Sono passati settanta anni dal sabato nero della razzia degli ebrei romani compiuta dai nazisti con la generosa partecipazione fascista. Settanta anni in cui tutto è cambiato: il mondo, l’Italia, Roma, la Piazza, come i romani chiamano l’ex ghetto, teatro principale dei fatti di quell’ottobre 1943. Tutto è cambiato, vero, eppure quel passato terribile è ancora tra noi, in modo tangibile. Lo è per i famigliari delle vittime, per la comunità ebraica tutta, e lo è ancora prepotentemente per la città di Roma, e per il Paese nel suo insieme.
In questi giorni, Roma brulica di iniziative commemorative. Chi le segue da vicino, le organizza, le studia, vi partecipa in un modo o nell’altro, sa che non c’è nulla di vuoto, formalistico e stereotipato – quel che nel linguaggio comune si dice erroneamente ‘ritualistico’ – nelle molte iniziative commemorative. C’è un lavoro capillare nelle scuole, nelle università, nei quartieri, fatto di libri pubblicati e discussi, convegni, letture collettive, proiezioni di film e messe in scena di spettacoli teatrali, insomma cultura, a molto livelli; riflessione e memoria, insieme, non come due termini in contrapposizione. Ci sono libri di particolare pregio, come il recente Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 di Anna Foa, che sono come un lenzuolo che copre delicatamente – quasi a voler dare loro una impossibile protezione, nome per nome, storia per storia, strada per strada, casa per casa – vittime a cui non si è potuta dare neanche una tomba, e che costruiscono memoria attraverso una ricerca storica nutrita di rigore filologico assoluto. Memoria e riflessione, insieme. Una memoria futuri, come ricorda papa Francesco, che come l’Angelo della storia tiene il viso rivolto al passato a voler ricomporre l’infranto mentre è trascinato verso il futuro. Ci sono memorie private, di famiglia, di comunità, e ci sono memorie pubbliche. Della memoria pubblica del 16 ottobre 1943 posso parlare, e voglio farlo.
A settanta anni da quel 16 ottobre, Roma (e il Paese) mi sembrano ancora intrappolati nella stessa schizofrenica contraddizione di allora. Tutto è cambiato, chiaro. Non c’è una guerra, non ci sono i nazisti in strada, grazie al cielo. Allora mezza città era perseguitata, e l’altra mezza cercava di prendersene cura, a proprio rischio e pericolo. La solidarietà non solo interna alla comunità ebraica, ma quella della città verso i suoi cittadini ebrei non è una leggenda progressista, ma è stata una realtà di cui la storia offre mille e mille testimonianze. Gli ebrei venivano nascosti nelle case, negli ospedali, nei conventi, ovunque si potesse offrire loro un riparo. Eppure, quella stessa città (quello stesso Paese) tradiva, orribilmente, per soldi o per ideologia. Era una città, un Paese, in cui la propaganda antisemita era diventata “più pervasiva ed efficace” di quanto ritenuto fino ancora a pochi anni fa, come Anna Foa ci ricorda in Portico d’Ottavia 13, così come di converso la solidarietà di chi tentava di salvare gli ebrei non era solo genericamente umanitaria ma si nutriva anche di ideologico e consapevole rifiuto dell’antisemitismo nazista e fascista (p. 122). Oggi tutto è diverso, chiaro; papa Francesco tuona la contraddizione dell’essere cristiani ed antisemiti, con parole e gesti che fanno fare passi ulteriori in avanti al dialogo tra le due fedi, e che non glissano sulle responsabilità passate del mondo cattolico. Eppure, quel trauma non è alle nostre spalle, non è ‘solo’ una memoria da curare, una cicatrice sì profonda ma rimarginata; è una piaga ancora aperta, perché per quanto assurdo possa apparire è parte di una memoria ancora controversa. Prova ne sia quanto sta succedendo intorno alla morte di Erik Priebke.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine, legato al 16 ottobre ’43 da mille fili pur conservando l’attenzione storicamente dovuta alla singolarità degli accadimenti, è pagina fondante l’identità democratica e antifascista di Roma e del Paese. Se c’è un luogo in cui Roma si ritrova, non al di là di ogni divisione, ma al suo meglio, questo è il mausoleo delle Fosse Ardeatine. Ma di nuovo oggi Roma, e il Paese, vivono una condizione schizofrenica. C’è ancora chi non la pensa così, chi non sente e non crede che quello sia l’unico tempio laico intorno al quale raccogliersi. Sui muri della città si legge ‘onore a ‘Priebke’, con la svastica come firma; su facebook nascono gruppi che inneggiano a Priebke come ‘eroe del passato e del presente’, e in cui si definiscono le vittime ‘300 italiani inutili’; sulle prime pagine di quotidiani nazionali si leggono inviti alla ‘pacificazione’ e alla carità, magari ‘cristiana’, nei confronti di un uomo che dovrebbe avere un funerale come tutti. Che quell’uomo sia stato un criminale che mai ha mostrato un segno di tentennamento, per non dire pentimento, per i suoi crimini, pare marginale. Che il luogo di sepoltura di quell’uomo possa diventare meta di pellegrinaggio e culto per nostalgici e negazionisti non della domenica, ma ben organizzati e strutturati, poco conta.
Le memorie sono ancora divise. La memoria necessita di spazi, luoghi, simboli. E la memoria non è mai singola, si declina sempre al plurale, per quanti sono i gruppi che compongono una collettività. Non fa scandalo, né problema dal punto di vista teorico. Nella pratica, però, ognuno deve fare le proprie scelte: prendere parte, fare una scelta di campo. Le istituzioni, la Chiesa, in relazione alla questione Priebke la stanno facendo. Si userà l’ultimo video-testamento lasciato dal carnefice per costruire un ulteriore tassello di una narrazione negazionista. Così funziona la memoria. Ma dal conflitto tra memorie che oggi attraversa Roma e il Pese, così come ieri dal conflitto tra opposte ideologie, nasce e cresce una rinnovata consapevolezza delle ragioni alla base del patto costituzionale. La narrazione del trauma collettivo che il 16 ottobre del ’43 e le Fosse Ardeatine rappresentano è ancora in costruzione. Dare quella narrazione per acquisita fino a farne un luogo comune da superare, un triviale topos retorico, è un errore. Si tratta di una lotta per l’egemonia ancora in corso. La pacificazione a prezzo della giustizia perseguita allora (si pensi all’amnistia), oggi in voga non meno di ieri, non è vera pacificazione. Nostalgie e forme di antisemitismo, come di razzismo e xenofobia, abitano ancora tra noi. Chi crede in una narrazione democratica, pluralista e antifascista stenda dunque il proprio lenzuolo sulle vittime di ieri e di oggi, faccia la propria scelta di campo, sia partigiano, combatta l’indifferenza, e non posi pietre a edificazione di templi neri.