Sotto il velo, le donne

L’Europa multiculturale sempre più si interroga sul rapporto tra spazio comune, spazio pubblico e libertà personale. Nello spazio comune – le strade, le piazze, i negozi, – dove le persone entrano quotidianamente, la libertà di esprimere il proprio essere dovrebbe essere limitata solo a situazioni particolari, legate ad esempio alla pubblica sicurezza o all’ordine pubblico.

Diversamente nello spazio pubblico, luogo attribuito al servizio pubblico per lo svolgimento di determinate funzioni – la scuola, i luoghi di lavoro, i mass media – limitazioni della libertà personale possono essere giustificate da principi fondamentali, ad esempio di neutralità.

Quello che sta accadendo recentemente sembra tuttavia negare questo assunto e un esempio  è dato dai divieti di circolare nello spazio comune con il volto coperto, in molti casi con riferimento al burqa e al niqab[1].

Le ragioni del divieto sono ricondotte alla pubblica sicurezza, ma anche alla tutela della dignità e dei diritti della donna.

Analizzo qui brevemente gli argomenti che più frequentemente vengono avanzati a favore del divieto assoluto del burqa  nello spazio comune in difesa dei diritti e della dignità della donna, anticipando fin d’ora che non li condivido teoricamente e li considero, nella pratica, inopportuni e inefficaci.

Alcuni si fondano sul rapporto tra il burqa e la presunta natura oppressiva dell’Islam, altri sul rapporto tra burqa e integrazione.

In linea di principio non credo sia teoricamente fondato, né empiricamente verificabile, la tesi secondo cui il burqa sia lesivo della dignità e dei diritti della donna.

Questo non significa negare che in Europa vi siano donne che lo indossano perché costrette. Ma questa constatazione porta piuttosto ad auspicare che le istituzioni dei paesi europei si impegnino ad individuare e a mettere in pratica strumenti efficaci di protezione, di tutela dei diritti e dell’eguaglianza di genere. Ho il timore invece che simili divieti non possano che sortire l’effetto opposto a quello dichiarato, vale a dire la scomparsa della donna dallo spazio comune e pubblico, a maggior ragione se costretta da altri a indossare il burqa: un timore, questo, già espresso dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (risoluzione 1743\ 2010, Islam, Islamism and Islamophobia in Europe).

 

Martha Nussbaum[2] ha messo bene in luce gli argomenti avanzati a favore di un divieto assoluto all’uso del burqa che si fondano sull’incompatibilità tra Islam – di cui il burqa è espressione – e cultura occidentale.

Il burqa, ed eventualmente altri indumenti femminili, dovrebbe essere vietato nello spazio comune delle società europee, perché simbolo della cultura islamica, intrinsecamente oppressiva e discriminante nei confronti delle donne.

Le donne musulmane indosserebbero il burqa perché costrette, esplicitamente o in forma implicita[3]; ancora, il burqa sarebbe il simbolo della dominazione maschile e rappresenterebbe l’oggettivazione della donna musulmana. È ancora Martha Nussbaum a ricordarci i simboli della supremazia maschile presenti nelle nostre società – riviste, foto, cartelloni pubblicitari. Dove finisce la libertà della donna occidentale di scegliere che uso fare del proprio corpo e dove inizia la dominazione maschile? Secondo quale criterio solo le donne musulmane, e non anche le donne occidentali, «devono essere salvate»?

L’equazione Islam-burqa è, in primo luogo, fuorviante. La maggior parte delle donne musulmane, fuori e dentro l’Europa, non indossa il burqa. Si tratta poi di argomenti controproducenti, che rafforzano stereotipi, sia quello dell’Islam come cultura omogenea, intrisa di valori incompatibili con quelli occidentali, sia quello della donna musulmana, sottomessa e discriminata. Riflettono una visione paternalistica che si arroga il diritto di poter capire e giudicare complessi rapporti di potere e, al tempo stesso, trascura che per chiunque libertà e autonomia sono sempre influenzate dal contesto all’interno del quale si agisce. Infine, l’errore del doppio standard, vale a dire il ricorso a standard più severi per interpretare l’autonomia e la libertà nelle «culture altre» rispetto a quelli che sono utilizzati per interpretare l’autonomia e la libertà nella «nostra cultura».

 

Vi sono poi gli argomenti che si fondano sulla convinzione che l’uso del burqa non favorisca l’integrazione della donna e in tale senso ne leda i diritti.

Due sono le posizioni più comuni: il burqa, a differenza di altri copricapi che non coprono il volto, cancellerebbe l’identità di chi lo indossa e relegherebbe la donna in una condizione di isolamento e segregazione. Il volto coperto, lo «sguardo che manca», annullerebbe la trasparenza e la reciprocità nella relazione interpersonale.

La libertà personale anche in questo caso mi pare debba prevalere su considerazioni paternalistiche, nel migliore dei casi, dove si decide cosa è meglio per gli altri sulla base di valori, principi, abitudini propri, si sostiene quale sia il modo migliore per comunicare, quali gli strumenti – gli occhi, la parola, lo sguardo –, per poi stabilire come le persone debbano relazionarsi con il mondo.

Le equazioni burqa – isolamento e burqa – negazione dell’identità rimandano a posizioni teoriche assolute che perpetuano l’opposizione tra noi e loro, tra libertà, da un lato, e oppressione, dall’altro, come condizioni date per certe.

Il burqa può ostacolare l’integrazione della donna; ma si tratta di un’ipotesi, tutta da verificare, e non di una tesi.

Certamente l’uso del burqa nello spazio comune condiziona negativamente la comunicazione, nella misura in cui tale indumento, percepito negativamente dall’opinione pubblica, induce nelle persone un atteggiamento di distanza nei confronti della donna velata. Questo è un problema reale che influenza non soltanto la possibilità di comunicare della donna, ma il suo concreto inserimento nella società. In altre parole la paura del burqa è fonte di discriminazione e la discriminazione è fonte di esclusione.

Ma questo rischio può essere scongiurato, e l’integrazione facilitata, da un divieto assoluto? Non si corre piuttosto il rischio opposto, quello di vietare alle donne, soprattutto quelle donne oppresse che si pensa di liberare, l’accesso allo spazio comune delle società europea?

L’integrazione, intesa come processo personale e istituzionale di inserimento della persona nella società, ed il godimento dei diritti implicano sforzi ben più ampi e articolati che con il divieto assoluto all’uso del burqa non hanno, a mio parere, nulla a che vedere.

  Dal mondo musulmano, e in particolare da studiose e attiviste in materia di diritti umani, si pone l’accento sulla complessità del rapporto tra cultura, religione ed eguaglianza di genere, criticando innanzitutto la visione-divisione tra un Mondo Occidentale fondato sull’eguaglianza di genere e sul rispetto per i diritti umani e un Mondo Orientale, profondamente patriarcale e discriminante; tra la donna occidentale tesa a scegliere e ad agire e la donna non occidentale tesa alla tradizione e alla religione[4].

Ne derivano critiche al dibattito sul burqa, che investono tanto le ragioni teoricamente sostenute contro il burqa, il niqab ed eventualmente gli altri indumenti femminili riconducibili all’Islam, quanto i concreti interventi in Europa volti a vietarne in termini assoluti l’uso nello spazio comune, ritenendo fuorviante e riduttivo il primo, e lesivi, quanto inefficaci, i secondi.

In questa direzione è necessario abbandonare visioni paternalistiche ed etnocentriche, secondo le quali la donna è comunque vittima della propria cultura ed elaborare invece concetti e strumenti metodologici che siano in grado di cogliere la complessità della questione.

Come sostiene Fadwa El Guindi l’emancipazione della donna musulmana può avvenire mediante l’uso del velo, o mediante il suo rifiuto, poiché il velo può avere un significato personale secolare o religioso, può rappresentare tanto la tradizione, quanto l’emancipazione e la lotta[5].

Liberando la questione dell’eguaglianza e della dignità di genere da considerazioni paternalistiche e strumentali, ciò che dobbiamo auspicare è che le istituzioni guardino alle donne oltre il burqa, garantendo loro il godimento e la tutela dei diritti, del diritto di partecipare, di essere ascoltate e di tutti i diritti economici e sociali senza i quali la libertà, l’autonomia, la dignità e l’integrazione non sono altro che concetti sui quali possiamo continuare a discutere, ma che, nella realtà, non hanno alcuna consistenza.


[1] In questo saggio citerò solo il burqa, riferendomi implicitamente anche al niqab.

[2] M. Nussbaum, Veiled Threats?, New York Time, 11 luglio 2010.

[3] La false consciousness, secondo Catherine McKinnon, in quanto la percezione di sé e i ruoli sociali sono imposti e instillati nella donna dalla cultura che le sta intorno.

[4] M. MALIK, Feminism and its “Other”: Female Autonomy in an Age of “Difference, Cardozo Law Review, 2009, Complex Equality: Muslim Women and the “Headscarf”, Droit et Société, 2008; L. AHMED, Women and Gender in Islam. Historical Roots of a Modern Debate, New Haven & London, Yale University Press, 1992; ABU-LUGHOD, Zones of Theory in the Anthropology of the Arab World, Annual Review of Anthropology, 1989.

[5] F. El Guindi, Veil: Modesty, Privacy and Resistance, New York, Berg 1999, p. 172.

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