Si può davvero parlare di una nuova stagione della cittadinanza dell’Unione Europea?
Quando si parla dell’istituto della cittadinanza europea è opportuno considerare una parabola che dal 1993, anno della sua formale istituzionalizzazione, ha conosciuto una fase ascendente nel successivo periodo e che, proprio in prossimità del raggiungimento del ventennale della sua formazione, nel 2011 a causa del protrarsi della crisi economica, ha visto l’inizio di una fase di declino. Sebbene anche la fase ascendente non sia stata esente da fenomeni regressivi, essi non sono stati così rilevanti da invertire la rotta del suo sviluppo. Oggi, invece, alcuni Stati membri stanno operando politiche pubbliche che mettono in discussione il fondamento stesso della cittadinanza europea.
Se si pensa che ciò che caratterizza l’istituto della cittadinanza europea, più di ogni altro diritto ad essa connesso, è la libertà di circolazione e di residenza in tutti gli Stati membri dell’Unione per tutti i cittadini europei con il relativo diritto alla parità di trattamento [1], non possono non stupire né la recente richiesta formale a Bruxelles di Germania, Austria, Gran Bretagna e Olanda affinché vengano modificate le norme in materia di libera circolazione e di accesso al Welfare per i cittadini europei né i crescenti casi di espulsione che hanno colpito, nell’ultimo anno, cittadini europei residenti in Stati membri dell’Ue diversi da quello di origine in nome della protezione dei “diritti e degli interessi dei nativi”.
Il rischio che il giovane istituto della cittadinanza europea venga messo in discussione dagli stessi Stati fondatori del progetto europeo quindi esiste concretamente. Un tale rischio, peraltro, dovrebbe essere reso noto. La cittadinanza europea, per il carico di nuovi diritti che porta con sé e per le conseguenti opportunità che ha offerto ai cittadini degli stati membri, dovrebbe diventare uno dei temi centrali del discorso politico delle forze in campo per le prossime elezioni del Parlamento europeo al fine di impedire che gli ostacoli, che si sta cercando di porre al suo sviluppo, divengano insormontabili.
La verità è che dal 1993 questa è la prima volta che la cittadinanza europea viene effettivamente messa alla prova. Solo oggi assistiamo a reali e consistenti flussi migratori intraeuropei, facilitati da quelle che sino a ieri erano le opportunità che la cittadinanza europea sembrava offrire: libertà di circolazione e di soggiorno in tutta l’UE e divieto di discriminazione su base nazionale. Dagli anni Sessanta del Novecento l’immigrazione spagnola, portoghese, greca, italiana non era mai più stata così significativa: il Portogallo e la Spagna sono i primi paesi europei che hanno visto, dal 2011, il numero di emigrati superare il numero di immigrati. Sono aumentati anche gli italiani che vanno a risiedere all’estero tanto che solo tra il 2011 e il 2012, il numero di cittadini emigrati dall’Italia ha avuto un incremento del 30%.
La richiesta dell’introduzione di limiti in materia di libertà di circolazione per i cittadini europei è il frutto del malessere avvertito in paesi, come ad esempio la Gran Bretagna, per l’aumento dell’immigrazione di cittadini europei provenienti dai paesi dell’UE maggiormente colpiti dalla crisi. Non a caso il primo ministro britannico Cameron ha letto l’esito del recentissimo referendum svizzero, con cui si è chiesto di porre un tetto all’immigrazione dagli Stati dell’UE in Svizzera, come il frutto della comune crescente preoccupazione di alcuni Paesi UE per la libera circolazione dei cittadini in Europa, alla quale, a suo avviso, andrebbe posto al più presto un freno.
Nel timore di un ancora ipotetico e non verificato “turismo sociale” alcuni Stati dell’UE vorrebbero reintrodurre nei propri sistemi di welfare meccanismi di discriminazione su base nazionale. Questa tendenza porterebbe a snaturare radicalmente la cittadinanza europea, dal momento che essa, fino ad ora, parificando il cittadino europeo ai nativi nel godimento dei diritti sociali ed economici (civili e, in parte, politici), ed elevando tali diritti a categoria inerente allo status di cittadino europeo in quanto tale, ha fatto sentire i suoi effetti essenzialmente nell’ambito di ordinamenti diversi da quello di provenienza.
Nonostante il lavoro costante della Corte di giustizia europea che ha interpretato e applicato, attraverso le sue sentenze, le norme dei Trattati sulla cittadinanza europea in modo da liberarla progressivamente dalla dimensione economica nella quale era rimasta imbrigliata ancora nel Trattato di Maastricht, e da sviluppare concretamente, in termini di diritti fondamentali, il suo contenuto, oggi essa sembra mostrare tutta la fragilità del suo originario disegno istituzionale. Lungi dall’essere diventata quello “status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” che secondo la Corte (sentenza Grzelczyk C-184/99 del 2001) sarebbe stato il suo destino, la cittadinanza europea rischia di implodere di fronte alle politiche squisitamente sovraniste degli Stati.
Se è vero che gli Stati membri dell’UE scoprono solo ora, in fase di diffuso disagio economico, che quella europea non è più semplicemente una “cittadinanza mercantile”, la cui titolarità è concessa solo a chi è economicamente attivo o economicamente indipendente come l’avevano pensata a Maastricht, ma che la libera circolazione dei cittadini dell’UE riguarda anche quei cittadini che non possono mantenersi: lavoratori precari, disoccupati etc..; è altrettanto vero che il limite contenuto nel disegno istituzionale iniziale, permetterebbe oggi agli Stati stessi di correre ai ripari per riportare tale cittadinanza nell’alveo della sua dimensione economica.
Tale limite consiste nel fatto che, alla luce del diritto europeo primario (i Trattati) e secondario (soprattutto le direttive in materia), non sussiste un diritto “incondizionato” di soggiorno e di parità di trattamento per tutti – a causa del divieto di pretendere dagli Stati ospitanti oneri “irragionevoli” per garantire assistenza sociale ai cittadini comunitari- ma secondo la Corte di giustizia europea esiste un obbligo di “solidarietà finanziaria” transnazionale fra gli Stati membri, necessaria al processo di integrazione europea, che impone a uno Stato ospitante di non negare una prestazione sociale ai cittadini comunitari legittimamente residenti. Fermo restando la legittimità di salvaguardare le finanze pubbliche degli Stati, rendere efficace uno dei principi fondamentali dell’UE, la libera circolazione delle persone, significherebbe, allora, ritenere ragionevoli e accettabili quegli oneri sociali che permettono l’attuazione di tale principio attraverso la parità di trattamento fra cittadini nazionali e cittadini europei.
Se, allora, da un lato, sembrava assodato che la libertà di circolazione e di soggiorno non potesse essere limitata da disposizioni nazionali che condizionassero il soggiorno all’accertamento dell’indipendenza economica del soggetto e, dall’altro, che il ricorso da parte di un cittadino dell’Unione al sistema di assistenza sociale non potesse dar luogo a un automatico provvedimento di allontanamento, i fenomeni, come quello delle 2712 espulsioni di cittadini comunitari (fra cui 265 italiani) solo nel 2013 dal Belgio, sul presupposto che avrebbero rappresentato un peso “irragionevolmente eccessivo” per il sistema sociale belga, stanno a significare il tentativo di invertire la rotta che aveva preso il processo di autonomizzazione della cittadinanza europea dalle cittadinanze nazionali.
L’idea di Londra, Parigi, Bruxelles e Berlino di allinearsi nel ri-chiudere i confini intraeuropei farebbe tornare la cittadinanza europea a una cittadinanza basata sul reddito, permettendo la circolazione solo a chi lavora o dichiara un reddito vicino a quello medio europeo e sia in grado di mantenersi. In questo modo si metterebbe una significativa ipoteca sulla prospettiva di un’autonoma cittadinanza europea: se la libertà di movimento è il primo tra i diritti che discendono dal nuovo status, queste recenti richieste stanno mettendo in crisi la forza e la coerenza dello stesso progetto europeo. Di fronte all’odierna profonda e generale crisi economica, sono i fondamenti stessi dell’Unione a diventare incerti a causa dell’atteggiamento di alcuni Stati membri dell’UE e di alcune forze politiche nazionali: a vacillare è la stessa solidarietà fra gli Stati, principio fondamentale dell’integrazione, e questo rischia di privare la cittadinanza e il progetto europei di ogni significato.
Non resta che capire i punti di impasse di questo processo per immaginare nuovi contenuti e direzioni per la cittadinanza europea affinché retoriche di ritorno alle cittadinanze nazionali non abbiano “cittadinanza” nel discorso politico europeo. La nuova valenza acquisita dal diritto a muoversi liberamente nel territorio dell’UE, non più strettamente economica ma politica – perché non è più rilevante il motivo per cui un cittadino decide di avvalersi della libertà di circolazione a parte il suo nuovo status giuridico – non può essere rimessa in discussione. Piuttosto è utile agire sui limiti strutturali che la cittadinanza europea presenta sin dalle sue origini, ma che appaiono nella loro evidenza solo in situazioni come l’attuale di diffuso disagio economico. Affrontare questi limiti significa anche, come suggerisce Amato nel suo intervento, fare sì “che il processo di espansione della cittadinanza europea possa riprendere” invece che arenarsi di fronte agli ostacoli descritti.
Rimangono quindi da risolvere quelle questioni che rendono la cittadinanza europea una cittadinanza non autonoma: anzitutto il fatto che sia una cittadinanza totalmente dipendente dalle singole cittadinanze nazionali (si è cittadini europei in quanto cittadini di uno Stato membro), alla quale si accede in modo differenziato a seconda delle differenti legislazioni esistenti in materia di migrazione e di cittadinanza negli Stati membri dell’UE. Se l’UE si dimostra ancora politicamente troppo debole per imporre agli Stati membri un’armonizzazione delle legislazioni in materia, tuttavia è solo dall’uniformità del sistema di acquisto della cittadinanza europea che si darebbe vita ad una vera e propria “autonomia” giuridica di questo istituto. In secondo luogo, la cittadinanza europea non può venir “mortificata in logiche di bilancio”, degne di tutela ma che non devono più prevalere sui diritti del cittadino: l’“europeizzazione” della cittadinanza sociale impone un progetto di nuovo welfare per l’affermazione dei diritti sociali che vadano oltre quelli pensati sulla figura del lavoratore stabile tradizionale, una figura ormai inattuale, e necessita del riconoscimento di un diritto incondizionato di circolare e soggiornare sul territorio dell’Unione per chiunque sia titolare dello status di cittadino europeo. Infine si tratta di svincolare la cittadinanza europea anche dalla libertà di movimento: se la precondizione per l’esercizio dei diritti correlati alla cittadinanza europea è ancora in molti casi lo spostarsi, ciò significa che l’elemento transfrontaliero è necessario all’attivazione dello status di cittadino europeo. Ciò ha creato sino ad ora una sorta di discriminazione “a rovescio” fra cittadini europei circolanti e quelli sedentari e ha impedito di parlare di una vera e propria cittadinanza, valida sia al di là che al di qua delle frontiere di uno Stato membro. È necessario dunque emancipare i diritti fondamentali del cittadino europeo (soprattutto quelli civili) dalla libertà di circolazione, arrivando così al capolinea di un’evoluzione: questo traguardo segnerebbe il ribaltamento dell’architettura originaria della cittadinanza europea, facendola valere, con il suo bagaglio di diritti, anche contro gli Stati di appartenenza.
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[1] Hanno fatto malauguratamente eccezione a questa regola i cittadini di alcuni Stati entrati con l’allargamento dell’Unione ad est, quali ad esempio Romania e Bulgaria, ai quali, prima di poter esercitare tale libertà, è stato imposto un periodo di transizione, durato fino al 1° gennaio di quest’anno.