Quali sono le attuali prospettive di un nuovo realismo? Con «realismo», in questo contesto, intendo l’idea che esista una realtà del tutto indipendente dalle nostre rappresentazioni. In tal senso, il realismo viene normalmente contrapposto alle varie forme di idealismo.
L’evento intellettuale più significativo del nostro tempo è lo sviluppo della conoscenza. Oggi sappiamo molte più cose dei nostri nonni, che a loro volta sapevano molte più cose anche rispetto ai grandi classici della filosofia moderna, agli autori del Seicento e del Settecento. In virtù di questo straordinario sviluppo della conoscenza, la natura stessa dell’impresa filosofica è profondamente cambiata.
Nel contesto della filosofia moderna, inaugurata da Cartesio, il problema centrale era, citando Locke, la natura e l’estensione della conoscenza umana. La principale finalità dell’impresa filosofica era quella di fornire una risposta allo scetticismo e, nelle parole di Cartesio, un fondamento sicuro alla conoscenza. Ora, alla luce dello sviluppo, della quantità, della profondità e dell’estensione della conoscenza umana, non credo che l’impresa epistemologica tradizionale possa essere presa tanto seriamente quanto lo fu in passato.
Lo scetticismo si presenta tuttora sotto forma di una serie di affascinanti enigmi filosofici, ma nessuno può onestamente mettere in dubbio lo sviluppo della nostra conoscenza. In termini molto semplici, in un’epoca in cui l’uomo può andare (e tornare) sulla luna, è difficile chiedersi seriamente se esista il mondo esterno, o se sia possibile fare previsioni sul futuro sulla base di conoscenze certe. La ricerca epistemica e la sfida posta dallo scetticismo sono state per tre secoli al centro dell’impresa filosofica. Anche gli ambiti della filosofia che non sembrerebbero propriamente epistemici, come l’etica e la filosofia politica, erano visti innanzi tutto come una serie di problemi epistemici. Come possiamo sapere con certezza qual è la cosa giusta da fare? Come possiamo conoscere esattamente i nostri doveri politici?
E tuttavia, se non siamo più attanagliati dallo scetticismo come lo erano i pensatori del Seicento, che cosa ha sostituito l’epistemologia come tema centrale della filosofia? Ai tempi in cui ero uno studente universitario, la risposta a tale domanda era piuttosto semplice. Lo studio del linguaggio ha sostituito quello della conoscenza, e la questione fondamentale non è più «Come lo sai?», ma «Cosa intendi?». Per una serie di ragioni complesse nelle quali non intendo addentrarmi, la filosofia del linguaggio non è più al centro della ricerca filosofica, come quando cominciai a occuparmi seriamente della materia, ormai più di cinquant’anni fa. Riformulo dunque la domanda: se l’epistemologia e la filosofia del linguaggio non sono più il tema centrale della filosofia, che cosa ne ha preso il posto?
L’evento centrale dell’epoca contemporanea, l’ho già detto, è lo sviluppo della conoscenza. Analizzando gli ambiti in cui tale fenomeno si è manifestato, tuttavia, si nota una particolare tensione con il resto delle nostre risorse intellettuali. La concezione della realtà che ci è offerta dai campi di conoscenza più avanzati – fisica, chimica e altre scienze naturali – descrive un mondo che consiste essenzialmente di particelle fisiche senza mente e senza significato. Non è del tutto corretto definirle «particelle», ma le entità della fisica atomica sono, in un certo senso, gli elementi fondamentali della realtà.
Se pensiamo a noi stessi come parte di questa realtà, tuttavia, notiamo una particolare tensione, in quanto la nostra auto-concezione ci rappresenta come esseri umani coscienti, attenti, intenzionali, razionali, capaci di compiere atti linguistici e dotati di libero arbitrio, di un’etica, di un’estetica e di un credo politico. Ora, io credo che la questione centrale della filosofia nel nostro tempo sia se e come conciliare questa nostra auto-concezione con la concezione di una realtà fondamentalmente composta di particelle fisiche senza mente e senza significato. Che tipo di relazione sussiste tra l’etica e gli elettroni, o tra la coscienza e le molecole a base di carbonio?
Se questo è il problema – mettere in relazione la realtà umana con quella degli elementi di base, la realtà della coscienza e del libero arbitrio con quella della fisica e della chimica – allora basterebbe impegnarsi per risolverlo. Alcuni problemi saranno «scientifici» (come funziona esattamente il cervello?), altri saranno «filosofici» (qual è la natura della coscienza e del significato)? Ebbene, in un certo senso, credo che molti di noi siano alle prese proprio con il tentativo di risolvere la serie di problemi che ricadono nell’ambito del programma che ho abbozzato. Ma vi sono alcuni ostacoli di carattere filosofico da superare.
Credo che i due principali errori nella storia della filosofia siano una teoria metafisica (nota come dualismo) secondo la quale il mondo è diviso in due e una concezione per cui è impossibile percepire direttamente oggetti e stati di cose che vanno oltre la nostra esperienza. Nella tradizione della filosofia moderna, a partire da Cartesio, queste due idee vanno a braccetto. La realtà consiste in una parte mentale e una parte fisica, e occorre accettare il fatto che, nel processo conoscitivo, percepiamo direttamente solo le nostre idee, o (come le chiamava Hume) impressioni, o ancora (come furono definite nel Novecento) dati sensoriali. A mio giudizio entrambe le prospettive sono profondamente sbagliate, e tuttavia, come vedremo, ancora presenti in forma residuale.
Un terzo errore, oltre al dualismo e alla teoria dei dati sensoriali, che tuttora ci perseguita è il retaggio di una serie di categorie, di assunti filosofici che servono a fissare la cornice del dibattito filosofico. Coloro che, come chi scrive, rifiutano il dualismo, per esempio, di solito si sentono per ciò stesso costretti ad accettare una sorta di monismo.
Alla luce di quanto ho appena affermato sulla fisica intesa come componente della nostra ontologia fondamentale, si è tentati di pensare che la versione corretta del monismo sia il «materialismo». Secondo una certa concezione del materialismo, inoltre, nella chiave di lettura materialistica della realtà tutto deve essere ridotto alle entità fisiche fondamentali, e lo scopo principale di tale riduzione è dimostrare un tipo di relazione di identità: quella tra il fenomeno ridotto e i fenomeni riducenti. E i nostri grandi successi intellettuali sembrano confermare questo modello. Così, la teoria atomica ha «ridotto» gli oggetti a insiemi di molecole, e caratteristiche come la solidità e la liquidità a forme di comportamento molecolare. Il terzo errore, insomma, consiste nel dare per scontata tutta una serie di categorie filosofiche che comprendono identità, riduzione, causalità, monismo, materialismo e dualismo, le quali sono, in vario modo, irrimediabilmente confuse e rendono difficile, spesso impossibile, dare una lettura corretta della serie di problemi che ho cercato di esporre.
Eppure, in base alla mia spiegazione del fenomeno, non sembrerebbe troppo difficile trovare una soluzione. Il dualismo può essere superato non confutandolo e sostituendolo con il materialismo monista, bensì dimostrando che tutte quelle categorie sono inadeguate. La concezione della percezione che perdura dal XVII secolo, e a ben vedere risale agli antichi greci, può essere superata fornendo un’attenta analisi dell’intenzionalità dell’esperienza percettiva. Si direbbe, dunque, che un’accurata analisi filosofica permetta di superare tali ostacoli.
Dopo cinquant’anni di esperienza, tuttavia, devo dire che vi sono ombre molto diffuse che rendono tale compito molto più difficile di quanto non sarebbe altrimenti. Nello specifico, la nostra impresa ricade nel cono d’ombra di due tradizioni. La prima va sotto il nome di Dio, Anima e Immortalità, la seconda è la Scienza. La tradizione legata a Dio, all’anima e all’immortalità rende difficile, se non impossibile, pensare alla nostra vita mentale come parte del mondo fisico ordinario, alla stregua di digestione, fotosintesi, secrezione della bile e altri fenomeni biologici. Tanto per fare un esempio, credo che nessuno di voi possa comprendere il fascino dell’intelligenza artificiale, quella che io chiamo «IA forte», senza interpretarla come una continuazione della tradizione del credo nell’anima. Nella prospettiva dell’IA, la mente non è parte della biologia come la digestione, bensì, per citare uno dei suoi fautori, Dan Dennett, qualcosa di «formale e astratto». Come l’anima, il programma informatico ha un’esistenza ideale. La maledizione della Scienza non è dannosa come quella di Dio, Anima e Immortalità, ma è piuttosto nociva per le ragioni che ora spiegherò.
La scienza è erroneamente intesa come una serie di credenze e proposizioni. E questa è un’idea sbagliata. La scienza, intesa nel modo giusto, indica una serie di metodi, pratiche e procedure per scoprire come funzionano le cose, ma non esiste una «realtà scientifica». La scienza non designa una porzione della realtà, ma –ripeto – una serie di metodi per scoprire la realtà stessa. Anche quest’ultima è un’idea sbagliata, perché lascia intendere che vi sia una sorta di metodo scientifico magico o speciale, quando in realtà la scienza non è altro che senso comune illuminato, reso sistematico e, laddove possibile, sperimentale.
In termini nudi e crudi, se Dio, l’anima e l’immortalità esistessero realmente, sarebbero dati di fatto scientifici come qualsiasi altro. E se si riuscisse a dimostrare, con rigorosi metodi sperimentali, la loro esistenza, questa sarebbe semplicemente un’appendice della fisica come qualsiasi altra. Per definizione, tutto ciò che esiste in natura fa parte della natura, e di conseguenza non esiste alcunché di «soprannaturale», poiché se la realtà avesse una componente soprannaturale, quest’ultima farebbe parte della realtà e, dunque, della natura come qualsiasi altro elemento. Vi sono ragioni storiche che ci impediscono di riconoscere questo dato di fatto, ma si tratta comunque di un dato di fatto.
Nella mia infanzia intellettuale c’era un ramo della filosofia noto come “filosofia della scienza” che si occupava principalmente di isolare i metodi scientifici da quelli degli altri ambiti, e in qualche caso di individuare i criteri per distinguere un’ipotesi scientifica da tesi di altro tipo. Per quanto mi risulta, tutto ciò è venuto meno e la nostra concezione della filosofia della scienza è ormai completamente diversa. Perché? La ragione, sempre per quanto mi risulta, è che essa è stata di fatto demolita dal lavoro del mio collega Thomas Kuhn.
Kuhn ha dimostrato che il progresso scientifico non è dato dall’accumulazione graduale di fatti e teorie secondo un “metodo scientifico” generalmente accettato, bensì avviene per “rivoluzioni scientifiche” che sostituiscono una data concezione di un aspetto della realtà con una concezione diversa, e spesso le motivazioni di tale sostituzione sono, in misura variabile, non razionali, ma più assimilabili a una conversione religiosa.
Non so se questa lettura dei fatti sia corretta, ma a me sembra, in ogni caso, che i filosofi della scienza oggi non si propongano di individuare i principi generali del metodo scientifico, bensì di analizzare metodi, risultati e problemi filosofici di ambiti specifici, come la filosofia della biologia o la filosofia della fisica. Per tale ragione, i filosofi della scienza tendono a occuparsi molto più attivamente delle varie discipline specialistiche di quanto non avvenisse nel periodo classico della filosofia della scienza, con autori come Hempel e Popper. Uno dei residui della tradizionale (ed erronea) concezione della scienza, tuttavia, è in un certo senso l’idea che quest’ultima sia «riduzionista» e «materialistica», il che induce molte persone, quando discutono della mente, a supporre che se si riconoscono i fenomeni mentali, e il carattere irriducibile, qualitativo, soggettivo della nostra vita cosciente, si nega in qualche modo la «visione scientifica del mondo» e la sua presunta natura riduzionista e materialistica. Occorre dunque uscire dall’ombra di quelle due tradizioni per dare una lettura adeguata della realtà.
Vi sono diversi elementi da rilevare nella mia riflessione sulle prospettive di un nuovo realismo. Innanzitutto, pur essendo realistico, esso è inteso in senso puramente naturalistico. Tutti i fenomeni in questione – fenomeni come coscienza, intenzionalità e realtà sociale e istituzionale –, molti dei quali hanno tormentato i filosofi del passato che si consideravano naturalisti, fanno parte del mondo naturale alla stregua di elettroni, fotosintesi e digestione.
In secondo luogo, anche se ho introdotto la mia analisi definendo il naturalismo come l’idea che esista una realtà del tutto indipendente dalle nostre rappresentazioni, molti dei fenomeni per noi più affascinanti dipendono a loro volta da comportamenti umani. La lingua e la realtà sociale e istituzionale sono gli esempi più ovvi. I rumori che escono dalla nostra bocca, i segni che facciamo sulla carta, sono parole e frasi solo in relazione a una certa attribuzione di significato collettiva a quelle parole e a quelle frasi; e la realtà del denaro, della proprietà privata, del governo e del matrimonio è tale in relazione all’esecuzione di atti linguistici che assumono la forma di Dichiarazioni di Funzione di Status.
Così, una concezione naturalistica del realismo ci renderà conto di molti aspetti enigmatici della realtà che i filosofi del passato tendevano a considerare incompatibili con il naturalismo. Ancor oggi, se leggiamo un articolo sulla cosiddetta «naturalizzazione dell’intenzionalità» o «naturalizzazione della coscienza», probabilmente noteremo che l’autore nega l’esistenza stessa della coscienza come irriducibile, qualitativa e soggettiva, sulla base della motivazione che non sarebbe «naturalistica». Quel che intendo sostenere, invece, è che proprio come fenomeno naturalistico, la coscienza, con la sua ontologia soggettiva in prima persona, fa parte della natura. In modo analogo, l’intenzionalità fa parte della nostra storia naturale tanto quanto la digestione.
Vi sono molti altri aspetti che non ho avuto il tempo di discutere, ma ci tengo a sottolineare che li affronterei con lo stesso identico approccio. Razionalità, Etica ed Estetica sono tutti fenomeni naturali. Uno degli aspetti naturali della vita mentale umana è che i vincoli della razionalità sono insiti nei processi stessi che la natura ci offre, come la percezione, il pensiero e il ragionamento; e così come i vincoli della razionalità influenzano la nostra intenzionalità, allo stesso modo essi svolgono un ruolo speciale sul piano etico, in quei rapporti interpersonali che chiamano in causa questioni fondamentali. C’è una terribile ironia nella tradizionale idea humeana secondo cui è impossibile derivare un «deve» da un «è», poiché la nozione stessa della nostra rappresentazione di qualcosa come esistente impone vincoli di razionalità. Nella nozione stessa di un «è», come affermazione su uno stato di cose, c’è l’idea di quella che dovrebbe essere la nostra reazione. Se mi si assicura che qualcosa esiste, per esempio, ne consegue che non si dovrebbe negare razionalmente la sua esistenza. In questo caso, il mio intento non è quello di analizzare i meccanismi del comportamento etico e razionale, bensì di dimostrare che un naturalismo coerente può superare molte delle tradizionali apprensioni legate alla sfera etica.
John Searle è considerato uno dei maggiori filosofi contemporanei americani. Professore all’UC Berkeley dal 1959, ha condotto studi sul linguaggio, l’intenzionalità e la realtà sociale, criticando il computazionismo e l’intelligenza artificiale cosiddetta “forte”. Tra le sue opere principali: Atti linguistici (Boringhieri, 1976), Mente, linguaggio e società (Cortina, 2000) e La costruzione della realtà sociale (Einaudi, 2006).
(Traduzione di Enrico Del Sero)