Nel gennaio 2010 una “nota” del governo danese stabilì che burqa e niqab “non fanno parte della tradizione culturale della società danese” perché non rispettano la dignità umana.
La “nota” utilizzata dal governo danese è uno strumento sui generis, priva di valore normativo e dotata solo di un potere di indirizzo. A cui potranno ispirarsi i successivi provvedimenti normativi e amministrativi in materia. .
Il diniego espresso nella nota trova le sue principali motivazioni nella presunta incompatibilità esistente fra il velo integrale e le esigenze di identificabilità e di socializzazione su cui si fonda la convivenza delle moderne democrazie liberali La ratio sottesa a tale provvedimento governativo certamente stride con la tradizione democratica e pluralista della società danese, tuttavia non stupisce, dato lo spostamento verso destra delle forze politiche di governo, particolarmente attente e sensibili ai temi della sicurezza e al pericolo insito nei processi migratori, soprattutto di matrice islamica. Una linea politica condivisa da varie altre forze politiche europee, attente a porre al centro del proprio programma politico la difesa dei valori cristiani del continente europeo.
Ma come si è arrivati a tutto ciò? La notte tra il 18 e il 19 maggio 1993, con le dimostrazioni contro il Trattato di Maastricht , le strade danesi registrarono due novità: la comparsa dei primi black bloc a volto coperto e i primi spari della polizia contro i manifestanti. Nel 2000 una legge vietò per la prima volta di partecipare con il volto coperto a dimostrazioni pubbliche a volto coperto. Una decisione che richiama una antica canzone popolare del 1832, che parlava del valore di battersi “a volto scoperto”: coprirsi è quindi “anti-danese”.
Nel frattempo, però, un altro fenomeno ha finito con l’accentuare tali sentimenti. In mezzo secolo, infatti, i musulmani presenti sul suolo danese sono aumentati in modo esponenziale passando da poche centinaia ai 250.000 di oggi, ovvero rappresentano ormai il 4-5% dell’intera popolazione e costituiscono la più grande delle minoranze religiose presenti in terra danese. Nei tardi anni Novanta, poi, con i rifugiati somali sono arrivate le prime donne integralmente velate. Nel 2010 si stima che il numero di donne che utilizzano in Danimarca il burqa o il niqab si aggiri tra le 100 e le 200 unità. Il primo caso giudiziario relativo all’uso del burqa” risale al 2000 quando ad una donna con burqa venne proibito di gestire un asilo nido, in nome del bisogno che i bambini più piccoli hanno di una comunicazione che oltre che orale sia anche visiva. Nel 2009, ancora, un autista di mezzi pubblici venne licenziato perché impedì a delle donne con il burqa di salire a bordo. Ma dal caso derivò comunque la norma in forza della quale, qualora si sia integralmente velate, non si possa usufruire degli abbonamenti con fotografia acclusa e si debba pagare il biglietto pieno.
Lo stesso anno vengono elaborate linee di comportamento anche per la magistratura: il giudice – così hanno previsto le Corti di Danimarca – potrà indossare un velo ma non nascondere il viso, perché “l’imputato ha il diritto di vedere in volto chi lo giudica”. Il problema è sorto in quanto anche in Danimarca le donne sono ormai la maggioranza tra i magistrati delle corti “basse”,così come costituiscono la maggioranza della popolazione studentesca delle facoltà di Giurisprudenza e tra loro non mancano le donne musulmane danesi di seconda o terza generazione. La destra radicale sul tema però agita tuttavia il fantasma della sharia che starebbe impadronendosi dei tribunali. Di fronte a simili pressioni il governo è intervenuto assecondando tali paure: in aula no a veli, kippah e simboli di partito, leciti solo piccoli crocifissi, se sono gioielli. E’ questo il clima in cui è maturata la nota governativa del 2010 facendo scoprire alla Danimarca di essere cambiata: di esserepiù “eurocentrica”.