Khalil Shikaki, saggista e accademico palestinese, è il direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) a Ramallah, noto per aver condotto dozzine di sondaggi a Gaza e in Cisgiordania. Leggi il suo profilo completo sul sito del PSR.
Un numero crescente di persone sta mettendo in dubbio l’applicabilità della formula dei due Stati come soluzione al conflitto israelo-palestinese, mentre altri ancora suggeriscono l’idea di uno Stato unico. In generale, nota anche lei il graduale diffondersi di quest’idea di uno Stato unico? Quali sono le sue opinioni a riguardo?
Non c’è dubbio che sia i palestinesi che gli israeliani nutrano un interesse sempre maggiore verso l’idea dello Stato unico. Questo non significa però che israeliani e palestinesi si stanno trasformando in convinti promotori dello Stato unico, ma che molte persone iniziano a temere che la soluzione dei due Stati stia perdendo la sua dinamicità, diventando sempre più irrealistica e infattibile, soprattutto a causa di pratiche messe in atto ogni giorno dal governo israeliano. A differenza di altre realtà del conflitto – che si tratti dell’accentuarsi di tendenze di destra, divisioni interne e così via – queste realtà, il continuo costruire e espandere di insediamenti israeliani, la confisca di territori palestinesi e la crescita dell’industria che gira attorno all’occupazione, creano una tendenza che spinge palestinesi e israeliani a farsi delle domande, a preoccuparsi e talvolta a cambiare opinione riguardo alla formula dei due Stati. Anche se, in realtà, si tratta di un cambiamento di orientamento veramente minimo.
In generale, sia le popolazioni che le leadership sono riluttanti a trattare seriamente questa opzione. Dal punto di vista palestinese, una soluzione del genere viene percepita come una minaccia al nazionalismo, così come rappresenta una minaccia per il desiderio di Israele di mantenere la sua identità ebraica. In Israele, questo vale per i partiti politici tradizionali, per i leader e gran parte della popolazione. Nel caso palestinese la riluttanza si manifesta sia sul piano delle varie fazioni politiche che sul piano della leadership, ma soprattutto nella popolazione. Meno del 30 percento dei palestinesi crede che uno Stato unico sia qualcosa per cui valga la pena lottare.
Questo dato proviene dal recente sondaggio fatto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) dove lei lavora?
Sì, l’ultima ricerca risale al settembre 2012 e i risultati dimostrano ciò che in sostanza si sapeva già da anni; che circa il 25-30 percento dei palestinesi è disposto a prendere in considerazione la soluzione del singolo Stato, mentre 2/3, o fino al 70 percento della popolazione, si oppone a questa idea. Per quanto riguarda Israele la percentuale di sostenitori è addirittura inferiore; meno del 20 percento tra gli israeliani di religione ebraica sostengono uno Stato unico, mentre circa l’80 percento è contrario. Devo sottolineare che anche gran parte degli israeliani appartenenti ai movimenti pacifisti non sono favorevoli al singolo Stato, e che gran parte del centro e della sinistra, anche quella estrema, si oppone alla stessa maniera.
Confrontati con la realtà di ciò che sta accadendo nei territori occupati, che in pratica assomiglia a una realtà di uno Stato unico, il popolo israeliano non vuole accettarla e sostiene invece che Israele debba prendere misure unilaterali per favorire la nascita di due Stati, come evacuare gli insediamenti e aumentare i diritti dei palestinesi per quanto riguarda il controllo del territorio. Quindi, quegli israeliani che sono frustrati dallo scenario attuale non cercano di promuovere l’idea di uno Stato unico, ma preferiscono fare pressione sul governo per convincerlo a sostenere la formula dei due Stati, e soprattutto per prevenire che questa formula fallisca del tutto.
Crede che l’ipotesi dei due Stati stia davvero fallendo o è ancora possibile farla funzionare?
La formula dei due Stati sta fallendo. Non è ancora fallita del tutto perché finché c’è una maggioranza di israeliani e palestinesi che la sostengono, non si può dire che essa è fallita. A questo punto nessun’altra soluzione gode di simile supporto e questo è un dato senza precedenti; non si è mai verificato un simile sostegno per l’idea dei due Stati tra israeliani e palestinesi. Proprio per questo è impensabile liquidare del tutto questa proposta, anche se forse sta fallendo perché – nonostante goda di un sostegno veramente ampio – in pratica circa due terzi dei palestinesi e degli israeliani la ritiene difficile da implementare, dubita che verrà messa in atto nel corso dei prossimi cinque anni, e sempre più persone su entrambi i fronti la ritengono poco fattibile.
Sembra quindi che l’idea di uno Stato unico è ancora più difficile da attuare di quella dei due Stati, si tratta di un’utopia?
Non può esserlo perché un’utopia è qualcosa che le persone non solo difendono e desiderano, ma che considerano ideale. In questo caso, né i palestinesi né gli israeliani considerano lo Stato unico una soluzione ideale; entrambi sono estremamente nazionalisti e vogliono che la propria identità nazionale sia espressa in un territorio sovrano. Dobbiamo tuttavia fare delle distinzioni. Uno Stato unico negoziazioni come risultato di negoziati o come progetto deliberato da entrambe le parti è alquanto improbabile, almeno per la prossima generazione.
Non credo che uno Stato unico possa affermarsi come esito di un processo mirato, almeno non adesso. Tuttavia, i palestinesi e gli israeliani che convivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano in pratica già vivono di fatto in uno Stato unico, e questa è una realtà in costante progresso. Come ho già detto, questa realtà si sta consolidando su base quotidiana e forse dopo cinque anni di un governo di destra in Israeleche non è intenzionato a perseguire la soluzione dei due Stati, simili realtà diventeranno sempre più la regola. In questo senso, lo Stato unico si sta già affermando come risultato involontario di politiche che non propendono affatto per una simile soluzione ma di fatto la creano sul campo. Anche se lo Stato unico come frutto di un processo intenzionale non è fattibile nell’immediato, l’emergere di uno Stato unico come conseguenza di ciò che avviene sul territorio è invece molto realistico. Se prendiamo in considerazione le prospettive politiche dei prossimi cinque anni, ci renderemo conto di quanto questa possibilità sia plausibile.
E come funzionerebbe lo Stato unico?
Affinché questo Stato sia davvero bi-nazionale, dovrebbe essere frutto di un accordo o di negoziati. Come già specificato è improbabile che questo avvenga nel corso della prossima generazione. Tuttavia, la realtà sul terreno rimarrà una realtà in cui esistono due sistemi politici e legali, uno che viene applicato agli ebrei e l’altro ai palestinesi. Questo sistema discriminerà contro i palestinesi arabi che vivono in Cisgiordania e favorirà invece i coloni israeliani che popolano la stessa area. Tra qualche anno i palestinesi potrebbero ritrovarsi a lottare contro questo sistema e alcuni di loro potrebbero cambiare orientamento. Invece di lottare per l’indipendenza e la separazione, potrebbero ritrovarsi a lottare per l’eguaglianza. Ciò non significa che non ci sono piccoli gruppi di palestinesi che sono già impegnati in questa direzione; ci sono già alcune organizzazioni che descrivono la realtà odierna di questo Stato unico come un sistema di apartheid e chiedono ai palestinesi di abbandonare il paradigma dei due Stati per abbracciare la causa dell’eguaglianza, e lottare per la cittadinanza in un unico Stato. Si tratta prevalentemente di giovani intellettuali, poco radicati nel nazionalismo palestinese e che dunque non basano lo spirito propulsivo della causa palestinese sull’identità nazionale.
Voglio anche aggiungere che ci sono molti palestinesi che sostengono l’idea dello Stato unico, ma lo fanno per ragioni tattiche, non perché credono davvero che lo Stato unico sia la soluzione migliore. Secondo alcuni, gli israeliani vivono troppo bene con lo status quo attuale e sono intenzionati a viverci per il tempo più lungio possibile, non comportando esso particolari minacce in termini di sicurezza. Una soluzione in due Stati comporterebbe molti sacrifici da parte degli israeliani e la maggior parte di essi non sembrano intenzionati a farli: quindi alcuni palestinesi credono che Israele si trovi in una posizione troppo comoda per prendere seriamente in considerazione i sacrifici necessari per la creazione di due Stati. Per questo, secondo alcuni,il modo migliore per scombinare le carte e aumentare la percezione di allarme nella società israeliana sia quello di abbandonare il paradigma dei due Stati e sostenere la causa dello Stato unico, una realtà che di fatto intimidisce il popolo israeliano e potrebbe renderlo più propenso al sacrificio e le concessioni in modo da arrivare finalmente ai due Stati. Tatticamente dunque, molti che sono a favore dei due Stati si trovano oggi a sostenere il paradigma dello Stato unico nella speranza che Israele si senta sufficientemente minacciato da abbandonare lo status quo in favore del principio dei due Stati.
Passiamo alla formula dei due Stati. Secondo lei qual è il minimo indispensabile per rendere sostenibile uno Stato palestinese? Molti ritengono che le difficoltà sul campo siano troppe, cosa pensa a riguardo?
Se i negoziatori riuscissero a siglare un accordo che preveda il ritiro israeliano dalle aree occupate nel 1967 e limitate concessioni di terreno in alcune zone, la soluzione dei due Stati sarebbe oggi accettata dalla maggioranza di entrambi le popolazioni, sempre a patto che la sua implementazione risponda a queste condizioni. I palestinesi e gli israeliani saranno favorevoli, e le realtà molto gravi e oppressive vigenti oggi nei territori occupati sono a mio avviso ancora reversibili. Pertanto credo che la formula dei due Stati non sia del tutto fuori portata, ma considerate le dinamiche attuali – quello che accade oggi e quello che probabilmente accadrà nei prossimi cinque anni con governi di destra in Israele – vale la pena tenere presente che ciò che oggi appare ancora possibile, domani potrebbe non esserlo più.
Non abbiamo parlato molto di Gaza e di Hamas. Come rientra Gaza nel dibattito di uno o due Stati?
Allo stato attuale, il 40 percento della popolazione palestinese vive nella striscia di Gaza, ma Gaza rappresenta solo il 6 percento delle aree palestinesi che nel 1967 erano sotto il controllo arabo. Alcuni israeliani, basandosi su freddi calcoli, ritengono che sarebbe strategicamente ragionevole per Israele perpetuare lo status quo in Cisgiordania e lasciare da parte Gaza, e quindi di continuare a vivere con la realtà di uno Stato unico, ma senza Gaza, perché se venisse inclusa Gaza il numero di palestinesi aumenterebbe di un milione e mezzo.
Come si evince da questi calcoli, è tutta una questione di demografia; alcuni israeliani credono che anche includendo i palestinesi della Cisgiordania, ma non Gaza, la maggioranza demografica ebraica potrebbe sopravvivere. Ma si tratta di una statistica provvisoria, perché prima o poi i palestinesi in Cisgiordania aumenteranno e cambierà la bilancia demografica. Inoltre, la natura dei rapporti tra Israele e Gaza potrebbe cambiare. Considerando che Gaza rimane sotto il controllo di Hamas e il continuo stato di tensione che caratterizza i suoi rapporti con Israele, l’ipotesi di un futuro attacco israeliano, una rioccupazione della Striscia di Gaza con i suoi 1.5 milioni di palestinesi, non è del tutto da escludere. Il potenziale per un conflitto e per una nuova occupazione israeliana a Gaza è da tenere assolutamente in considerazione.
Gaza, dunque, resta un punto interrogativo. Hamas di certo non vuole sostenere l’idea dello Stato unico, anzi. Proverà a difendere la propria indipendenza e il controllo nella Striscia, approfondendo la propria sovranità sul territorio. Questa di certo sarà una dinamica che si pone in contrapposizione allo Stato unico, ma allo stesso tempo vi rimane sempre il potenziale per un altro conflitto con Israele. Per gli israeliani è senz’altro un vantaggio separare Gaza dalla Cisgiordania, sperando poi che in Cisgiordania, dove Israele ha molti più interessi sia dal punto di vista geografico che demografico, Israele riesca a mantenere lo status quo di oggi, e quindi a continuare con l’attuale realtà di uno Stato.
Quanto è importante la questione demografica nel dibattito su quale tipo di Stato adottare?
I calcoli demografici sono un fattore cruciale sia per i palestinesi che per gli israeliani, ma soprattutto per questi ultimi, dovendo loro ancora prendere una decisione. I palestinesi già hanno fatto le loro scelte; vogliono l’indipendenza, la sovranità in Cisgiordania e a Gaza, e in queste aree hanno una maggioranza schiacciante, e quindi non percepiscono alcuna minaccia demografica. Anche se tutti coloni israeliani dovessero decidere di restare nei territori palestinesi e diventare cittadini, ciò non procurerebbe molta tensione. Nel caso di Israele, invece, il numero di palestinesi coinvolti costituisce un pericolo agli occhi della popolazione ebraica, perché minaccia la natura dello Stato che desiderano. Vogliono uno Stato di matrice ebraica. Aggiungere 4 milioni di palestinesi, oltre al milione e mezzo di palestinesi che sono già cittadini di Israele, significa prendere in considerazione un’eventuale parità tra le due popolazioni, un’ipotesi che spaventa molti israeliani. Questo è il motivo per cui nel corso del tempo la maggioranza degli israeliani si è dichiarata a favore dei due Stati, ormai la considerano una questione prioritaria. Alla fine, si tratta sempre calcoli e costi; gli israeliani oggi stanno bene nello status quo attuale, ma l’idea di creare uno Stato palestinese si è andata gradualmente affermando in parte anche come risposta a queste paure legate allo squilibrio demografico.
Come interpreta le rivolte arabe, quali conseguenze crede possano avere sul conflitto israelo-palestinese?
Al momento, non credo che le rivolte per aiuteranno a risolvere il conflitto. Le rivolte arabe hanno spostato l’attenzione dallo scontro con Israele a questioni più domestiche, quindi la Primavera Araba ha contribuito a marginalizzare la questione palestinese e il conflitto. Oltretutto, il movimento ha spazzato via leader politici e regimi – come quello di Mubarak in Egitto – che in passato erano in prima fila nella gestione dei rapporti tra israeliani e palestinesi, quindi nel breve periodo ci sarà un calo di attenzione e un interesse minore nella risoluzione del conflitto, andando ad alimentare una fase di stagnazione o la possibile esplosione delle realtà attuali in una crisi di proporzioni maggiori.
Nel medio e lungo periodo, invece, non c’è alcun dubbio che il crescere dell’islamismo nella regione possa favorire un ambiente che non sia di aiuto alla pace tra arabi e israeliani. Già oggi la destra israeliana considera la Primavera Araba fonte di minacce e di incertezza e ciò spinge alcuni leader come Benjamin Netanyahu a trarre la conclusione che in queste condizioni Israele non possa stringere accordi con i palestinesi, soprattutto accordi che prevedono concessioni di territorio che potrebbero indebolire la posizione strategica di Israele. La Primavera Araba ha quindi spinto gli israeliani, e soprattutto l’attuale governo israeliano, a non prendere seriamente in considerazione una ripresa dei negoziati con i palestinesi. In altre parole, le sommosse arabe nella regione hanno già avuto conseguenze negative su come gli israeliani percepiscono i paesi arabi, rafforzando il loro desiderio di mantenere lo status quo, mentre i palestinesi percepiscono un calo di interesse nei loro confronti da parte del mondo arabo, il che induce rabbia e frustrazione. Nel lungo periodo, con la crescita dell’islamismo, ciò che appare fattibile oggi potrebbe non esserlo domani.
(Traduzione di Claudia Durastanti)