È vero: un buon viaggiatore deve essere leggero, non portare troppo peso, specie se vuole scalare nuove vette e vedere nuovi paesaggi. Ma il viaggiatore non può essere neanche nudo, munito solo della convinzione della sua invincibilità. Deve resistere al freddo e alle avversità. Ha bisogno dell’essenziale. Nulla di più, nulla di meno.
Il pensiero di Norberto Bobbio è l’essenziale, per qualsiasi viaggio, perché per arrivare in cima bisogna scegliere la strada giusta e il percorso corretto. E perché anche lassù quel panorama nuovo, per essere davvero assaporato in tutta la sua bellezza, ha bisogno di essere compreso e interpretato.
È questo il messaggio che volevo dare quando, appena nominato segretario del principale partito della sinistra italiana, gli chiesi di incontrarlo. Volevo dire che il dopo 1989 non era l’inizio del niente, non era il tempo dell’indifferenza tra destra e sinistra, non era un tempo della storia in cui sentirsi vuoti di pensiero e di cultura solo perché una ideologia, dalla quale gli stessi eredi italiani si erano con Berlinguer coraggiosamente distinti, stava tramontando.
Bobbio era per me il simbolo di uno dei filoni di pensiero la cui separazione da altri era stato, a mio vedere, causa della condizione di permanente minorità della sinistra italiana. Pensavo, e penso ancora, che solo la convergenza del pensiero sociale liberal-socialista, di quello della comunità di stampo cattolico solidale, della cultura azionista delle regole, della moralità comunista, delle nuove culture ambientali potesse costruire un soggetto di tipo riformista e maggioritario, in un Paese autenticamente bipolare.
Nel 2000, al congresso, che non per caso decidemmo di svolgere nella città di Gobetti, Gramsci, Foa, Galante Garrone e Bobbio, dissi: “La libertà condivisa, l’uguaglianza come pari opportunità, l’incontro tra liberalismo e socialismo. Queste idee, nella sinistra italiana, non sono mai state maggioritarie o egemoni. Anzi, esse sono state durante e aspramente combattute. Non si possono non ricordare, pur immergendole nell’asprezza del conflitto politico e ideologico di quegli anni terribili le parole con cui Palmiro Togliatti definì Carlo Rosselli un “dilettante dappoco, privo di ogni formazione teorica seria” e il suo libro Socialismo liberale un “mediocre libello che si collega in modo diretto alla letteratura politica fascista”.
Volevo affermare, nella sede del partito più solenne, che il futuro della sinistra italiana stava nella assunzione piena e senza equivoci della identità del riformismo, la più difficile e coraggiosa delle sfide politiche possibili ai conservatorismi che da decenni imbrigliano l’Italia.
Era il modo, per me, di dire a quell’uomo che mi aveva ricevuto a casa sua e con il quale avevo discusso a lungo che forse quel filone di pensiero, che il Pci per ragioni storiche e il Psi per ragioni soggettive non avevano fatto proprio, stava trovando una casa grande che, consapevole delle cesure che doveva compiere, si predisponeva a farle proprie e a farle vivere. E per me quella scelta era il passo fondamentale verso il sogno di tutta la mia vita politica: l’unità di tutti i democratici italiani in un partito riformista collocato in una democrazia bipolare e dell’alternanza.
Il demone che ricorre in questo Paese fa sì che, in momenti decisivi, prevalgano populismo o conservatorismo e mai la disponibilità a un ciclo di cambiamento. E la sinistra è, per definizione, mutamento, dinamismo, innovazione. Sono ancora le parole pronunciate da Bobbio dopo la vittoria di Berlusconi nel ’94 a dirlo: “Nella classica distribuzione delle parti, la destra rappresenta il tradizionalismo. Io ho esaminato una quantità di criteri per distinguere la sinistra e la destra e uno dei più importanti è il tradizionalismo, cioè la conservazione, ovvero la riduzione al minimo delle cose da modificare”.
Insomma Bobbio ci dice ciò che è vero: se la sinistra è conservatrice, non è di sinistra. Se difende l’equilibrio dato, con il suo carico di ingiustizie e diritti negati, viene meno al suo compito. Che è, non si abbia paura, un compito rivoluzionario, nel senso che proprio la tradizione liberale e socialista ha affermato. La rivoluzione non violenta e interamente democratica di chi cerca consenso e governo per mutare radicalmente, nel segno delle opportunità sociali e della pienezza delle libertà, l’ordine di cose presente.
E Norberto Bobbio, in questi mesi drammatici, portava questo modo di pensare anche nel territorio più minato: quello dei mutamenti costituzionali. “Ma ora si tratta di capire se la decisione di mantenere fede alla Costituzione, che ha corrisposto sempre un po’ alla mia inclinazione, non sia perdente. Il problema va affrontato in questi termini: mantenere fede alla Costituzione è una cosa giustissima in quanto in essa sono fissati i principi fondamentali dello Stato di diritto e dello Stato democratico. La Costituzione non contiene soltanto le norme che riguardano l’organizzazione dello Stato, ma anche quelle relative ai diritti di libertà e ai diritti sociali. È evidente che a questi non vogliamo e non possiamo rinunciare. Per il resto, l’introduzione di una diversa organizzazione statale, magari di una repubblica presidenziale, non appare una modifica sconvolgente. Ci sono tante democrazie strutturate in quel modo. Quello che conta è mantenere fermi i principi essenziali che rappresentano il fondamento della democrazia in Italia. Ma ora che la destra mostra grande dinamismo bisogna valutare se l’idea di mantenere intatta la Costituzione non costituisca una palla al piede per una sinistra che voglia accrescere i suoi consensi”. Innovazione, eguaglianza e libertà, cultura delle regole, diritti e libertà. Così pensava Bobbio alla sinistra del futuro. Perché, in coerenza, uomini come lui e Foa sembravano avere solo il futuro nei loro occhi antichi.
Se quella cultura avesse vinto, nella storia italiana, avrebbero prevalso gli ideali sulle ideologie, la cultura delle regole sulla furbizia delle scorciatoie, il senso di comunità sull’individualismo, la razionalità del riformismo sull’emotività del populismo.
Se quelle culture avessero prevalso, lo Stato sarebbe più leggero e pagare tasse giuste sarebbe sentito come un dovere. Saremmo più anglosassoni e meno improvvisatori.
Così la colpa che si può rimproverare a quel modo di pensare, a quella idea – il socialismo liberale capace di garantire pienezza di diritti e uguaglianza delle opportunità -, è di non essere mai diventato maggioranza in questo Paese. Come Bobbio stesso disse, parlando con Giancarlo Bosetti degli anni a cavallo del decennio Settanta e Ottanta, mai la sinistra italiana, tutta, ha raggiunto il cinquanta per cento del consenso. E questo vale anche per gli anni successivi.
E ciò ha determinato la nuova anomalia del nostro Paese: l’assenza, nella storia repubblicana, di una esperienza di governo riformista fondato su una maggioranza parlamentare e popolare coerente, di tipo davvero riformista. Se l’idea di fondo di Bobbio, quella di una politica di equità sociale che non apparisse in contraddizione con la piena libertà di ciascuno, non è stata, come in Gran Bretagna o in Svezia, capace di conquistare a sé la grande parte degli elettori, è perché in certi momenti storici, come nel 1956 dopo i fatti di Ungheria, non si ebbe la capacità, da parte della sinistra storica, di fare il salto.
Ma invocare gli errori del passato può essere un facile alibi. Non è mai troppo tardi, per chi vuole davvero cambiare le cose.
Articolo uscito su La Stampa il 9 gennaio 2014.