THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Rai al bivio, senza canone o senza pubblicità

 

Una delle espressioni che più caratterizzano i discorsi di tanti politici capaci di parlare per ore senza dire assolutamente nulla, è “dobbiamo fare una sintesi”. Ed invece, come ha intuito Matteo Renzi, non è più il tempo delle sintesi ma delle scelte. Questo sembra decisamente essere il caso della RAI e aldilà dei tagli, delle cessioni e degli scioperi è arrivato il tempo di una scelta strategica netta. O abolisco il canone, oppure elimino la pubblicità.

O la RAI viene privatizzata, il canone scompare e essa vive, come le fondazioni americane alle quali è affidato il compito di trasmettere contenuti di rilevanza pubblica, di pubblicità e donazioni private che lo Stato facilita riconoscendone un favore fiscale. Oppure si adotta, fino in fondo, il modello che prevale in tutta Europa ed in maniera rigida nel Regno Unito che inventò nel 1920 il servizio pubblico: si abolisce, al contrario, la pubblicità e la principale azienda culturale del nostro Paese smette di inseguire Mediaset e si dedica a recuperare legittimità al canone, fornendo alla società italiana contenuti che le televisioni commerciali non si possono permettere.

In tutti e due casi, sia se si decidesse di rispondere alla società civile (come nel modello americano), sia se, invece, si scegliesse di voler fare i conti direttamente con i contribuenti (come in quello inglese), per la RAI dovrebbe finire – e per sempre – la dipendenza dalla politica che ha ridotto così drasticamente il prestigio e la sostenibilità economica di quella che ancora è la prima azienda culturale di un Paese che dovrebbe avere la cultura al centro di un qualsiasi progetto di rilancio.

L’impatto economico di decenni di lottizzazioni sistematiche – che, pure, non ha impedito di reclutare alcune grandi professionalità – sono noti: l’azienda di Stato ha, nel tempo, ingoiato talmente tanti collaboratori – aumentando peraltro nel tempo la quota di precari e consulenti – che, oggi, con la metà dei ricavi (2 miliardi e mezzo rispetto a più di cinque) della BBC, la RAI ha un costo per personale (un miliardo pari, cioè, ad un costo medio di centomila euro a dipendente) grossomodo simile a quello dell’emittente pubblica inglese. Del resto se la RAI mostra nell’ultimo esercizio certificato più di 200 milioni di euro di perdite, la BBC conferma un risultato positivo per circa 350 milioni di sterline.

Ma il problema più grosso non è tanto quello economico, ma di dipendenza “culturale” (grave per un’impresa che dovrebbe appunto produrre cultura) dalla politica.

Qualche anno fa, l’Osservatorio di Pavia provò a monitorare per due settimane i contenuti dei telegiornali pubblici dei cinque Paesi più grandi d’Europa: in 8 dei 14 giorni di svolgimento dell’esperimento, la percentuale più alta di tempo dedicata alla politica nazionale fu registrata dalla televisione italiana; e se in Francia, Germania, Spagna e Inghilterra in almeno uno dei 14 giorni la politica del Paese risultava essere sparita dal palinsesto per mancanza di notizie, essa non occupava mai meno di un terzo del notiziario che entra nelle case di tutti gli italiani. Interessante anche il tipo di notizie politiche pubblicate: in Europa due terzi di esse ha a che fare con l’analisi e le reazioni a provvedimenti già adottati; in Italia per due terzi si riferiscono a esternazioni e risposte a tali annunci da parte di esponenti dei diversi partiti.

Ma la situazione è, persino, peggiore se si considera che i politici in Italia – e ciò rappresenta un caso davvero unico – dominano i talk shows anche laddove essi dovrebbero essere dedicati a approfondimenti che hanno bisogno di competenze specifiche, e sono presenti in maniera massiccia anche nei programmi di intrattenimento e persino quelli sportivi.

L’impressione è che essendo i politici quelli che governano l’emittenza pubblica, i giornalisti RAI li ricompensino – più per una forma di abitudine che sulla base di un calcolo razionale – chiamandoli come comparse dappertutto per soddisfarne la vanità. Peraltro tali metodi hanno una evidente capacità di contagio anche sulle televisioni private (e non solo quelle MEDIASET) con il risultato che la politica diventa una sorta di soap opera nella quale tutti – protagonisti e utenti – perdono un sacco di tempo,qualsiasi contatto con i problemi concreti ed il contenuto informativo che viene richiesto a chiunque voglia affrontarli.

Cosa fare dunque? In qualsiasi caso, va sottratta alla politica la gestione di un giocattolo che, del resto, non conviene neanche controllare. Pochissimi lo notano, ma in tutte e sei le elezioni nazionali che si sono tenute nei vent’anni di seconda Repubblica, ha sempre perso chi governava e, dunque, aveva il controllo della televisione pubblica. Può essere un caso, ma forse neppure alla politica conviene più occupare la RAI e sacrificarne il potenziale umano e professionale: un dibattito serio, informato è fonte concreta di idee in altri Paesi normali dove da tempo si sono rassegnati all’idea che le elezioni politiche si vincono solo raggiungendo risultati.

Si abolisca, dunque, il canone consentendo alla RAI di guadagnarsi uno per uno i propri sponsor; o, al contrario, si abolisca la pubblicità riportando la RAI al suo mestiere originale che era fatto di invenzione di nuovi formati, produzione di contenuti originali che facciano leva sul patrimonio unico che questo Paese ancora detiene. In maniera da polverizzare i motivi per i quali a molti appare socialmente accettabile l’evasione del canone e facendo, anzi – questa è la proposta più innovativa e visionaria tra quelle che circolano – scegliere da chi paga i dirigenti della nuova RAI.

Senza però – come chiede Gubitosi – tagli lineari che prescindano da un piano industriale e, soprattutto, da una strategia di Paese e del ruolo che la RAI ha in tale progetto. Progetto da realizzare in tempi né troppo brevi da renderlo non realistico, né tanto lunghi dal non potervi legare carriere e remunerazioni. Senza mettere sullo stesso piano i risparmi possibili ed immediati e le cessioni di infrastrutture.Senza regali alla concorrenza che è stata essa stessa danneggiata dall’assenza di un competitore capace di sfidarla su un piano diverso di qualità.

In fondo, la politica (e la RAI) diventerà in Italia davvero migliore, solo quando se ne parlerà di meno: usciremo da una crisi che non è solo economica, solo quando il politico avrà finalmente tempo di riflettere su un quadro complessivo senza girare tra studi televisivi facendosi dettare l’agenda dall’ultima notizia, i giornalisti non saranno più costretti ad aspettare esternazioni che non sono notizie e i cittadini avranno scoperto che i cambiamenti non avvengono aspettandoli seduti comodamente su un divano di fronte alla televisione perché essi passano sempre attraverso la responsabilità di tutti.

Pubblicato su Il Messaggero e su Il Gazzettino del 9 Giugno

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