Da Reset-Dialogues on Civilizations
La recente morte del giovane pescatore marocchino, Mouhcine Fikri, ha portato molti commentatori a scorgere una sinistra similitudine tra questa vicenda e la tragica scomparsa nel dicembre del 2010 del tunisino Mohamed Bouazizi. In effetti, per quanto Fikri, a differenza di Bouazizi, non abbia compiuto un volontario e disperato gesto di autolesionismo, le due storie presentano numerosi punti di contatto. In particolare, episodi che sarebbero potuti essere archiviati come ‘semplici’ drammi personali sono stati raccoltati da larghi strati della popolazione ed elevati a casi simbolo dell’arroganza e della vessazione del potere, portando a manifestazioni di massa nelle strade dei due paesi. Francamente, non crediamo che le proteste in corso in Marocco potranno dar vita ad una “Primavera Araba 2.0”. Detto altrimenti, sembra probabile che la storia di Fikri non raggiunga mai la popolarità di quella di Bouazizi. Al tempo stesso, la rapidità con la quale il movimento di protesta si è sviluppato in molte aree del Marocco è certamente una spia del malessere sociale che continua a ribollire in tutto il Nord Africa e che sembra oggi concentrarsi proprio in quei paesi mancati, o per meglio dire, toccati marginalmente, dall’ondata di proteste del 2011. Tra questi, oltre al Marocco, spicca l’Algeria, colpita da una lunga serie di scioperi che per diffusione e radicalità appare assolutamente straordinaria.
Al momento non esistono ancora dati certi su un fenomeno che si trova in pieno svolgimento e che sembra vivere di nuove ed improvvise fiammate ogni qualvolta l’ondata di scioperi sembra sul punto di rifluire. Ciò detto, un simile fermento tra i lavoratori algerini non lo si vedeva da almeno due decenni, da quando cioè il fallito esperimento democratico a cavallo tra gli anni ottanta e novanta ha impantanato il paese – prima – in una violenta guerra civile durata dieci anni e – poi – in una fase di apparente stabilità e pace sociale. Le categorie maggiormente in agitazione sono quelle del settore pubblico, tradizionalmente ipertrofico in Algeria e adesso minacciato dalla crisi economica che colpisce duramente un paese dipendente dalla rendita petrolifera, e perciò messo alle strette dal perdurante basso prezzo dell’oro nero sui mercati internazionali. Gravato da un altissimo deficit nella bilancia commerciale e da una rapidissima contrazione nelle riserve di valuta straniera, il governo algerino ha varato un piano di severa austerity sociale, che minaccia di trasformarsi in misure “lacrime e sangue” con l’entrata in vigore della legge finanziaria del 2017. Come dichiarato da un manifestante durante una marcia tenuta da centinaia di lavoratori aderenti al sindacato autonomo del personale dell’amministrazione pubblica (Snapap) lo scorso primo novembre, “l’aumento dei salari del 2008 non ha avuto alcun effetto sulla vita dei lavoratori. È stato completamente consumato dall’inflazione. Il nostro potere d’acquisto è stato eroso ed il peggio deve ancora venire”. Non meno caldi i fronti rappresentati dalla scuola e dalla sanità, dove i vari sindacati autonomi sono in perdurante agitazione contro il largo utilizzo di contratti a tempo determinato, le pessime condizioni lavorative, ed il varo della nuova legge sul pensionamento siglata lo scorso 26 luglio, che innalza l’età pensionabile a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne
Soprattutto però, già a partire dalla fine di ottobre il movimento di protesta ha raggiunto Rouïba, località sita a poche decine di chilometri ad est di Algeri e cuore dell’industria pesante che ai tempi del presidente Boumedienne segnava il tentativo di raggiungere un’indipendenza non solamente formale dall’Europa. Certamente, il numero di tute blu presenti nell’area non è più quello degli anni settanta, ma la zona di Rouïba rimane la concentrazione industriale più importante dell’intero paese. Oggi come allora, tutto ruota attorno alla gigantesca fabbrica del SNVI – l’impresa nazionale che produce veicoli industriali. Lo scorso 23 ottobre i 7000 lavoratori di questo stabilimento hanno iniziato a fare pressione sui quadri sindacali dell’UGTA, per molti decenni il sindacato unico d’Algeria, per indire le prime azioni di protesta contro una situazione che senza mezzi termini definivano “catastrofica”. Infatti, nonostante il promesso investimento statale di 17,2 miliardi di dinari algerini con lo scopo di rilanciare la produzione, la presenza di macchinari iper-datati e l’assenza di un’oculata gestione manageriale ha determinato pessimi risultati industriali per l’anno in corso. Con un obiettivo di produzione fissato a 2036 veicoli, tra camion e bus, il magro bilancio ad ottobre faceva segnare solamente 554 mezzi usciti dalle officine. La paura dei lavoratori è che il disinteresse statale possa tradursi in un abbandono totale della fabbrica, con la conseguente chiusura delle attività e perdita dei posti di lavoro. Spinti dalla totale assenza di risposte da parte del governo e della direzione del SNVI, i lavoratori hanno sospinto su posizioni radicali i rappresentanti sindacali dell’UGTA, costretti ad assecondarli per non perdere il contatto con la propria base. Lunedì 31 ottobre tutto il complesso del SNVI è quindi rimasto paralizzato per lo sciopero totale dei 7000 lavoratori, che si è poi prolungato per l’intera settimana lavorativa. Nel corso della protesta, i lavoratori hanno radicalizzato le proprie domande, giungendo a rifiutare di trattare con la dirigenza dell’azienda e chiedendo il completo rinnovo dei vertici – di nomina statale – del SNVI.
Tale dinamica riporta alla mente con una sorprendente analogia quanto successe a Mahalla al-Kubra, cuore tessile d’Egitto, negli anni che precedettero le rivolte del 2011, dove i lavoratori muovendo da questioni economiche e legate alla paura della privatizzazione dell’azienda giunsero poi ad esplicite richieste politiche. La gravità della vicenda non è però sfuggita al governo che ha richiesto la mediazione della leadership nazionale dell’UGTA, grazie alla quale i lavoratori hanno ripreso regolarmente a svolgere le proprie mansione dopo sei lunghi giorni consecutivi di sciopero. Il clima però, in quella che il quotidiano Le Soir d’Algérie ha definito “una crisi senza precedenti nell’intera zona industriale di Rouïba”, rimane tesissimo. I lavoratori hanno infatti annunciato che se entro la fine di novembre le loro principali richieste – sostituzione dei quadri dirigenziali, rilancio del polo industriale di Rouïba, e ritiro della legge che ha introdotto precisi obblighi d’età per il pensionamento – non venissero accolte, un nuovo ciclo di proteste andrebbe presto in scena.
Tutto questo mentre un anziano e malato Abdelaziz Bouteflika continua – almeno formalmente – a guidare il paese. Il presidente algerino è partito nuovamente per l’Europa il 7 novembre scorso. Scopo della missione non è però – come sarebbe logico aspettarsi da un capo di stato – l’incontro con parigrado o delegazioni di altri paesi. Al contrario, Bouteflika si trova in Europa per una nuova serie di controlli medici ai quali viene regolarmente sottoposto a partire dal grave ictus che lo ha colpito nella primavera del 2013. Come sottolineato dal quotidiano El Watan, dopo nove mesi dall’incidente diplomatico causato dal premier francese Manuel Valls, che durante la sua visita ufficiale in Algeria aveva pubblicato una serie di foto che ritraevano Bouteflika in un pessimo stato di salute, il presidente algerino sceglie nuovamente Grenoble per curarsi. Segno che dopo la parentesi della clinica svizzera, tra Algeria e Francia è tornato il sereno. Anche perché, la sostituzione alla testa dello storico partito di governo (il Fronte di Liberazione Nazionale) del carismatico e rampante Amar Saadani con il docile ed anziano Djamel Ould Abbes segna chiaramente l’intenzione dell’apparato militare, che controlla da sempre il paese, di continuare con “l’anatra zoppa” al vertice dello stato. Un’ opzione che però necessità di alleati credibili e forti, come la Francia, sullo scacchiere internazionale. Uno scenario che forse potrebbe essere scompaginato soltanto dall’ulteriore crescita e politicizzazione del movimento di protesta dei lavoratori. In tal caso, Bouteflika sarebbe probabilmente scelto come la vittima sacrificale per placare il dissenso sociale. Questo però, rimane ancora un capitolo della storia algerina tutto da scrivere.