Il programma dell’incontro (PDF) del 13 marzo 2013 a Milano
Discutiamo oggi a partire dal dossier pubblicato su «Reset» lo scorso settembre (con interventi di Martha Nussbaum, Silvio Ferrari, Roberta Aluffi Beck Peccoz, Alessandro Ferrari e Letizia Mancini e intitolato “Burqa, un fantasma si aggira per l’Europa” ) e i cui contenuti si ritrovano, integrati e ampliati all’interno del numero monografico di «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica» n. 1/2012 con alcuni approfonditi spunti anche di natura comparatistica. L’esistenza stessa di questi due dossier è indicativa della rilevanza del tema nel contemporaneo dibattito politico e scientifico. Questo per una serie di motivi, alcuni dei quali sono stati efficacemente evidenziati da Alessandro Ferrari, il quale ha parlato nel suo contributo di un “diritto ecclesiastico post 11 settembre e pre-crisi economica”.
Come evidenzia anche il recente volume di Nicola Colaianni “Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale” gli interrogativi posti come sottotitolo di questo incontro non consentono risposte facili e univoche: per Colaianni che, a dire il vero parte dall’hijab e non dal burqa, ma il ragionamento può essere simile, “Dietro ogni hijab c’è una donna con il suo vissuto, che spesso lo usa non come segno di appartenenza cultural-religiosa ma come mezzo per nascondere la scarsità di mezzi economici o come lasciapassare per le strade o, specialmente le ragazze, come strumento di identificazione e di affermazione di sé contro un precoce assoggettamento femminile… La legge intende vietare lo hijab come ‘costume’ espressivo di un sistema di regole e convenzioni differenziato e segregante, proprio mentre lo hijab diventa sempre più un ‘abbigliamento’, appunto vale a dire un modo ‘personale’ di interpretare il costume, adeguandone il significato ai propri bisogni e facendone anche uno strumento di liberazione.”
In altri termini Colaianni ci dice che i significati in questo ambito sono inevitabilmente plurimi: l’abbigliamento può esprimere sia oppressione sia libertà religiosa o anche identità personale, fa valere diritti di minoranze ed evoca problemi di sicurezza. E’ impossibile quindi uscire da questi dilemmi con soluzioni univoche e ricette semplicistiche.
Le ordinanze bocciate e l’incertezza del diritti. Al netto delle varie e non condivisibili strumentalizzazioni, un problema in Italia esiste davvero, e questo non tanto per l’impatto quantitativo del fenomeno (molto basso al momento), quanto piuttosto per l’impostazione data finora alla questione. Il punto di partenza nel caso italiano è rappresentato da una serie di ordinanze restrittive di sindaci tese a vietare veli a copertura del volto (niqab e burqa o, secondo la classificazione che ne offre Roberta Aluffi più correttamente hijab integrale). Queste ordinanze sono state poi annullate dai prefetti e in qualche caso giunte davanti il Consiglio di Stato (Cons. St., VI Sez., sent. 19 giugno 2008, n. 3076) e in quelle occasioni si è ritenuto, non senza incertezze, che quello religioso e culturale potesse essere un valido motivo per occultare il proprio volto, ai sensi della Legge Reale del 1975. Questa – adottata durante gli anni della lotta al terrorismo e quindi di per sé emergenziale – vieta l’uso di caschi o di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora non sussista un giustificato motivo. Nozione, quest’ultima, di carattere molto ampio e, peraltro, come nota Colaianni, anche quando non fosse esplicitata, vi sarebbe comunque l’esimente generale prevista dall’articolo 51 del codice penale, secondo cui “L’esercizio di un diritto..esclude la punibilità”.
Dall’altro lato la giurisprudenza ordinaria ci ha anche fornito casi che affermano come nell’ordinamento non esista una disposizione, comparabile a quella relativa ai caschi protettivi, sulla quale possa fondarsi un divieto di indossare quel tipo di indumenti (sentenza di un giudice penale di Cremona che assolse per non aver commesso il fatto la moglie di un Imam che si era presentata col niqab in Tribunale, Trib. Cremona, 27 novembre 2008).
In estrema sintesi, con riferimento alla questione del velo integrale in Italia, è possibile sostenere tre cose: a) vi sono spinte politiche basate su un approccio alla questione di tipo securitario; b) allo stato attuale non si sa spesso come applicare la legislazione vigente, nata negli anni del terrorismo come risposta emergenziale; c) non pare opportuno lasciare alle sole decisioni delle autorità amministrative o alla interpretazione giurisprudenziale un tema che tocca le libertà costituzionalmente garantite. E questo sia che l’atto di velarsi sia connesso alla libertà religiosa sia che lo si colleghi alla libertà di espressione, come ci spiega Roberta Aluffi nel suo saggio specificando che il significato del velo è ambiguo e dipende dal contesto e in ogni caso il suo significato non è “necessariamente o esclusivamente” riferibile alla religione, analogamente a quanto sostenuto da Colaianni che collega stringentemente l’abbigliamento all’identità personale.
Rispetto a un paio di anni fa il dibattito è certo parzialmente ridimensionato o meglio ha perso parte di quella “impellenza politica”. E tuttavia, anche a fronte delle scelte legislative compiute dalla Francia e dal Belgio e dai recenti tentativi olandesi, il nucleo portante del quesito giuridico e di politica del diritto rimane intatto: è possibile – per riprendere le parole con cui Silvio Ferrari apre il suo saggio – proibire burqa e niqab senza violare i principi che stanno alla base del costituzionalismo liberale?
Riconoscibilità e identificazione
Si può cercare di rispondere partendo dall’identificare quale sia il bene da tutelare. Mi convince molto la distinzione che ho ritrovato in più saggi tra riconoscibilità e identificazione, riconducendo solo alle finalità connesse alla seconda il fondamento giustificativo della proibizione del velo. Così come altrettanto convincente è la distinzione tra spazio comune, spazio politico e spazio istituzionale che ritrovo nel saggio di Silvio Ferrari.
Io però credo che la riconoscibilità in sé della persona in generale in un luogo pubblico o aperto al pubblico sia un bene da tutelare, perché esprime la volontà di vivere insieme, di sentirsi interpellato dall’altro, di comunicare senza vantaggi o svantaggi informativi tra chi è coperto e chi non lo è. A ciò si aggiunga quanto evidenziato da Letizia Mancini, ovverosia che il burqa induce nelle persone un atteggiamento di distanza rispetto alla donna velata.
In questo contesto, al fine di tutelare un bene che esprime emblematicamente la scelta per una società aperta, il legislatore può essere legittimato a stabilire dei limiti purché tali limiti siano proporzionali a quel fine.
Per questo sarei un po’ meno drastico di Alessandro Ferrari nella sua critica dei tentati interventi legislativi della XVI legislatura. Raggruppandoli tutti in un unico contenitore si rischia di non evidenziare la linea equilibrata sostenuta alla Camera, in I Commissione, dai deputati Pd. Va chiarito attraverso un intervento normativo essenziale che, fatti salvi i luoghi di culto e le manifestazioni tradizionali o peculiari di carattere artistico o sportivo, né la religione né motivi culturali possono esonerare dalla riconoscibilità del volto nello spazio pubblico (luogo pubblico o aperto al pubblico), vietando quindi in tali contesti le forme di vestiario che coprano il volto, senza con questo far riferimento nella legge a particolari credenze o appartenenze, che sarebbe discriminatorio e senza entrare nel merito della classificazione di determinati abbigliamenti. Al contrario, il testo della relatrice di maggioranza approdato in aula nell’ottobre del 2011 nominava esplicitamente degli indumenti in maniera chiaramente discriminatoria. Rimango convinto del fatto che sia più giusta e sufficiente una clausola generale di divieto a tutto ciò che impedisce la riconoscibilità.
La riconoscibilità è funzionale ad un ideale di società aperta, l’unica in grado di garantire al massimo l’inclusione e la libertà religiosa e che talora ha bisogno di qualche limite, leggero, ragionevole e proporzionato. E nel senso di tutelare quella società andrebbe l’introduzione del reato di “costrizione all’occultamento del volto” che punirebbe il comportamento di chi obbligasse qualcun altro a coprire il volto.
Difatti, sebbene numerosi studi abbiano dimostrato che la scelta delle donne musulmane in Europa sia tendenzialmente libera, uno Stato di tradizione liberal-democratica che non fosse in grado di tutelare una donna costretta a indossare il velo per imposizione del gruppo sociale nel quale è inserita sceglierebbe di omettere una soluzione e di voltarsi dall’altra parte: la scelta del non intervento in questo caso sarebbe comunque incompatibile con il principio di libertà e, quindi, ci porterebbe all’esterno del perimetro del cd. triangolo di Bauberot (lo storico e sociologo delle religioni francese che ha teorizzato che il governo delle differenze religiose per funzionare deve trovare soluzioni che stiano all’interno di un triangolo i cui tre lati sono rispettivamente: la separazione tra Stato e chiesa, la libertà e l’uguaglianza).
Proprio perché credo fermamente nel concetto di società aperta non posso negare quanto sia paradossale che il nostro ordinamento, sulla base dell’impostazione della maggioranza iniziale della scorsa legislatura, abbia guardato al burqa solo come un problema connesso alla sicurezza pubblica, ovvero partendo dalla interpretazione peculiare di una legge basata chiaramente su circostanze emergenziali, quali la legge Reale del 1975. È stato totalmente eluso il discorso connesso alle politiche dell’integrazione e dell’accoglienza, le quali rivestono un ruolo fondamentale in un’Italia sempre più religiosamente e culturalmente plurale. Meglio sarebbe stato finalmente intervenire in materia di accoglienza e integrazione, riformando la legge sulla cittadinanza, riconoscendo come italiani le seconde generazioni di immigrati (come richiesto accoratamente anche dal Presidente della Repubblica), concedendo il diritto di voto alle amministrative e, infine, completando sostanzialmente il quadro delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica. Su quest’ultimo aspetto sono stati compiuti ampi e significativi passi grazie all’approvazione delle leggi recanti intese con cinque nuove confessioni ovvero Ortodossi, Mormoni, Apostolici e per la prima volta due esterne alla tradizione giudaico-cristiana quali Induisti e Buddisti. Si è trattato forse di uno dei risultati più tangibili e concreti della legislatura appena conclusa eppure il problema principale, quello dell’Intesa con l’Islam (ormai numericamente seconda o terza confessione religiosa pressoché alla pari con gli ortodossi) pare essere ancora lontano da una soluzione, a cui si aggiunge il nodo della legge generale che dovrebbe sostituire quella sui culti ammessi del 1929.
Conclusione: una norma minima per la riconoscibilità a difesa della società aperta
In conclusione direi che il prossimo Parlamento, qualora riuscisse a superare le enormi difficoltà di partenza, dovrebbe partire da altre priorità (cittadinanza, diritto di voto alle amministrative agli immigrati regolari e libertà religiosa) e tuttavia, qualora si dovesse tornare sull’argomento, occorrerebbe tendere, come ho già avuto modo di sostenere altrove (Ma la società aperta chiede riconoscibilità, l’Unità, 8 agosto 2011), ad una norma minima a favore della riconoscibilità della persona che si ponga a difesa della società aperta. Certamente non contro gli immigrati, né contro l’Islam.
se coloro che predicano la cittadinanza agli arabi parlassero/leggessero l’arabo, vivessero almeno un anno in un Paese tra Algeria ed Egitto ed avessero accesso ai rapporti in merito (per lo + ignorati) dell’intelligence, ne discuterebbero con cognizione di causa e capirebbero il pericolo di un’eventuale decisione in favore di qualsiasi facilitazione/scorciatoia per l’ottenimento della cittadinanza.
Invece chi apre bocca ignora la realta’ che viviamo noi residenti in tali Paesi.