Ramnin Jahanbegloo: Cominciamo dai ricordi d’infanzia. È nato a New York da una famiglia ebrea originaria dell’Europa dell’Est, ed è cresciuto nel Bronx negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale. Come ricorda quel periodo?
Michael Walzer: Per il bambino che ero furono anni molto sereni. Per i miei genitori, invece, segnarono un periodo particolarmente difficile. Durante quella che passò alla storia come la Seconda Depressione, la nostra attività di famiglia a New York – legata al commercio di pellicce – andò fallita. La depressione economica, come spesso avviene, si presentò in due fasi: nel 1929 vi fu il grande crac e più avanti, nel 1938, una crisi meno grave. Proprio allora mio padre fece bancarotta. Avevo tre anni e non sapevo nulla delle difficoltà in cui versava la mia famiglia. Vivevamo nel Bronx, in un bell’appartamento che dava sul Grand Concourse, una parte gradevole di quel quartiere. Il nostro condominio era occupato per lo più da ebrei e sorgeva accanto a un altro edificio abitato quasi interamente da italiani. Nella New York dell’epoca vigeva quel tipo di separazione. Nel Bronx, in particolare, non vi erano aree riservate agli ebrei o agli italiani, ma edifici abitati dagli uni o dagli altri. Il nostro condominio si sviluppava intorno a un bel cortile e accanto allo stabile, tra noi e gli italiani, c’era un parco dove andavamo spesso a giocare (o a litigare). Il più delle volte era una vita serena e tranquilla. Nel 1940, quando nacque mia sorella, mio padre già lavorava in quella che durante la guerra sarebbe diventata una fabbrica di armi.
RJ: Ha avuto un’educazione religiosa?
MW: Ho frequentato una scuola pubblica del Bronx, uno di quegli ottimi istituti in cui, all’epoca, gli insegnanti erano quasi tutti irlandesi e gli studenti quasi tutti ebrei. Ma di lì a qualche anno gli insegnanti sarebbero stati quasi tutti ebrei e gli studenti in larga parte neri e ispanici: ecco come cambia New York. Di pomeriggio, dopo le lezioni, andavo alla scuola ebraica, e così feci fin quando è vissuta mia nonna, la quale abitava con noi. Dopo la morte della nonna, i miei genitori decisero di togliermi dalla scuola ebraica e assunsero un precettore ebreo a domicilio. Pensavano che la scuola ebraica, di impostazione tradizionalista, non fosse molto valida, e probabilmente avevano ragione.
RJ: Sua nonna parlava yiddish?
MW:Parlava yiddish e un po’ di inglese, ma soprattutto yiddish. Prima che cominciassi ad andare all’asilo anch’io parlavo un misto di inglese e yiddish, senza ben distinguere tra l’una e l’altra lingua. A scuola, tuttavia, parlavo inglese e dopo la morte della nonna dimenticai ogni parola di yiddish che conoscevo.
RJ: Parla ebraico?
MW: No, non parlo ebraico. L’ho studiato, assieme a molte altre lingue, ma senza acquisirne una vera padronanza. Come molti americani, risento del fatto di vivere in una potenza imperiale i cui cittadini non hanno bisogno – a differenza di chi vive in altri Paesi del mondo – di imparare lingue straniere.
RJ: Andava spesso in sinagoga con i suoi genitori?
MW: Sicuramente ci andavamo in occasione delle festività, ma i miei ricordi newyorchesi non sono legati alla sinagoga. Quando partimmo da New York – era il 1944 – avevo nove anni e la guerra volgeva a conclusione. Di lì a poco mio padre sarebbe rimasto senza lavoro e non c’era la prospettiva di un ripiego, ma mia madre aveva alcuni parenti a Johnstown, in Pennsylvania, che all’epoca era un polo siderurgico, mentre oggi è una città come tante altre a est di Pittsburgh. Questi ultimi proposero a mio padre di gestire in una gioielleria. I gioielli erano, come le pellicce, dei beni di lusso, e i due mercati funzionavano in modo molto simile: per questo mio padre pensò che sarebbe stato facile tornare a quell’attività. Così, nel 1944 ci trasferimmo a Johnstown, e lì i miei genitori cominciarono a frequentare una sinagoga riformata (un “tempio”), partecipando attivamente alla vita della comunità e diventando amici del rabbino e della sua famiglia. Ma tutto questo succedeva a Johnsotwn. A New York, dove stavamo solo in mezzo agli ebrei, la frequentazione della sinagoga non era poi così importante. I miei genitori non erano particolarmente religiosi. A Johnstown, invece, dove stavamo solo in mezzo a non ebrei, la sinagoga e la comunità ebraica divennero molto importanti per loro e, di riflesso, anche per me.
RJ: Parliamo della New York dell’epoca. Era una città bianca e cattolica (al di fuori del Bronx e di Harlem, naturalmente)?
MW: Harlem ospitava già allora una comunità a maggioranza nera. Noi non ci andavamo. Non conoscevamo i neri più di quanto conoscessimo gli irlandesi o gli italiani. Ma ad Harlem c’erano negozianti ebrei, tra cui alcuni membri della famiglia di mia moglie. E nel Bronx c’erano cattolici; dove non c’erano gli ebrei c’erano i cattolici (irlandesi o italiani). Gli irlandesi vi si erano stabiliti per primi, mentre gli italiani e gli ebrei erano arrivati in tempi più recenti.
RJ: I suoi genitori erano immigrati?
No, erano nati negli Stati Uniti. I miei nonni erano immigrati. I nonni paterni venivano dall’Impero Austro-ungarico, più precisamente dalla regione della Polonia nota come Galizia austriaca. La famiglia di mia madre veniva invece da uno shtetl (una cittadina) della Bielorussia, che allora faceva parte dell’Impero zarista. Mio nonno materno arrivò negli Stati Uniti grazie all’aiuto della fondazione del barone de Hirsch, un’iniziativa franco-ebraica i cui promotori non erano propriamente ostili al sionismo, ma seriamente impegnati a insediare gli ebrei nelle terre della Diaspora, e non molto attivi in Palestina. Così, a mio nonno comprarono una fattoria nel Connecticut. Negli Stati Uniti non c’erano molti ebrei che vivevano di agricoltura. Lui invece si dedicò alla terra e mia madre (che di tutti i suoi fratelli e sorelle fu l’unica a essere nata negli Stati Uniti) crebbe in una fattoria. Il primo ad arrivare in America fu mio nonno; dopo qualche anno, quando si era ormai sistemato, fu raggiunto dal resto della famiglia. Mia madre, nata dopo il ricongiungimento, era molto più giovane dei suoi fratelli e sorelle. Era la figlia americana e, per così dire, della fattoria.
RJ: Suo nonno cambiò cognome?
MW: No, il suo cognome era e rimase Hochman. Visse in una comunità agricola alle porte di Wallingford, nel Connecticut, in cui era l’unico ebreo, e all’inizio non fu accolto in modo particolarmente amichevole. Mia madre frequentò la scuola superiore a New Haven, perché in quella di Wallingford le cerimonie di diploma si tenevano in una chiesa. I suoi genitori non volevano che si diplomasse in una chiesa, così la mandarono a vivere presso alcuni parenti a New Haven, dove poi completò gli studi.