Non solo il rifiuto cieco di quello che è ormai un dato ovvero la personalizzazione della politica, ma anche l’incapacità di evitare l’affermazione di una miriade di capi e capetti nel Pd (qualcuno anni fa li chiamò “cacicchi”) con il loro piccolo o grande potere locale, con la loro corrente personale, che stanno distruggendo il Partito democratico. Il duplice atto d’accusa che Mauro Calise muove nei confronti del Pd è lucido, netto e senza appello, almeno per una classe dirigente che nel complesso ha portato al naufragio delle Politiche del febbraio 2013 e dell’elezione del presidente della Repubblica.
Il funesto anno che si sta concludendo per il Pd sarà ricordato come quello della “non vittoria” della Ditta Bersani e dei 101 che hanno affossato Prodi, ma forse anche come l’anno in cui al soglio del Nazareno è asceso il giovane e rampante sindaco di Firenze. «Per ora Matteo Renzi – confessa Calise – mi sembra coraggioso, un leone tra le volpi. Però è più bravo che autentico e ancora deve fugare i dubbi sulla capacità di andare in profondità nella politica».
Col volumetto Fuorigioco (Laterza 2013) lo studioso napoletano prosegue la sua analisi dell’Italia politica aggiornando e approfondendo spunti dei precedenti Terza repubblica e Il partito personale (entrambi Laterza).
In Fuorigioco afferma che “una leadership forte è l’antidoto al partito personale”. Spieghi perché non è una contraddizione.
La personalizzazione è un tratto dominante della nostra epoca. Dal tessuto sociale a quello politico, passando per la sfera comunicativa che ne è il principale ambiente e moltiplicatore. Si tratta del fenomeno più macroscopico delle società contemporanee, piaccia o non piaccia. A me, ad esempio, piace poco ma cerco di evitare che questo giudizio infici la mia analisi. Una leadership forte contribuisce a legittimare il partito, se da questo non viene combattuta. È quello che si è visto in Inghilterra con Blair o in Germania con la Merkel.
E perché da noi non funziona?
È un processo che si consolida se trova uno sbocco istituzionale adeguato, a livello di premiership o presidenza. Leader forte, più partito coeso, più istituzione monocratica: è questo il circolo virtuoso che può arginare la degenerazione della personalizzazione, imbrigliarla in un circuito pubblico di legittimazione. Altrimenti la personalizzazione imbocca la scorciatoia della privatizzazione: il partito come proprietà personale del leader. In senso stretto, come con Berlusconi, o più mediato, come abbiamo visto con Di Pietro, Monti, Grillo. Tutte modalità diverse di personalizzazione del partito, ma accomunate dallo stesso destino: la fine del partito come organismo collegiale. E su questo insisto: nella nostra epoca, il partito come organismo unitario può sopravvivere solo grazie al riconoscimento di un capo. Si tratta di una verità anticipata, con la proverbiale lucidità, da Gramsci un secolo fa e chissà se i macro o micronotabili del Pd l’hanno letta… La riprendo da un bellissimo libro di Fabio Bordignon (Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, in uscita in questi giorni per Apogeo/Maggioli): «Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un “capo”».
ll Pd di Bersani è stato ostinatamente contrario alla personalizzazione. Ha formulato questa avversità anche attraverso gli slogan e le frequenti dichiarazioni del segretario. Tuttavia al di là delle colpe della leadership, la linea Bersani è stata scelta alle primarie da un popolo che in fondo, culturalmente si identifica con quell’idea di partito e di collegialità ed è contro l’apparente “irrazionalismo” della leadership carismatica. Insomma, è colpa di Bersani ma anche di una parte consistente della gente di sinistra (non so se su questo sei d’accordo). Come convincere (ammesso che vada fatto) questa ampia parte di sinistra? È sufficiente dire nell’altro modo si vince?
Non sorprende che una parte consistente della sinistra condivida l’ideologia collettivista della leadership. Era alla radice del Pci e del Pd. E visto che l’elettorato Pd – come mostrano i dati di Ilvo Diamanti – è composto prevalentemente da pensionati e lavoratori del pubblico impiego, quelle radici esistono ancora. Si tratta di un dato fisiologico, che non giudico negativamente. Il problema nasce dalla contrapposizione che viene fatta tra quella concezione e una leadership personale e autorevole. Ai tempi del Pci, questo non avveniva: Togliatti o Berlinguer sono stati leader ultracarismatici, ma questo non è entrato in collisione con la forza del partito come attore unitario. Oggi invece, soprattutto con la restaurazione fallimentare portata avanti dai bersaniani, si è cercato di fare leva su uno scontro tra i due principi. Uno scontro che non ha nascosto la dura realtà, anzi la ha fatta esplodere: nel Pd la direzione collegiale non esiste più, esistono invece diciannove correnti. Ma non esiste ancora una leadership autorevole, che è un requisito di responsabilità e trasparenza in tutte le democrazie contemporanee.
Nel libro parla anche di un “virus letale” quello del microvoto, delle correnti anche locali guidate da “micronotabili”. Il congresso in corso sembra dire che il Pd non ha appreso la lezione e che nessuno è immune da questo male.
Si, il libro ha due focus, distinti e convergenti, il «doppio errore» del Pd. Il primo, su cui ci siamo soffermati finora e su cui si concentra buona parte del dibattito politico, è l’ostilità dell’oligarchia bersaniana nei confronti di una leadership autorevole. Col risultato della sconfitta elettorale e la spaccatura al vertice che è oggi sotto i nostri occhi. Ma il dato, forse, ancora più preoccupante è che accendendo i riflettori sulla lotta al macroleader si è finto di non vedere che il partito, nelle retrovie, si stava spappolando. E che, invece della Ditta propagandata, c’erano diciannove correnti, pullulanti di micronotabili in lotta fratricida tra di loro. Ed è da questo pantano che, chiunque sia il vincitore delle primarie, difficilmente il Pd riuscirà a districarsi.
“Personalizzazione” è un termine che viene spesso usato come sinonimo di populismo.
Sul piano storico è un’idiozia. Le origini del fenomeno, nell’America di fine Ottocento come nella Russia pre-sovietica, fa riferimento alla comparsa di attori e valori popolari, comunitari sulla scena politica, attori e valori che insidiavano i meccanismi tradizionali della rappresentanza parlamentare. Oggi, il populismo si ripresenta soprattutto come fenomeno mediatico, ondate di protesta che vengono spesso – ma non sempre e necessariamente – catalizzate e organizzate da leader particolarmente abili nello sfruttare vecchi e nuovi media: vedi Berlusconi e Grillo. Il capostipite del media populism televisivo è Ross Perot, da cui Berlusconi prende moltissimo. Chapeau – intellettuale, non certo politico – al duo Grillo-Casaleggio per avere inventato la variante web. Anche in questo caso, il migliore antidoto è ancorare la leadership al partito, evitare che cresca, si riproduca e – prima o poi – si sgonfi solo attraverso il circuito mediatico.
Però c’è una parte di sinistra e anche al vertice del Pd che giudica Renzi populista. Che ne pensi di questa accusa?
Al momento, mi sembra un’accusa pregiudiziale, infondata. Certo, se il partito continua a metterlo alla gogna, e alla porta, prima o poi è possibile che Renzi finisca per imboccare la scorciatoia populista.
Quali sono pregi e difetti di Renzi macroleader?
Il pregio maggiore è il coraggio. Paretianamente, un leone in un establishment di volpi. Una dote di cui pochi leader hanno dato prova: oltre, ovviamente, a Berlusconi, ricordo il primo Bassolino, quello che lasciò la poltrona sicurissima che aveva a Roma per buttarsi nell’avventura delle elezioni a sindaco di Napoli. Tra i difetti di Renzi c’è la profondità, che ancora non dimostra di avere sui temi più complessi (su questo, ad esempio, Gianni Cuperlo, dimostra più spessore e professionalità); e l’umanità: appare molto più bravo che vero. Ma questo forse nasce anche dalla tensione enorme cui è sottoposto, ininterrottamente sulla breccia e sotto i riflettori da oltre un anno. Se qualche volta parlasse meno in fretta, una pausa in più, una smorfia del viso. Qualcosa che trasmettesse il messaggio che la politica è anche sofferenza, il tarlo del dubbio ogni volta che butti il cuore oltre la siepe. Questa, ad esempio, era la forza di Veltroni.
Ricordo la ricostruzione che lei fece (fin dalla prima edizione del Partito personale, nel 2000) della rivoluzione di Blair nel Labour e di come mise in piedi una squadra di fedelissimi di grosso calibro che trasformarono il partito. Crede che Renzi possa riuscire a compiere lo stesso percorso? Renzi ha messo in piedi una squadra adeguata?
Non lo so. Non ho contatti o informazioni di prima mano su questo punto. Alcuni dicono che sarebbe il suo vero tallone d’Achille. Certo, il nodo che solleva è cruciale. Senza un’adeguata organizzazione, ogni leadership diventa rapidamente effimera. E qui il bivio di fronte a Renzi è molto netto. Se i toni dello scontro nel Pd continuano a indurirsi, e se davvero si dovesse andare incontro a una spaccatura – come recentemente D’Alema ha paventato – il sindaco potrebbe avventurarsi anche lui sul sentiero solitario del partito personale. Ma sarebbe un ripiego, e molto a rischio. Finora, il capostipite Berlusconi è stato eccezionale, nel doppio senso del termine: straordinariamente abile e senza repliche di pari portata. E la differenza l’ha fatta l’organizzazione, non la comunicazione. È bene ricordare che il Cavaliere scese in campo portandosi dietro, oltre ai soldi, tre canali televisivi e due aziende – con relativi “yesmen” – di caratura nazionale e radicatissime sul territorio.
L’unico imitatore di successo, per scala del fenomeno, è stato Grillo, col suo partito superpersonale cybercratico che ha messo insieme un quarto dell’elettorato. Ma si tratta di un’esperienza ancora allo stato nascente, non sappiamo – neanche Grillo – quanto durerà. Ma già al suo interno si registrano spaccature importanti, e proprio sulla giuntura più critica: il raccordo tra il centro telematico e la periferia di attivisti civici. Quanto agli altri cloni del Cavaliere, si è trattato di partitini personali, di piccolo peso e/o di breve durata. Dalle filiazioni di Dini e Prodi, nate dalla loro permanenza a Palazzo Chigi, alle formazioni parafamiliari di Di Pietro e Mastella, fino al più recente clamoroso flop di Scelta civica, l’esempio forse più eclatante dell’attrazione fatale che il biopartitismo esercita sul nostro ceto politico, anche nei suoi rappresentanti migliori. Farsi corpo politico, autoriprodursi per partenogenesi. Per accorgersi poi, rapidamente, che lo specchio di Narciso, in realtà, è un pozzo buio.
E Renzi è destinato a seguire questa strada?
Mi auguro che Renzi non cada in questa trappola. Se lo fanno fuori, se cercano di mandarlo in fuorigioco, si faccia da parte, non si faccia in quattro. È giovane, la notte della repubblica sarà lunga. Il futuro – come direbbe Weber – tornerà a bussare alla sua porta.