo di farle vivere insieme. ”

Molti studiosi hanno sostenuto che la “modernizzazione” ottomana fu difensiva, cioè un tentativo di europeizzarsi per resistere all’Europa. E’ una spiegazione convincente che non toglie ciò che più interessa a Mansel: ventiquattro anni dopo il traumatico 1453, l’anno della conquista di Costantinopoli, “un censimento ebbe luogo per informazione personale del Sultano. C’erano, a Costantinopoli e Galata, 9.486 case abitate da musulmani, 3.743 case abitate da greci, 1.647 case abitate da ebrei, 434 case abitate da armeni, 384 case abitate da karamaniani di apparenza armena, 332 case abitate da franchi, 267 case abitate da cristiani di Crimea, 31 case abitate da gitani” risultava già riaperto il patriarcato ecumenico greco ortodosso e istituito un arcivescovado armeno, con poteri patriarcali, mai esistito prima.

Per diverse ragioni, il cammino ottomano per Mansel ha dunque cercato di risolvere il problema del vivere insieme, passando per il sistema delle nazioni (millet), in cui ogni comunità religiosa si regolava seconda le leggi della propria autorità religiosa, per arrivare al grande obiettivo della cittadinanza grazie al breve esperimento della costituzione ottomana, che tanto entusiasmo creò in casa Maalouf. In Turchia come nel mondo arabo l’Ottocento è stato un secolo importantissimo proprio per questo, perché la distrazione per numerosi eventi epocali, come ad esempio la riforma protestante e dovuta probabilmente alla percezione che fossero eventi che non li riguardavano, perché legati al cristianesimo, non si è ripetuta davanti alla Rivoluzione Francese, capita come fatto politico di grande rilevanza e non estraneo, visto l’enorme peso che Fraternità e Uguaglianza avevano sempre avuto per e nell’Islam. L’attenzione alla rivoluzione portò anche attenzione al concetto di cittadinanza, che divenne rapidamente familiare proprio per il carattere antiautoritario dell’islam delle origini. L’islam, oltre che come fede, può essere studiato come una rivoluzione proprio perché alle sue origini propose un sistema di governo post-tribale nel quale il Califfo veniva eletto per governare con l’ausilio e il consenso dei saggi come accadeva al capotribù, ma rivolgendosi a tutti i fedeli e quindi andando al di là della tribù. Quando dalla Francia è arrivato il nuovo slogan, la “cittadinanza”, si sono create le condizioni per immaginare il grande salto e superare la diseguaglianza tra i credenti e i non credenti, tra musulmani e non musulmani; e infatti molti intellettuali arabi cristiani si impegnarono con veemenza per arrivare finalmente al superamento dei millet , nei quali musulmani, cristiani, ebrei e altre minoranze erano rinchiusi in base alla loro appartenenza confessionale. Il varo della Costituzione ottomana fu dunque l’enorme risultato prodotto, dopo altre costituzioni precedenti, ad esempio quella tunisina, di questa appassionante pagina di storia ottocentesca, della quale molti cristiani sono stati indiscutibili protagonisti. Ma Cvdet Pascià, in una relazione proprio sulla promulgazione dell’editto di riforma del 1856, scrisse parole che ci saranno utilissime per capire alcune posizioni: “I patriarchi erano contrari… Sino ad allora in qualsiasi luogo dello stato ottomano le comunità erano ordinate gerarchicamente, coi musulmani per primi, quindi i greci, gli armeni e gli ebrei, ma ore tutte si ritrovarono poste allo stesso livello. Alcuni greci obiettavano a ciò dicendo: il governo ci ha uniti agli ebrei, ma a noi stava bene la supremazia dell’Islam.” Era questa, spiega Bernard Lewis, l’idea di alcune famiglie cristiane del Fanar – nome del loro quartiere di residenza ad Istanbul- che non intendevano perdere la simbiosi stabilita con “il palazzo”. Questa simbiosi spiega certe esitazioni dei patriarchi odierni.

La stagione del costituzionalismo ottomano fu breve, per molte ragioni: tra queste non si può dimenticare la Grande Guerra, nella quale l’impero, ormai agonizzante, si ritrovò governato dai Giovani Turchi, cioè dai modernizzatori laici, che in quel drammatico contesto bellico si allearono con gli imperi centrali contro Gran Bretagna, Francia e Russia. Laici, aperti alla modernità, arrivando al potere in tempi di guerra diedero enorme rilievo ai militari: è per questo probabilmente che è stato concepito il genocidio armeno. Perché? “I funzionari del governo ottomano erano determinati a smascherare qualsiasi quinta colonna (o presunta tale) che vedesse con favore gli obiettivi territoriali degli Alleati. Nell’Anatolia orientale unità dell’esercito e milizie irregolari organizzarono la deportazione di interi villaggi armeni e di altri cristiani ritenuti potenzialmente fedeli alla Russia.” Charles King riconosce molti meriti dei Giovani Turchi negli anni precedenti il conflitto, ma poi indica uno dei grandi nodi, quello del nazionalismo, che arrivò proprio con l’idea di cittadinanza dall’Europa, ma che, come aveva intuito Ali Pascià, divenne ben presto nazionalismo malato, come non può non essere quello che arriva a concepire un genocidio.

Per il mondo arabo i concetti di nazione e Stato sovrano erano novità importanti. Tra quanti vi si avvicinavano molti guardavano all’Europa, alle sue promesse di sostegno agli aneliti di sovranità e indipendenza, che univano molti intellettuali musulmani e cristiani in quell’esperienza nota agli storici come il risorgimento arabo, la Nahda.  Ma dall’Europa arrivava anche l’idea di un altro nazionalismo, e poi la scelta europea fu un’altra: anziché stati sovrani e basati su “libertà, uguaglianza, fraternità” si scelsero protettorati coloniali, britannici e francesi, costruiti su confini inventati a tavolino per dividersi le aree d’influenza.

Il colonialismo europeo è stato vissuto da molti come un tradimento, e questo ha indebolito quel filone che s’ispirava proprio all’esperienza europea, figlia dei lumi e dei diritti dell’uomo, e quindi a Stati sovrani per tutti e di tutti i loro cittadini. E nel rancore ha preso peso l’altro nazionalismo, “esaltatore dell’eterna missione di eterne nazioni portatrici di immortali valori”. Qui vale la pena di fare un esempio, paradigmatico; Michel Aflaq, fondatore del partito laico e panarabista Baath. Ex comunista nella sua esperienza e formazione francese, Aflaq ha sempre conservato, tornato a Damasco, l’impostazione centralista del PC nel quale aveva creduto e militato. Ma davanti al tradimento della sinistra francese, che conquistato il governo parigino confermava la scelta coloniale, ha sostituito nella sua visione il proletariato con i popoli colonizzati, in uno scontro tra nazioni sfruttate e sfruttatrici.

Il problema della cittadinanza, vitale per tutti ma ancor più vitale davanti alla complessità costitutiva del Levante e non solo, risuonava chiarissimo nello slogan coniato dal premier del primo governo post-coloniale siriano, Fares al-Khoury, “la religione è di Dio e la patria è di tutti”. Ma una catena di colpi di Stato ha oggettivamente rimosso tutto questo. La complessità sociale, religiosa ed etnica, è lentamente scomparsa, come indicano le parole attribuite ad uno dei più noti golpisti cresciuto nel partito Baath di Aflaq, l’iracheno Saddam Hussein : “curdi, arabi… siamo tutti arabi”.

Pensato da Aflaq in termini di grande “proletaria”, questo nazionalismo salvifico è rapidamente finito nelle mani di elites militari golpiste: non è il vincolo della legge a tenere unito un popolo, ma il senso di una continuità spirituale, di una “missione”. E la Nazione è ovviamente nazione per eccellenza, anzi “popolo originario”.

Ispirato dal pensiero europeo, il nazionalismo risorgimentale è stato progressivamente sostituito da quello totalitario, anch’esso forse ispirato da altri pensieri europei, e comunque nemico dell’individuo, soggetto progressivamente scomparso e sostituito da quella “nazione unica intestataria di diritti”. E “unico”, nella nuova era militare, ha sostanzialmente finito con l’essere il partito, e, soprattutto, il capo, presentato, ad ogni tappa, come espressione sempre più autentica della voglia di riscatto. Ma un modello così “unico” – una nazione, un popolo, un partito, un leader – poteva consentire più fedi?

La storia politica ha certamente legato questi regimi, quasi sempre militarizzati, con i capi provenienti dall’esercito impadronitisi dei partiti, legatisi all’Unione Sovietica, ha creato il mito “socialista” basato su diversi Movimenti di Liberazione Nazionale. I campus universitari, come ha notato tra i primi Gilles Kepel, erano in mano a studenti di orientamento marxista: emancipati dall’analfabetismo, arrivavano numerosissimi nell’epoca post-coloniale nelle grandi città, nutriti dall’attesa di progresso, sviluppo sociale, equa distribuzione di quelle risorse ora nazionalizzate e sin lì appannaggio delle potenze sfruttatrici. Ma la “nazione proletaria” di cui aveva parlato Aflaq, conquistata dai militari, non si è distinta da quella colonizzatrice. Non è difficile credere che i dividendi dell’indipendenza e le risorse, attesi dai giovani, questi sistemi totalitari li abbiano tenuti per sé e per i vari apparati di sicurezza connessi agli eserciti, vera “ala marciante” del nuovo potere.

Uno slogan egiziano dell’epoca nasseriana sembra riassumere tutto questo nel più eloquente dei modi: “nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia”. Una battaglia che in Egitto, in Siria, in Iraq, in Algeria, in Libia, è apparsa sempre la stessa: una battaglia che progressivamente ha cancellato i diritti della persona, o del cittadino, nel nome dell’esercito e del partito-nazione e quindi della destrutturazione della società civile, dove la moschea è rimasta come unico luogo di aggregazione non sopprimibile. Il socialismo apparente e l’alleanza con i sovietici (dopo l’epoca terzomondista) hanno accompagnato le retate di massa di chiunque dissentisse, dal campo di sinistra o da quello religioso. Esercito e servizi d’intelligence, le famigerate mukhabarat , sono divenute ovunque il segno di una politica sempre più vessatoria, oppressiva. Ci sono paesi che in mezzo secolo di storia hanno avuto un solo “leader”, altri due.

Incapaci di dare sviluppo economico, i regimi hanno fatto della repressione un’ideologia “totale”, tacciando ogni dissidente di essere “una quinta colonna” dei nemici della nazione; in questo il genocidio degli armeni, per difendersi da “quinte colonne” delle mire espansioniste russe, ha aperto un’éra.

Le quinte colonne si sono viste ovunque: tra i palestinesi dei campi profughi in Libano, trucidati all’inizio della guerra civile libanese dai siriani a Tell al Zataar (1976): in Siria le quinte colonne sono state viste annidarsi tra i fratelli musulmani arroccati ad Hama (1982); il regime, minando l’intero centro cittadino, lo fece crollare su un numero imprecisato di sepolti vivi, forse 10mila, forse 50mila, forse ancora di più. In Iraq le quinte colonne sono state viste tra i curdi, sterminati da Saddam Hussein con i gas ad Halabja (1988), durante il conflitto con l’Iran.Quello dei sunniti siriani è l’ultimo devastante “genocidio difensivo”. Davanti al timore iraniano-siriano (sciita) di un’avanzata saudita (sunnita) nel Levante, isolando l’Iran nel suo spazio centroasiatico, il regime filo-iraniano di Assad con il sostegno dei gruppi khomeinisti ha preso la decisione: “uccidiamo tutte le loro possibili quinte colonne”, cioè i sunniti. Proprio come avevano fatto i militari turchi con gli armeni.

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