In questi giorni è in Italia Michael Walzer, un pensatore politico che, pur operando nell’area dei pensatori americani di sinistra, non può essere definito un liberal, come ha opportunamente sottolineato Sebastiano Maffettone domenica scorsa sul domenicale del “Sole 24 Ore”. Il quale ha scritto che, nel suo caso, deve parlarsi piuttosto di un socialdemocratico di tipo europeo, anche per formazione. Forse si potrebbe azzardare di più, e definirlo addirittura un socialista liberale. E’ vero che egli passa per un critico del liberalismo, ma quello che lui critica è in verità il modello classico del liberalismo, oggi ampiamente “ssuperato” da altri modi di considerarlo. Ma, a parte ogni definizione, Walzer è interessante perché critica alla base, da un punto di vista di sinistra, il presupposto base del pensiero liberal: la normatività, l’idea di una “teoria” nel senso forte della parola. Con tutto quel che ne consegue, anche per la politica. Un’idea che, come egli dice, accomuna Rawls e Habermas, due coerenti tardo-metafisici dal mio punto di vista. E’ questo, credo, che me lo rende particolarmente simpatico: il punto che vedo centrale del suo pensiero. Lo mettevo in evidenza nel capitolo a lui dedicato dei miei Profili riformisti (Rubbettino, 2009), che a sua volta riproduceva un testo uscito in precedenza. E’ uno scritto di dieci anni fa, che andrebbe quindi aggiornato con gli ultimi e interessanti sviluppi del pensiero walzeriano, ma credo opportuno riproporlo comunque in questa sede. A mio avviso, conserva una certa funzione di introduzione al pensiero walzeriano, per chi non lo conoscesse.
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Michael Walzer è senza dubbio, per posizione accademica
e influenza pubblica, nonché per profondità di pensiero,
uno dei maggiori intellettuali statunitensi. È anche un
intellettuale “impegnato”, ma in un senso alquanto diverso da
quello in voga nella cultura europea (cfr., a tal proposito, La
libertà e i suoi nemici, la bella intervista realizzata con lui da
Maurizio Molinari, appena pubblicata da Laterza).
L’impegno sociale di Walzer cominciò in verità molto presto,
prima dei trent’anni (è nato a New York nel 1935), quando
cominciò a collaborare a «Dissent», la rivista cult (e sofisticata)
dei liberal e socialisti americani di cui oggi è condirettore.
Eravamo agli inizi degli anni Sessanta e montava negli Stati
Uniti, soprattutto ma non esclusivamente nei campus universitari,
il movimento radicale per i diritti civili (di neri, donne,
omosessuali e ogni sorta di minoranza). Walzer fu inviato
nelle città del Sud a seguire i sit in, soprattutto degli studenti
neri, e ne scrisse con acume e lucidità sulla rivista in brillanti
reportages. Da quel momento la dimensione politica fu in lui
essenziale per l’elaborazione delle sue dottrine, in un senso più
profondo di quanto sia stato per altri filosofi politici pure importanti.
Per chi ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’impegno
e della partecipazione, in effetti, non c’è dubbio
che ogni teoria, anche la più sofisticata e persuasiva, finisca
per apparire un po’ un’astrazione, il frutto del vizio intellettualistico.
Il problema per Walzer – che cominciò in quegli
anni anche una straordinaria carriera di docente che da Princeton
lo avrebbe portato a Harvard per farlo infine approdare
(nel 1980) alla cattedra di Scienze sociali del prestigiosissimo
Istituto di studi avanzati della cittadina del New Jersey –
è di natura metodologica. Non è infatti plausibile, egli osserva,
aggredire la realtà della politica – che è fatta di frammentazione
e conflitti, di particolarismi che per quanto composti
risorgono sempre – con un approccio logico e culturale a essa
non appropriato. Non è possibile, detto altrimenti, usare un
metodo astrattamente universalizzante o filosofico. Un metodo
che, se si proponesse di applicare conseguentemente le sue
conclusioni “teoriche” alla vita politica, sortirebbe come effetto
nientemeno che la morte della politica stessa. È un rischio
corso appunto, secondo Walzer, dalla maggior parte degli studiosi,
a cominciare dai due massimi filosofi politici del dopoguerra:
John Rawls e Jürgen Habermas. Il nostro li chiama «filosofi
eroici», in quanto essi intendono giungere, con un procedimento
spesso titanico, a una sicura fondazione della politica.
Si immaginano a tal fine una «posizione originaria» o
una «situazione discorsiva ideale», in cui è eliminata ogni sorta
di scoria o «impurità». Essi si propongono di razionalizzare
la politica, mostrarla a se stessa trasparente, renderla coerente.
Il che, in verità, è nulla più che una contraddizione in
termini. In questo modo il meccanismo di pensiero messo in
moto dai filosofi eroici non è in grado di garantire quella giustizia
e quella democrazia che essi cercano e di cui intendono
offrire la teoria. Il fatto è che, osserva Walzer, gli individui entrano
in politica per affermare non solo la ragione e la giustizia,
ma anche i loro interessi particolari. E anche per soddisfare
le loro passioni ideali. Tutti questi elementi, e anche altri,
formano un impasto inscindibile. La giustizia, se ha da esserci,
non nasce certo a tavolino, ma sarà il frutto del riconoscimento
reciproco e di un accordo finale sempre precario perché
nato da una composizione parziale e provvisoria dei conflitti.
I conflitti sono pertanto, per lo studioso americano, da
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una parte il presupposto che la politica deve continuamente
superare, ma dall’altra l’ineliminabile nucleo che ne costituisce
l’essenza. D’altronde, come dirà spesso, un mondo pacificato
e senza conflitti è anche un universo senza libertà (cfr.
Ragione e passione. Per una critica del liberalismo, Feltrinelli,
Milano 2001).
La politica è dunque, per Walzer, l’ambito della pluralità
e del pluralismo. Ed è anche e soprattutto «arte della separazione
»: in primo luogo delle sfere sociali, che devono reciprocamente
controllarsi e devono evitare che una di loro prevarichi
sulle altre. Il politico, egli dice, deve coltivare con cura l’idea
del limite (cfr. Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987).
La critica dello studioso è diretta, in particolare, al repubblicanesimo
o democrazia radicale e al socialismo marxista, a
sinistra; all’ideologia del libero mercato e al nazionalismo, a
destra. Queste ideologie fanno ognuna riferimento, dice Walzer,
a un particolare tipo di cittadino: quello che partecipa alle
assemblee e vive sempre nella sfera pubblica, il lavoratore
teso a porre rivendicazioni meramente economiche, il consumatore,
l’appartenente a comunità chiuse ed etnicamente autoreferenziali.
Senonché l’individuo e il cittadino sono tutto
questo e tante altre cose, non possono essere ridotti a un solo
aspetto se non si vuole far riferimento a un «uomo a una dimensione
». Ognuno ha mille impegni e mille lealtà, ed è giusto
che sia così. L’importante per Walzer è che queste lealtà
siano liberamente scelte e che sia sempre possibile il dissenso
e anche l’exit, ovvero la fuoriuscita dal gruppo o dalla comunità
a cui si è deciso di aderire. L’ideale politico per eccellenza
è la libera associazione: una situazione in cui «le persone si
associano e comunicano liberamente le une con le altre, formando
e riformando gruppi di ogni genere, non per amore di
un qualche schieramento particolare – famiglia, tribù, nazione,
religione, comunità, fratellanza o sorellanza, gruppo d’interesse
o movimento ideologico – ma per amore della socialità
stessa». I vari studi sulla società civile di Walzer sono tesi a mostrare proprio l’assunto che le società più solide sono quelle
fondate su un libero associazionismo politico (nel senso lato
del termine). La società civile è l’organismo intermedio fra
Stato e individui: la dimensione della frammentazione e della
lotta, ma anche dell’impegno e della solidarietà.
Alla base del pensiero di Walzer c’è pertanto un’idea non
riduzionista anche dell’uomo, dell’individuo che come cittadino
entra a far parte della società civile: non esiste propriamente
un in-dividuo, un ente indiviso, compatto, non distinto.
Tuttavia ognuno è come attraversato e diviso da forze plurali
e a loro volta conflittuali, che vanno certamente ricomposte
ma senza soggiacere a inumani ideali perfezionistici. L’io è
conflittuale prima di tutto in se stesso, a maggior ragione lo è
nella vita morale. La politica (liberale) non deve mai dimenticare
o fare astrazione di questa complessità.
La critica della filosofia eroica se da una parte segnala la
diffidenza di Walzer per ogni tipo di filosofia speculativa o
astratta, che voglia imporre il proprio ideale alla (per fortuna
sempre recalcitrante) realtà, dall’altra pone il problema di capire
in che modo debba concretizzarsi quell’“impegno” del
filosofo, e in genere dell’uomo di cultura, che per il nostro autore
è, come dicevamo all’inizio, fondamentale. Se l’intellettuale
non deve astrarsi dalla pòlis, in che modo deve starci?
Ovvero: quale è il ruolo del filosofo nelle società democratiche?
Non c’è dubbio, lo abbiamo visto, che tra filosofia e
democrazia ci sia una tensione: in democrazia non è questione
di verità ma di opinioni, non vige il regno dell’uno ma dei
molti. «Nel mondo dell’opinione – scrive efficacemente Walzer
– la verità è invero un’altra opinione, e il filosofo è solo un
altro elaboratore di opinioni». Ma, di grazia, quale è l’opinione
del filosofo? Deve egli dismettere completamente i suoi
abiti e gettare nel pozzo la sua conoscenza, o può farla fruttare
in altro modo? Per risolvere il dilemma, lo studioso americano
distingue la teoria sociale dalla critica sociale (Interpretazione
e critica sociale, Edizioni Lavoro, Roma 1990). La pri-
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ma, dice, ha un carattere e uno scopo propriamente intellettuale;
la seconda si serve degli strumenti intellettuali ma è
pienamente inserita nell’agone politico. Una buona critica sociale
è fatta di buone teorie, ma anche di indispensabili virtù
e passioni; di criteri più o meno validi, ma soprattutto di opportuni
comportamenti. Walzer parla delle virtù del coraggio,
della compassione e della «buona vista», del dubbio o scetticismo
costruttivo, dell’umiltà, dell’onestà intellettuale, che
porta a non essere prevenuti e a non innamorarsi troppo delle
proprie idee e dei propri pre-giudizi. Nello stesso tempo
però invita a diffidare della critica sociale quando «non è il
prodotto della virtù comune, dell’umanità ordinaria». Confermando
che ogni ideale «eroico» va accortamente evitato.
La particolare scelta metodologica di Walzer si riflette nel
suo stile di pensiero e di scrittura, nel procedere spesso volutamente
tortuoso dei suoi ragionamenti, nella sua tendenza a
sovrapporre elementi e a complicare le idee piuttosto che a
renderle astrattamente lineari e coerenti. Ma si riflette anche
nella risposta mai univoca che egli dà ai problemi che di volta
in volta affronta. Se si cercano sicurezze e risposte, chiavi di
lettura che funzionino come passe-partout, oppure “ricette” e
consigli, non è sicuramente Walzer l’autore a cui bisogna rivolgersi!
Walzer ha dato contributi importantissimi alla scienza politica.
Basta pensare alla sua concezione rigorosamente laica
dello Stato e della società, che però non è disgiunta dalla consapevolezza
che la religione rappresenti una riserva morale e
un forte stimolo alla passione politica e alla partecipazione civile
(Walzer è di origine ebraica e, fra l’altro, sta curando per
la Yale un’imponente opera dedicata alla teoria politica ebraica
e ai concetti politici presenti nella Bibbia; cfr. Che cosa significa
essere americani, Marsilio, Venezia 1992). Oppure alla
sua convinzione, espressa già ai tempi della prima guerra del
Golfo, che siano accettabili gli “interventi umanitari” e la
“guerra giusta”, ma a condizione che siano sottoposti a una
profili riformisti 49
giurisdizione internazionale (Guerre giuste e ingiuste. Un discorso
morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli 1990).
Andrebbe anche sottolineato che, quando poi egli ha provato a
definire a quale tipo di istituzioni bisogna far riferimento, non
è riuscito a individuarle con precisione. E ha dovuto chiarire che
bisogna volgere l’attenzione a una pluralità di organizzazioni che
debbono muoversi come sistole e diastole, armonicamente fino
a un certo punto e conflittualmente fino a un altro (Sulla tolleranza,
Laterza, Roma-Bari 1998; Geografia della morale,Dedalo,
1999; Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo
del mondo, Diabasis, Reggio Emilia 2002).
In conclusione, può dirsi che la cifra del pensiero walzeriano
consiste nel suo vero e proprio timore di ogni “chiusura”
o “riduzione” della complessità del mondo. In teoria, come
in politica. Walzer si è definito più volte un socialdemocratico
e ha anche detto che i suoi riferimenti sono autori (non
del tuttoortodossi) come John Dewey, Irving Howe, Michael
Harrington, Richard H. Tawney, Eduard Bernstein e inostri
Carlo Rosselli e Ignazio Silone (che fra l’altro è stato collaboratore
di «Dissent»). Ha quindi precisato: «II principio centrale
del socialismo democratico è che la politica debba essere
aperta, che il livello della partecipazione possa essere incrementato
in maniera significativa, che il processo decisionale
possa essere realmente condiviso, senza un attacco su larga
scala alla vita privata ed ai valori liberali, senza un risveglio
religioso o una rivoluzione culturale». Come “professione di
fede”, questo passo è davvero molto efficace.