Il volto di Ingmar Bergman (1918-2007) lampeggia in Gian Luigi Rondi: vita, cinema, passione, il documentario di Giorgio Treves sul veterano della critica cinematografica italiana presentato ieri in “Venezia Classici”. Bergman, infatti, si affidava a Rondi per la traduzione e l’adattamento italiano dei dialoghi dei suoi film.
E domani, 2 settembre, passa in concorso alla Mostra di Venezia il nuovo film di Roy Andersson (Göteborg, 1943), intitolato Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. E’ il terzo episodio di una “trilogia vivente” realizzata nell’arco dell’ultimo quindicennio: un film molto atteso dai cultori del regista considerato un paradossale e geniale erede del maestro svedese. Oltretutto Bergman ne lodò i cortometraggi e gli spot commerciali per cui Andersson, a partire da metà anni Settanta, ha vinto molti premi. “The slapstick Ingmar Bergman” è la definizione che di Andersson dette il settimanale statunitense “Village Voice”, alludendo alle sue commedie esistenziali tra il fantastico e il grottesco, con tocchi alla Beckett.
Insomma, nei giorni veneziani inevitabilmente il nome di Bergman ritorna, nonostante il suo cinema oggi non sia diffuso e valorizzato a sufficienza. E sì che parliamo di capolavori come Monica e il desiderio, Il posto delle fragole, Luci d’inverno, Persona, Sussurri e grida, Scene da un matrimonio, Il flauto magico, Sinfonia d’autunno, fino a Fanny e Alexander. Tra gli omaggi più belli, l’anno scorso sempre in “Venezia Classici” c’era il documentario Trespassing Bergman di James Magnusson e Hynek Pallas. E’ un pellegrinaggio nella casa-eremo del regista sull’isola Fårö, dove si autorecluse negli ultimi anni di vita, vedendo tre film al giorno di ogni genere e nazionalità, da Die Hard a Emmanuelle, a La pianista, estratti dalla videoteca domestica di 1771 titoli (veniva puntualizzato). Nella casa, trasformata in un piccolo museo bergmaniano, fanno tappa autori quali Lars von Trier, Ang Lee, Claire Denis, Woody Allen o Michael Haneke. “Se il cinema è una religione, allora questa è la Mecca o il Vaticano”, afferma Alejandro Gonzáles Iñárittu in Trespassing Bergman dopo essere approdato a Fårö nottetempo.
D’altronde, ben oltre la storia del cinema, il protagonista di Il settimo sigillo (1957), il nobile cavaliere Antonius Blok (Max von Sydow), incarna una metafora universale, possente e fragile, della condizione umana. Antonius, reduce dalle crociate in Terrasanta, propone alla Morte (Bengt Ekerot) una partita a scacchi pur di tardare il trapasso: avrà così il tempo di considerare errori e peccati e di pentirsene, ma anche il modo di rivedere la sua fedele sposa. Ecco l’etica di Bergman. Sfidare la Morte a scacchi e, in vista dell’inesorabile sconfitta, percepire che l’unica consolazione può venire da una mite famigliola di attori girovaghi, mentre ovunque allignano lutto e abiezione, o piaceri effimeri nel vano tentativo di esorcizzare il Male. Allora, preservare l’innocenza di quei saltimbanchi, allontanandoli da sé e quindi dalla Morte, prima di abbandonarsi alla misericordia di un dio che altrove Ingmar Bergman definì “tappabuchi”.
“Cupo”, “psicologico”, “tormentato”, “antispettacolare”, “freddo”… Sono alcune delle definizioni utilizzate nel bene e nel male per la filmografia bergmaniana: celebrata (vinse tre Oscar e un quarto alla carriera nel 1970), però mai altrettanto amata, neppure da tutta la critica. Lo testimonia un’appendice del dizionario il Morandini, che, fra i cento migliori registi del mondo, colloca Bergman intorno al settantesimo posto. Di contro, genî del cinema quali Federico Fellini e Woody Allen (che gli dedicò Interiors), hanno sempre riconosciuto in lui un’ineguagliabile capacità di analizzare, scandagliare, illuminare i frammenti dell’esperienza e il male di vivere, con la poetica, lo stile, l’espressività drammaturgica e filosofica di un classico. Bergman come Pirandello, Kafka, Dreyer, o Strindberg, cui spesso egli s’affratella nel segno del Kammerspiel, il dramma da camera con vista sui rigori del Profondo Nord.
Scrisse Bergman nel libro autobiografico La lanterna magica (Garzanti ed.): “La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra, passeggio per le silenziose via di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà”. Un puer aeternus, meno giocoso del fanciullino romagnolo vivido in Fellini, anche perché il piccolo Ingmar cresce a Uppsala con un padre cappellano della corte reale svedese, che gli impartisce un’educazione rigida, legata ai concetti luterani di “peccato, confessione, punizione, perdono e grazia” (il che non gli impedirà di sposarsi cinque volte e di avere otto figli). Donde l’interesse del Nostro per l’universo simbolico e l’inclinazione verso la pensosità filosofica (Kierkegaard, in primis) che innervano tutto il suo lavoro, insieme alla passione inesausta per la psicologia femminile.
Un gigante lacerato, Bergman. Subì persino l’onta del carcere a causa di questioni fiscali poi chiarite, l’esilio, e un ricovero psichiatrico per depressione. Trovò rifugio – e relativa pace – appunto nella piccola isola di Fårö dove morì a 89 anni, d’estate. Nella luce del Baltico, sulle spiagge con rocce dalle forme bizzarre, lontano dai mille premi che continuava a rifiutare, solo là riusciva a stemperare la prosa del mondo nella natura, la storia nelle acque, l’angoscia nel silenzio. Il suo cinema resta una “sinfonia d’autunno” – non senza allegrezze “primaverili” (fa testo il meraviglioso compendio di Fanny e Alexander, 1982) – che allude all’Europa colta e in declino, tuttavia ancora capace di preservare un candore sorprendente e una tensione verso l’Assoluto che può essere più forte della paura.
Perciò quella partita a scacchi che non possiamo vincere, in fondo non è del tutto persa. Almeno, colto al volo, questo è uno dei pensieri del piccione seduto sul ramo che riflette sull’esistenza.
Superlativo Iarussi.