Non vorremmo che a Matteo Renzi succedesse quello che accadde ai successori di Cavour, morto per sua fortuna in tempo per non capire il cul-de-sac in cui si era cacciato. Dopo la magistrale impresa di conquistare il Sud in pochi mesi, non bastarono centocinquant’anni per riuscire davvero a governarlo.
Il sindaco fiorentino sembrerebbe determinato ad annettersi il Pd, convinto evidentemente che si tratti di un affare, che gli consentirà rapidamente di fare il salto nel club dei premier europei. Basta sconfiggere l’oligarchia che vorrebbe tenersi ancora in mano le redini di apparato ed elettorato, rimandando alla prossima occasione – quella, si sa, che non arriva mai – la cessione di sovranità. Ma la realtà potrebbe essere diversa. Diversa da come i giornali – e gli stessi principali protagonisti – si ostinano a rappresentarla. Alle spalle dei capi oligarchi non ci sarebbero le truppe ordinate da indirizzare a miglior causa. Potrebbe esserci un esercito già in rotta, un’aggregazione di bande incontrollabili per gli stessi generali oggi in carica. Figuriamoci per il nuovo Garibaldi che calasse da fuori alla conquista dell'(ex) regno.
Lo so, la sceneggiatura ufficiale recita che i contendenti sarebbero, da una parte, il papa straniero, aspirante capo solitario e – perché no – autoritario, determinato a cancellare l’ultimo partito – come lo ha definito Diamanti – impersonale, e annetterlo al genus calisiano dell’odiato partito personale; sull’altro fronte, i comandanti spartani schierati a difesa di Termopili, e dello spirito collettivo – chiamato, per capirci meglio, anche ditta – issato sulle loro bandiere. Non mi illudo che si possa cambiare una rappresentazione che si presta alla migliore drammaturgia mediatica. E che consente a entrambe le parti di recitare un copione dignitoso, nonché abbondantemente collaudato. Ma si tratta di una messa in scena. Cui magari gli attori in prima fila aderiscono del tutto in buonafede. Ma la commedia – anzi, il dramma – è diversa. O, se preferite non mollare del tutto il canovaccio, diciamo che lo scontro tra Serse e i comandanti spartani occuperà solo il primo atto. Come sempre, la parte più interessante arriva dopo, all’atto secondo e terzo, quando i piemontesi dovranno vedersela con il territorio che credono di avere conquistato. E che gli si rivelerà ben diverso da come appariva da lontano, prima dello sbarco vittorioso.
Per capire quali siano le reali condizioni del Partito democratico in questa vigilia di congresso che assomiglia, sempre più, a un’ultima spiaggia, basta smettere di leggere gli annunci roboanti delle candidature, con relative piattaforme ideali. E concentrarsi sui meccanismi – e sui numeri – che regolano la selezione (absit iniuria verbis) di capi, capetti e caporali nella piramide del potere Pd. Vale a dire, invece di dibattere su quanto e come debbano essere aperte le primarie finali per la leadership, e se si vincono parlando a destra agli orfani di Berlusconi o a sinistra ai transfughi di Beppe Grillo, conviene soffermarsi e informarsi sulla prima – meno nota e meno blasonata – fase delle consultazioni, quella ristretta ai circoli e agli iscritti al partito. Sulle quali, guardando al recentissimo passato, si possono già fare alcune, alquanto preoccupanti, proiezioni.
La prima riguarda il peso del voto di preferenza – non saprei come altrimenti chiamarlo – espresso dagli iscritti per la pletora di candidati alla segreteria nazionale. Veltroni, nel 2007, vinse alla grande questo round, con oltre i tre quarti dei consensi, distaccando nettamente gli altri due big, Letta e Bindi. Invece, la vittoria di Bersani fu di più stretta misura, con un distacco su Franceschini di soli 16 punti percentuali. Al punto che, dal suo entourage, molti cominciarono a paventare l’ipotesi di una doppia legittimazione. Vale a dire, che potessero essere diversi i vincitori delle due primarie, quelle ristrette e quelle allargate. Bersani, invece, riuscì a confermare il suo vantaggio, conquistandosi la segreteria. Che cosa succederà questa volta?
Come si muoveranno gli iscritti, e a quali motivazioni – o disposizioni – risponderanno?
Le analisi delle ultime due consultazioni mostrano una spiccata tendenza alla meridionalizzazione del voto. Vale a dire, al Sud è molto più alta la quota di partecipanti alle primarie sul totale dei votanti Pd in una data provincia, o regione. E questo dato viene confermato, in modo ancora più eclatante, dal verdetto delle parlamentarie. Uno studio di Fortunato Musella, in corso di pubblicazione, mostra che nelle regioni meridionali la percentuali dei votanti alla selezione di deputati e senatori, sul totale dei voti al Pd espressi due mesi dopo, è oltre il doppio rispetto alla media nazionale.