Come mai il regime di Bashar al Assad che si vuole “trionfante” ha dovuto cancellare le prossime elezioni? Più che un voto era una dichiarazione di vittoria. Bashar al Assad aveva deciso di dichiarare chiusa la guerra, il popolo gli avrebbe dato lo stucchevole 99% di sempre e lui avrebbe proclamato il “game over”, si sarebbe aperta l’epoca del secondo regno di Bashar. Non è andata così. Dobbiamo capire perché. Dal punto di vista della propaganda è gravissimo che il rinvio sia dovuto arrivare proprio alla vigilia del nono anniversario della rivoluzione.
15 marzo 2011. E’ questa la data che, convenzionalmente, segna l’inizio della “rivoluzione siriana”. E’ stata una rivoluzione prima tradita, poi rimossa, infine dimenticata. Se la capitale di questa rivoluzione impossibile è Daraa, dove dei bambini di una decina d’anni vennero prima torturati e poi riconsegnati ai loro famigliari per fini intimidatori in condizioni indicibili, allargando l’incendio a tutta la Siria rurale, la capitale del tradimento globale è stata la Ghouta, dove l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano nell’agosto del 2013 fece frettolosamente cancellare le linee rosse tracciate sul deserto siriano dal presidente Barack Obama. E’ cominciato lì un lento calvario che ha portato in Siria l’Isis, con il pieno appoggio del regime che dopo averne aiutato la formazione ne sostenne anche la diffusione, consapevole che solo quel mostro ne avrebbe giustificato agli occhi del mondo la propria barbarie, concretizzatasi nella deportazione di 6 milioni di persone, alle quali oggi si vorrebbero aggiungere altri 3 milioni di deportati, quelli rinchiusi ad Idlib, tra i bombardamenti russi che li cacciano verso la vicino Turchia e il muro turco che gli impedisce di procedere. Idlib lo sapeva che sarebbe andata così. La sua inimicizia con gli Assad risale all’unica visita del presidente-padre, Hafez, accolto a pomodori. I conti con Idlib aperti da allora si stanno facendo ora, per mano del presidente-figlio.
Dopo aver fatto di tutto per impossessarsi con le loro squadracce jihadiste della rivoluzione libertaria e democratica e trasformarla una una sentina wahhabita, i regimi del Golfo sono già in fila davanti al portone di Assad per riprendere i loro lucrosi rapporti diretti e partecipare alla ricostruzione di un paese ridotto in macerie, decimato. Quelle squadracce wahhabite miravano in primis ad affossare quel vento di libertà e democrazia che dalla Siria avrebbe potuto contagiare anche il Golfo. Sembrerebbe proprio che siamo al “game over”, suggellato dall’accordo tra Turchia e Russia, che con quel patto hanno detto al mondo che la Siria è loro e Assad è solo il luogotenente di Putin. Certo, la spartizione non è in parti uguali: Erdogan ha ottenuto solo due corridoi, nel nord est e nel nord ovest, a discapito dei curdi, mea lui massacrati. Ma l’assenza degli iraniani a quel tavolo imbandito da Putin e Erdogan, che avevano offerto di ospitare a Tehran per indicare una tripartizione, indica la novità. E questa novità si chiama coronavirus.
Un medico siriano, direttore di un ospedale civile di Damasco, ha rilasciato un’intervista pochi giorni fa. A microfoni spenti ha commesso l’errore di dire che “i morti sono tanti, ma non possiamo dirlo”. Non possiamo neanche sussurrarlo, dottore, gli ha detto il regime, che lo ha contatto poche ore dopo in prigione. Perché? Perché la Siria sembra un paese devastato dal coronavirus. La gente cade per terra e poi scompare, raccontano amici siriani dietro il giuramento di coprirli con l’anonimato. Vengono tutti portati all’aeroporto, da dove verrebbero mandati a morire a Tehran. L’esercito siriano con l’ausilio dell’aviazione russa ha distrutto la stragrande maggioranza degli ospedali siriani, deportato quasi tutti i medici. Esistono ancora quelli militari, ma le migliaia di civili colpiti dal virus non vi hanno accesso. Inoltre sarebbero tantissimi gli iraniani che hanno contratto il virus presenti in Siria. Alcuni dati riportati da organizzazioni sanitarie che si occupano di rifugiati asseriscono che i morti sicuri, verificati, sarebbero già 500, in Siria. Tantissimi in gravi condizioni verrebbero intercettati nei pressi del santuario di Zeinab, dove si recano a pregare, non distante da Damasco: e anche loro verrebbero condotti all’aeroporto.
L’autodistruzione del sistema sanitario nazionale è talmente grave da prospettare scenari apocalittici. Quelli che già ci sono in Iran. Anche qui manca il necessario per contrastare il coronavirus e la situazione potrebbe sfuggire dal controllo delle autorità. Si parla di stazioni ferroviarie presidiate dai pasdaran. Ecco che appare sottovalutata la notizia bomba di questi giorni: il governo iraniano ha chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale, dicendo di aver bisogno di un prestito di 5 miliardi di dollari. I miliziani khomeinisti libanesi di Hezbollah nei giorni trascorsi esultavano per le strade di Beirut per la decisione del governo di Beirut di dichiarare default: non cediamo all’imperialismo! Era questa la loro interpretazione della decisione del governo di non pagare i debiti spropositati contratti da un governo di malaffare condiviso per anni da tutti. Se questa è la reazione della pancia antagonista davanti a una dichiarazione di default, quale sarà la reazione davanti a una richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale? Mostra i muscoli il piccolo Libano e non li mostra il paese guida della rivoluzione?
In realtà il punto è molto più grande e andrà capito. E’ ben noto infatti che quando il Fondo Monetario Internazionale viene invitato a risanare una ferita non lascia gestire le cure dal medico locale. Cioé: se fosse davvero il Fondo a prestare i 5 miliardi all’Iran, l’Iran non potrebbe pensare di spendere miliardi di dollari ogni anno per armare Houthi, Hezbollah, Jihad islamica e altri clienti. E’ quello che chiede l’opinione pubblica iraniana da anni, è quello che imporrebbe il Fondo: Scenario pensabile? Immaginabile? La notizia è talmente esplosiva, con il ricovero di tanti ministri e consiglieri di Khamanei, che l’idea di un un trauma tra i palazzi degli opposti poteri iraniani appare possibile. Il governo è forse un fortilizio dei pragmatici, mentre il Parlamento è nelle mani dei falchi. Dunque? Dunque il coronavirus apre scenari impensabili. Il Libano è in default, la Siria decimata da Assad si trova senza un sistema sanitario e a deve mandar via morti e malati per evitare che il panico sconvolga il Paese. L’Iran poi, con un mare di leader politici in quarantena e un’epidemia che miete vittime su vittime in ogni città, chissà in campagna, arriva a compiere il passo mai compiuto dai tempi della rivoluzione e chiede l’intervento del Fondo. Ecco il rinvio del voto. Il regime ovviamente lo nega, ma il motivo è chiaramente il coronavirus e le sue conseguenze.
Per i siriani tutto questo non vuol dire altro che nuovi dolori, nuove sofferenze, un abbandono sanitario che sa di tragedia nascosta malamente, ma per chi ha ordinato tutto questo dal suo tavolino sembra difficile poter dire davvero che nove anni dopo l’inizio dello stermino sia davvero l’ora del “game over”. E in tutto questo c’è un pensiero che dovrebbe sbigottire di orrore ogni essere umano normale: e se il coronavirus arrivasse, potesse arrivare anche lassù, tra i deportati di Idlib? Li abbiamo visti assiderati alcuni bambini di Idlib, inseguiti dalla bombe di Assad e bloccati dal muro di Erdogan. Bambini bellissimi, bagnati solo dal pianto disperato delle loro madri. Ma se il coronavirus potesse arrivare lassù, se quelle temperature ancora proibitive ne consentissero la diffusione fin lì, a quale orrore dovremmo preparaci? Anche questo sarebbe tollerabile? Anche un milione di morti accatastati nelle alture di Idlib li potremmo far scorrere in coda ai tg?