Il 50% che festeggia
Piazza Taksim è affollata da quasi una settimana quando il 20 luglio, a tarda sera, uno dei “presentatori” che si alternano sul palco annuncia che il presidente Recep Tayyip Erdogan ha decretato 90giorni di stato di Emergenza in tutto il Paese.Un boato, applausi, che la festa continui. Tanti veli, alcune barbe lunghe, tanti giovani e famiglie delle periferie giunti nel cuore pulsante della città, bandiera alla mano, per festeggiare “il trionfo della democrazia”.
“Troveremo i cani che hanno organizzato il colpo di stato, li scoveremo nelle università, all’estero, ovunque si nascondano e li puniremo con il massimo della pena prevista dalla legge”. Altro boato, urla, applausi, cori da stadio. Per altri due giorni i mezzi pubblici saranno gratuiti proprio per permettere a tuttidi raggiungere la piazza. File lunghissime per prendere il panino o il riso con i fagioli gentilmente offerti dall’organizzazione.
Un megaschermo mostra la sagoma della Turchia riempita dalle immagini della piazza. “La Turchia siete voi”, “sentinelle della piazza”, “protagonisti della democrazia”.
La festa è alimentata da un ricambio continuo di gente che va e che viene. I bambini stanno sulle spalle dei genitori e ambulanti vendono maglie, gadget e palloncini con i colori della bandiera. Il fallimento del colpo di stato è passato come il risultato della risposta della gente comune che, “mano nella mano”, ha raccolto la chiamata alle armi del presidente e si è opposta ai carri armati guidati dai traditori dello Stato, contribuendo al “trionfo della democrazia”.
Caroselli di auto, moto, furgoni e tir emettono un rumore assordante e intasano gli accessi alla piazza. Per vedere una scena del genere in Italia c’è bisogno che la nazionale vinca i mondiali.
L’altro 50%
Le decisioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale del 20 luglio sono state precedute da giorni di purghe, epurazioni, sospensioni, arresti e licenziamenti che hanno toccato a ora oltre 60mila persone, coinvolgendo quasi tutti i ministeri, la magistratura, la polizia, l’università e immancabilmente l’esercito, una cui frazione si è resa protagonista di un golpe quantomeno improbabile. Come si può pensare del resto, con meno di 10mila uomini,a prendere il potere di un Paese grande quasi tre volte l’Italia?
A pochi giorni dal fallimento del suddetto tentativo è arrivata la proclamazione del presidente dello “stato di emergenza”. Potrà essere decretato il coprifuoco, potranno essere limitate o sospese la libertà di circolazione, di aggregazione, di manifestazione e di stampa ed estese la possibilità di effettuare perquisizioni e ispezioni personali e locali da parte delle forze dell’ordine. Queste ultime avranno inoltre il potere di autorizzare o meno manifestazioni, marce o riunioni, riservandosi eventualmente il diritto di schedare i partecipanti.
Il risultato? Mentre in decine di piazze centinaia di migliaia di persone festeggiano, un’altra parte del Paese trema all’idea di cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi.
Tre giocatori, un solo vincitore
Tralasciando il ruolo marginale dei partiti di opposizione, si può dire che il potere in Turchia sia stato negli ultimi anni conteso da tre attori fondamentali: Erdogan, Fetullah Gülen e l’esercito.
Da un lato l’attuale presidente, dall’altro l’ideologo islamico, multimiliardario autoesliatosi negli Usa nel 1998. I due, prima di una clamorosa rottura, hanno unito le forze dal 2000 al 2012 proprio contro l’esercito, i cui interventi s’intrecciano con la storia stessa della Turchia.
Il ruolo dei militari nel Paese era stato, infatti,concepito dal fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Ataturk come quello di guardiani della laicità e dello stato secolare. Nel tempo però, con 4 colpi di stato in 37 anni, i militari hanno abusato dei propri poteri dando vita a una scia di repressione e ad una lunga serie di violazioni dei diritti umani, il cui ricordo non è mai stato superato da buona parte della società che, non a caso, ha reagito compatta al golpe. Nella storia della Turchia i tank in strada segnano un azzeramento dei diritti, delle libertà, della democrazia, delle certezze. Il primo intervento risale al 1960, a cui seguirono quello nel 1971, il sanguinario golpe del 1980 e infine i carri armati che nel 1997 costrinsero alle dimissioni il premier Necmettin Erbakan.
Il paracadute di Erdogan (e di Gülen)
Quando diventa premier per la prima volta nel 2002 la priorità di Erdogan è quella di indebolire i militari per evitare di essere detronizzato nel giro di pochi anni o addirittura mesi, possibilità più che concreta. L’opera di progressivo indebolimento dei militari, attuata dal 2002 al 2010, è stata possibile grazie all’alleanza tra il presidente e Gülen.
Due inchieste giudiziarie denominate Balyoz (2003) ed Ergenekon (2008) hanno consentito, attraverso prove spesso fabbricate ad arte, di decapitare i vertici militari e soffocarne le connessioni con politici, accademici e giornalisti. La riforma della costituzione del 2010, votata anche da liberali e buona parte dell’opposizione, indebolì ulteriormente l’esercito, che a quel punto vide i propri margini d’intervento ridotti al minimo.
All’indebolimento dell’esercito corrisponde un progressivo rafforzamento delle forze di polizia,il cui numero di unità aumenta in maniera esponenziale, contemporaneamente all’estensione di poteri e competenze. Il tutto secondo una strategia ben precisa: Erdogan vuole un altro esercito, la cui fedeltà sia fuori discussione.
Un nuovo esercito in un nuovo stato
Una Turchia al riparo dal rischio golpe è nella sostanza una Turchia nuova, dominata dai fedelissimi di Erdogan e Gülen. Progressivamente insediatisi in polizia, magistratura, ministeri, università e media, l’alleanza raggiunge l’apice con l’occupazione dei posti che contano nell’esercito. Una coabitazione che dura fino al 2012, perché un’alleanza basata sull’opposizione a un nemico comune perde la propria ragion d’essere nel momento in cui il nemico è stato annientato.
La “struttura parallela” facente capo a Gülen diventa a quel punto il nemico numero uno, da anni considerata da Erdogan un’organizzazione terroristica da combattere “esattamente come Pkk e Stato Islamico”. Non è un caso che venga indicata da subito come la responsabile del recente tentativo di sovvertire il governo. Il tentato golpe del 15 luglio viene pianificato e realizzato non dall’intero esercito turco, ma da una frazione dello stesso. Per la prima volta nella storia turca l’esercito non interviene compatto, perché questo non è più l’esercito voluto da Ataturk ma quello nato dalla distribuzione delle poltrone avvenuta negli anni passati tra gli uomini di Erdogan e Gülen. Un fattore di divisione che si è rivelato decisivo.
Gli ultrà del golpe
È sconcertante constatare come, a fronte di una nazione che ha reagito compatta contro l’idea di un ennesima giunta militare, in molti in Italia si siano rammaricati per l’esito del golpe. Una presa di posizione che sorvola sul fatto che le giunte militari al potere in Turchia in passato hanno sempre proclamato la legge marziale e la censura militare. Tra l’altro, la legislazione anti terrorismo che l’Ue contesta alla Turchia e che ha consentito a Erdogan la stretta autoritaria degli ultimi anni, fu imposta proprio dai militari, con la costituzione imposta in seguito al golpe del 1980. Se è vero, infatti, che negli ultimi giorni ci siamo trovati a fare l’elenco delle purghe poste in atto dal governo dell’Akp, è altrettanto vero che se il golpe fosse andato diversamente saremmo probabilmente impegnati nel medesimo esercizio a parti invertite. Non esistono precedenti rassicuranti rispetto a una transazione democratica attuata da militari in seguito a colpi di Stato. Sicuramente non in Turchia.
A un anno dalla strage di Suruc
Il 20 luglio del 2015, trentatré giovani attivisti filo curdi sono morti per mano di un kamikaze dell’Isis nella cittadina di Suruc, al confine siriano. La prima esplosione dopo anni, in un Paese che insegue la (impossibile) ricerca di una maggioranza capace di governare. Un’esplosione che indica che le cose stanno cambiando, e lo fa proprio mentre nel paese si celebra la fine di Erdogan. Alle elezioni del 7 giugno 2015 il partito Akp, dopo13 anni, non ha più la maggioranza dei seggi nel parlamento.
365 giorni per passare dalla celebrazione del funerale di Erdogan, alla sua piena vittoria. In mezzo ci sono stati la ripresa del conflitto con i curdi, la crisi umanitaria dei rifugiati siriani, 8 attentati che tra Suruc, Ankara e Istanbul hanno contato 300 morti, la crisi e la pace con la Russia, la carcerazione ingiustificata di giornalisti e l’eliminazione progressiva di voci critiche nei confronti del governo.
Erdogan ha perso voti, forza e potere in un momento di relativa calma del paese, per poi gradualmente rafforzare la sua posizione in seguito ad ogni momento critico, sfruttando al meglio gli errori dei suoi oppositori.
La guerra con Gülen è ormai vinta, l’esercito non farà più colpi di stato e c’è da stare sicuri che nei prossimi tre mesi nessuna pietà verrà mostrata nei confronti di chi conserva un’affiliazione pur minima con l’imam.
Il Paese è spaccato a metà, tra chi adora il presidente e sarebbe pronto a morire per lui e chi lo odia e non lo voterà mai. I primi festeggiano fino a notte fonda, i secondi sono terrorizzati all’idea che lo stato di emergenza venga utilizzato per spingere il repulisti ben oltre il cortile di Gülen, e fare piazza pulita di qualsiasi voce critica.
L’Europa intimorita dovrebbe rimpiangere di aver interrotto unilateralmente i negoziati per portare la Turchia in Europa nel 2008, un’occasione d’oro ormai persa, per un Paese inevitabilmente lanciato verso una deriva autoritaria, non religiosa quanto piuttosto bigotta e conservatrice. Il ruolo dell’Islam, troppo spesso enfatizzato in occidente, non deve oscurarne la visione in prospettiva; la Turchia del prossimo futuro somiglierà molto più alla Russia di Putin che all’Iran di Khomeini.
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