Radwan Masmoudi è il presidente del Center for the Study of Islam and Democracy (CSID). Cittadino tunisino-americano, Masmoudi è un instancabile promotore della cooperazione tra i due paesi e di una visione moderata della coesistenza tra democrazia e Islam. La Tunisia è il miglior candidato alla democrazia nel mondo arabo, e ai suoi occhi rappresenta un banco di prova cruciale. Il successo o il fallimento della democrazia tunisina possono suscitare rispettivamente un’ondata filo- o anti-democratica in tutto il mondo arabo. “La democrazia deve dare i suoi frutti”, spiega Masmoudi, “migliorando le condizioni economiche della popolazione. La vera cartina di tornasole della libertà è la qualità della vita dei cittadini”. Un anno dopo la rivoluzione del Gelsomino, le turbolenze economiche minacciano di far fallire l’esperimento democratico, segnando una fatale battuta d’arresto al processo di democratizzazione nel mondo arabo. Per fronteggiare questo rischio e assicurare il successo del Paese, Masmoudi sta promuovendo un progetto ambizioso: un nuovo piano Marshall per lo sviluppo economico dell’ordine di cinque miliardi di dollari per cinque anni.
Perché la Tunisia oggi è, tra i paesi arabi in cerca di democrazia, un candidato favorito? Quali sono le sfide più importanti che deve affrontare?
Dal punto di vista sociale, la Tunisia è un paese piccolo – conta appena dieci milioni di abitanti –, omogeneo e con un alto tasso di istruzione. Vanta una tradizione ormai sessantennale di difesa dei diritti delle donne, ha un governo tendenzialmente laico, ed esprime una interpretazione molto moderata dell’Islam. Dal punto di vista economico, la Tunisia ha un tessuto produttivo forte e diversificato, con infrastrutture ben sviluppate e bassi tassi di povertà e analfabetismo. Per tutte queste ragioni, ci sono grandi speranze che la Tunisia possa riuscire più rapidamente e facilmente dei suoi vicini a completare l’attuale transizione alla democrazia.
Le sfide principali sono quattro: attività controrivoluzionarie da parte di elementi del vecchio regime, ascesa del salafismo, ricerca di un equilibrio tra libertà di espressione e valori culturali e religiosi, e sviluppo economico. Il paese sta affrontando efficacemente i primi tre problemi, ma il successo della democrazia dipende in ultima analisi dalla capacità di migliorare la qualità della vita dei cittadini. Dopo la rivoluzione l’economia ha subito un duro colpo, soprattutto nel settore del turismo, che dà lavoro a 400 mila persone. Nel 2011 si sono registrate perdite per almeno dieci miliardi di dollari, e per quest’anno non si prevedono sostanziali miglioramenti.
C’è il rischio che l’aiuto dall’esterno non abbia l’effetto che ha sortito in Germania subito dopo la seconda guerra mondiale, bensì quello prodotto in Egitto, e cioè una dipendenza che diventa un ostacolo a un autentico processo di sviluppo?
Innanzi tutto, la Tunisia in questo momento ha bisogno di assistenza economica perché dopo la rivoluzione ha subito ingenti perdite finanziarie. La rivoluzione è una sorta di terremoto che ha introdotto gravi turbolenze nel sistema economico. Secondo alcune stime non ancora confermate, nel 2011 il tasso di disoccupazione è quasi raddoppiato, passando dal 15 a circa il 30 per cento.
Come ho già detto, il turismo dà lavoro a 400 mila persone. Se questo settore si ferma, moltissime famiglie rischiano di finire sul lastrico. Non parlo di gente ricca, ma di lavoratori che vivono di mese in mese o di stagione in stagione. Il mio timore è che, se il paese entrerà in una fase prolungata di stagnazione economica, il processo di transizione possa arenarsi. I cittadini (soprattutto i giovani) potrebbero perdere la pazienza e dire: “Non siamo disposti ad aspettare. Vogliamo un lavoro adesso”. In questo caso si innescherebbe una spirale di caos e violenza. E ci sono forze antidemocratiche che sperano in un fallimento del processo di transizione.
La Tunisia ha urgente bisogno di assistenza per evitare una crisi economica. Poi, tra due o tre anni, quando l’economia tunisina sarà ripartita, non ci sarà più bisogno di aiuti. Gli indicatori e i fondamentali economici sono buoni, ma in questa fase di turbolenze il paese rischia di precipitare nella stagnazione e la transizione democratica potrebbe bloccarsi. È questa la vera minaccia che incombe sulla democrazia tunisina, per cui sono assolutamente convinto che un nuovo Piano Marshall sia indispensabile.
Davvero crede che un intervento di tale portata sia possibile? La Tunisia è in grado di assorbire aiuti economici così sostanziosi?
Un contributo dell’ordine di quattro o cinque miliardi di dollari all’anno sembra molto consistente. Ma non si tratta di una somma spropositata, dato che dovrà essere fornita dall’intera comunità internazionale. Se arriverà il sostegno di Stati Uniti, Europa, Turchia, Giappone e Cina, ogni paese dovrebbe stanziare circa 500 milioni di dollari. I fondi potranno essere raccolti nell’ambito di una conferenza dei paesi donatori. La domanda posta ai partecipanti sarà: volete che la Tunisia abbia successo? E che cosa siete disposti a fare per aiutarla? Il paese ha bisogno di assistenza economica, ed è un progetto fattibile.
Uno dei principali punti di forza della Tunisia è l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini. Il Piano Marshall si basava sul finanziamento di progetti, e dunque presupponeva un piano strategico. Nel nostro caso occorre realizzare infrastrutture e opere pubbliche (dalle strade agli ospedali) per favorire un reale sviluppo dell’economia. In questo modo sarà possibile creare nuovi posti di lavoro e al tempo stesso gettare le basi di una solida crescita economica in vista di una stabilizzazione, di qui ai prossimi tre-quattro anni, del quadro politico.
Tra i suoi obiettivi c’è la creazione di un ponte politico-culturale tra gli Stati Uniti e la Tunisia. Non crede che occorra fare lo stesso con l’Europa? È possibile migliorare i rapporti euro-tunisini, e come?
Gli europei hanno ancora di più da guadagnare dal successo della Tunisia. La diffusione della democrazia nel mondo arabo comporta enormi vantaggi per l’Europa. Se in passato l’altra sponda del Mediterraneo era fonte di problemi di criminalità e immigrazione legati alle difficoltà economiche, il Vecchio Continente può ora contare su un partner a livello commerciale e di sviluppo.
Credo che i leader europei intendano dire proprio questo quando dichiarano che il successo della Tunisia è fondamentale. Ma devono essere disposti a fare tutto il necessario per favorirlo; le parole non bastano. Finora hanno adottato una posizione di comodo: la Tunisia “va bene”. Occorre fare pressioni affinché procedano nella direzione giusta, non potendo permettersi di sbagliare: un fallimento della transizione democratica avrebbe effetti disastrosi sull’intera regione.
Se la Tunisia avrà successo, il suo modello diventerà molto appetibile e tutti cercheranno di seguirne l’esempio. Se andrà incontro a un fallimento, invece, gli altri paesi del mondo arabo rinunceranno definitivamente alla democrazia, convincendosi che se quest’ultima non funziona in Tunisia di sicuro non può farlo, per esempio, in Arabia Saudita.
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Immagine di Amine Ghrabi