Ho un’età sufficientemente avanzata per ricordare i funerali di Benedetto Croce. Piazza del Gesù era piena di folla, non solo di personaggi autorevoli, ma di tanta gente minuta di quel quartiere di Spaccanapoli dove si stagliano le forme austere di Palazzo Filomarino. Ed era quella stessa gente minuta – bottegai, negozianti, popolan i- che salutava rispettosamente e familiarmente il “senatore”, quando Croce, spesso, nelle prime ore del pomeriggio, dedicate a un breve intervallo dai “lavori forzati” cui si sentiva condannato – come egli definì il proprio lavoro in una lettera del 1910 a Giovanni Gentile, e voleva indicare il suo senso di responsabilità verso il mondo -, percorreva lentamente, già curvo per gli anni, la salita di S. Sebastiano per visitare le botteghe dei librai, alla ricerca di testi da far tornare viventi nella sua opera inesausta. Si avvertiva, quel giorno, come un’aria sospesa e silenziosa. Tutti capivano, ciascuno con la propria sensibilità, che era accaduto qualcosa che chiudeva un’epoca.
Era effettivamente così, e si poteva incominciare a guardare indietro, e a fare un primo bilancio. Scompariva una persona che per trent’anni, tra fascismo e guerra, da quell’angolo di Napoli, fra i dolori e le sofferenze della storia, aveva provato a mostrare, nell’opera sua e nella presenza quotidiana, aperta con liberalità a chi chiedeva di incontrarlo, che esiste come un filo sotterraneo, nella pur terribile storia degli uomini, in grado di rimettere in moto la potenza positiva del fare umano e di quel principio di libertà che per lui era la sua molla profonda.
Qui c’erano il realismo di Machiavelli e la “Provvidenza” di Vico a offrirgli i pensieri per una nuova sintesi. Non dunque “storicismo”, come perpetua giustificazione di ciò che è, ma storia e coscienza storica come i luoghi contrastati dove l’uomo si misura con la forza dell’idea di libertà e con la sua continua caduta che tutto mette a rischio. Cade, l’uomo, sembra sopraffatto, risorge; ma il nucleo profondo della libertà mai si spegne: un atto di fede e di laica religiosità che il filosofo vedeva sgorgare dallo stesso andamento della storia, dai suoi sussulti, dai suoi perenni e anche mortali contrasti e dal suo risorgere a civiltà. Lo scenario era dato dalla storia d’Europa, che Croce ha percorso soprattutto nell’età moderna.
La sua idea di storia come storia della libertà sembrò colpita al cuore dalle vicende che il filosofo visse: due guerre, i fascismi, i totalitarismi, l’impressione che ogni pietà fosse spenta, che il cuore e la mente degli uomini fossero diventati oscuri. E la filosofia europea, infatti, si avviava a percorrere altri tragitti, o di un esistenzialismo disperato e insieme teologizzante o di chiusura nelle torri d’avorio della scienza. Ma Croce resistette e, rispondendo a chi gli faceva osservare che gli orrori della storia non reggevano a nessuna visione “provvidenziale”, osservò, in uno scritto della fine degli anni trenta, che la storia “è storia delle creazioni dello spirito umano, le quali non in altro hanno la materia loro che negli umani affanni, e perciò la storia in questi affanni e in questi orrori tiene sempre il suo punto di riferimento, benchè vi si riferisca non per fermarsi in essi affascinata, ma per intendere come sopra essi sia sorta l’opera, il poema che li trasfigura in bellezza, la critica che li converte in verità, l’azione pratica e morale che ne trae motivi di bene”.
Egli attraversò il Novecento “di ferro e di fuoco” senza trasformare il suo dramma in irenica aspirazione di libertà, ma senza perder fiducia che le riserve che l’umanità porta dentro di sè avrebbero finito con il vincere sulla forza imperiosa dell’irrazionale compreso in quella vitalità che egli stesso definì “cruda e verde”.
Ancora Piazza del Gesù, quel giorno del 1952. Si vedeva scomparire, a Napoli, una figura che non ha facili confronti nel panorama della cultura europea. Non è questione di qualità speculativa, il XX secolo ha abbondato di grande pensiero; ma della quantità di attitudini e di sensibilità che convergevano nella stessa persona, senza che l’una limitasse o intralciasse l’altra: Croce è stato filosofo, storico, moralista, uomo politico; ha scavato minuziosamente nelle origini di Napoli e di Europa nel momento stesso in cui si immergeva nel grande mondo delle idee che sembrano non aver tempo; ha amato, con delicatezza (si pensi al ritratto di Luisa Sanfelice), le persone che studiava non meno delle idee, e così ha dato al pensiero uno stile che non si riesce a riassumere in nessun “ismo”, nemmeno in quelli, consueti, di storicismo o idealismo: il sentimento della vita concreta lo permeava da ogni parte, e chi volesse averne conferma dovrebbe riaprire le pagine di Etica e politica – un libro di Croce cui si può garantire vita eterna- dove l’alta sua saggezza morale tocca vette degne di Montaigne.
Lasciava intendere, questo suo modo di stare fra le cose del mondo e di scrivere intorno a esse, che il suo pensiero nasceva da un atto concreto, quotidianamente riconquistato, che lo portava a pensare le idee senza mai disincarnarle dalla vita, mentre il pensiero europeo seguiva altri percorsi, quelli che lui avrebbe chiamato, un po’ sprezzantemente, “teologizzanti”, i quali avevano dalla loro parte altre ragioni, che non è qui la sede per argomentare. Lunghi silenzi e vuoti hanno segnato il dibattito e la ricerca su Croce in momenti diversi. Fa parte della storia delle idee, delle sue congiunture. Croce resta però una acquisizione alla storia dell’umanità, una “riserva” di idee alla quale si continuerà ad attingere.