14 febbraio 2005. E’ questa la data in cui una feroce aggressione contro il Mediterraneo e il vivere insieme è stata lanciata dai suoi più crudeli e spietati nemici, il regime clanico di Assad e la milizia confessionale e khomeinista di Hezbollah. Quel giorno, sul lungomare di Beirut, un’enorme esplosione pose fine alla vita di Rafiq Hariri e delle 22 persone che lo accompagnavano. Perché? Perché la costituzione libanese doveva essere violata secondo il capriccio del despota e il fidato Lahoud, ipotesi impedita dalla costituzione, confermato alla presidenza della repubblica? Questa è una fotografia parziale della realtà. Quella violazione indicava un non rispetto per qualsiasi norma, cioè il progetto di un’assoluta arbitrarietà. Ma accanto a questo c’era anche altro. Bisognava distruggere la leadership moderata, dialogante, con cui Hariri sfidava il senso stesso dell’azione politica dei due nemici. Il Libano della convivialità dove cedere il passo alle nuove corazzate del potere arbitrario, fascista. E i sunniti dovevano finire nelle mani del più spregevole estremismo, ideale interlocutore di chi voleva costruire un corridoio basato sulla cultura della sopraffazione, dell’odio.
E’ per questo che dopo quel 14 febbraio altri nomi illustri del campo cristiano avrebbero seguito, per opera e volontà degli stessi poteri criminali, Rafiq Hariri. Erano quelle vittime le migliori intelligenze, espressioni di diverse anime politiche cristiane protagoniste con Hariri nella costruzione di un Libano conviviale: il grande intellettuale Samir Kassir, l’editore Gebran Tuéni, l’ex ministro Pierre Gemmayel, l’ex segretario del Partito Comunista Georges Hawi, il deputato Antoine Ghanem, più alcuni sopravvissuti per miracolo come la giornalista May Chidiac, gli ministri Marwan Hamade e Elias Mur. Una odiosa scia di sangue, alla quale si aggiunse quello del deputato sunnita Walid Eido. Di tutti loro, in questi anni costellati di racconti costellati di racconti sui tanti martiri, non si è quasi mai parlato. Eppure che tanti nomi di spicco politico o culturale di un paese venissero fatti saltare in aria in un città non in guerra doveva farci capire che era stata dichiarata una guerra. A chi? Al Libano stesso, al Libano della convivialità, a un modello di società e cultura che doveva lasciare il passo a quello che sarebbe arrivato. La guerra era dunque al Mediterraneo del vivere insieme.
La guerra di poco successiva, il conflitto del 2006 scatenato da Hezbollah contro Israele, è servita a cancellare la memoria della guerra fratricida, coprendola con il conflitto con il nemico esterno. Ma il conflitto interno, tra poteri criminali e società civile, sarebbe tornato, nel 2011 e una leadership conviviale, quella dei giovani siriani, sarebbe stata massacrata. Così questo tumore fatto di protervia, cultura della morte e arbitrio ancora oggi tormenta, dopo anni tremendi, non solo i libanesi e i siriani, ma tutto il Mediterraneo.
Aver dimenticato Hariri e i suoi compagni di strada è una responsabilità enorme che aiuta racconti deformati di quanto accaduto di lì in avanti e che seguita a tormentarci ancora oggi. Non si è voluto vedere il piano malvagio di fare del Levante una grande Cecenia, lasciando i sunniti in balia dei jihadisti ai quali contrapporre i peggiori corrispettivi della arbitrarietà teocratica khomeinista. Una verità che a 13 anni di distanza troppi hanno interesse a non raccontare
14/2/ 2005, quando Damasco dichiarò guerra al Mediterraneo
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