Paralleli ed analogie storiche sono trappole da cui uno storico di professione dovrebbe tenersi alla larga, ma sono richiesti da una pubblica opinione che si domanda se precludendosi questo approccio lo studio del passato abbia un interesse che vada oltre l’accademismo. Dunque prenderò i miei rischi e proverò ad affrontare il tema che mi è stato assegnato. Innanzitutto, cerco di capire perché mi è stata posta la domanda che dà il titolo a questo intervento. Il significato di quel che si fece dal 18 al 24 luglio del 1943 al monastero di Camaldoli dove si erano riunite una trentina di persone che avevano un ruolo nell’intellettualità cattolica è abbastanza chiaro. Nel tramonto ormai evidente del regime fascista, mentre la guerra iniziava a volgere al peggio per le forze dell’Asse, un gruppo di studiosi di rilievo, guidati dall’assistente centrale dei laureati cattolici, il vescovo di Bergamo monsignor Adriano Bernareggi, si trovavano a porsi il problema di elaborare una mappa della dottrina sociale cattolica sull’esempio di quanto era stato fatto nel 1927 a Malines.
Prima dell’incontro uomini chiave del laicato cattolico avevano avuto sollecitazioni ad occuparsi del tema e le conclusioni vennero stilate in seguito e pubblicate più di un anno dopo. Già partendo da queste notazioni cronachistiche possiamo chiederci se oggi qualcosa di simile sarebbe immaginabile. Non sembra proprio.
Innanzitutto non sappiamo immaginare quale vescovo a nome della Chiesa possa assumersi il compito che fu di monsignor Bernareggi, anche a prescindere dal fatto banale che non sarei neppure in grado di citare il nome dell’attuale assistente centrale dei laureati cattolici. In secondo luogo mi sembra difficile immaginare chi oggi nell’universo che in senso lato raggruppa il cattolicesimo sociale potrebbe assumere il ruolo che ebbero Sergio Paronetto e Vittorino Veronese. Non si tratta di fare paragoni fra la qualità di questi due personaggi e quella di altre personalità oggi attive, perché non credo che questo sia il problema: persone di qualità ne esistono anche nel contesto attuale. È piuttosto questione della assenza oggi di una referenzialità implicita e indiscussa quale quella attribuita alle persone di vertice di allora: non saprei indicare i nomi di due intellettuali accettati da tutti senza bisogno di particolari investiture occasionali, né mi viene in mente una autorità ecclesiale (e non semplicemente ecclesiastica) che sia disposta ad assumersi l’onere di eleggere alcuni a punti di riferimento. Anche perché, ammettiamolo, se venisse fatto sarebbe sufficiente per delegittimare gli investiti del compito.
Naturalmente ponendo la questione in questi termini, del tutto estrinseci e superficiali per quanto, credo, non così banali, non stiamo ancora affrontando il problema di fondo che ci presenta il tema di cui devo trattare: perché allora nel 1943 almeno una avanguardia di cattolici, legittimata anche istituzionalmente in quel ruolo, volle rispondere alla crisi di sistema, o per dirla nei termini allora correnti alla crisi di civiltà in cui erano coinvolti con l’elaborazione di una proposta e di una interpretazione per i tempi futuri, e perché oggi, quando pure non manca una crisi di sistema, anche per certi versi più drammatica di allora, non emerge dal mondo cattolico lo sforzo dell’elaborazione di una proposta e di una interpretazione per i tempi futuri?
Rispondere a questa domanda impone un confronto fra le due crisi che abbiamo richiamato.
Negli anni Quaranta sembrava che la crisi di civiltà su cui si era tanto discusso nei due decenni precedenti (basti richiamare qui il famoso libro di Joan Huizinga, Nelle ombre del domani) stesse trovando il suo sbocco in una fase finale che implicava una rinascita obbligata e che di conseguenza fosse impellente per la Chiesa cattolica riguadagnare la guida della ricostruzione.
Il problema della crisi del sistema sociale e politico generato dalla vittoria del capitalismo era dibattuto dalla fine dell’Ottocento in poi. Non ne discutevano in Italia solo le ali estreme del quadro sistemico, cioè i socialisti e i cattolici, ma era un pensiero che aveva attecchito anche fuori di questi ambienti: basterebbe citare i nomi di Vilfredo Pareto e di Guglielmo Ferrero. Certamente gli approcci delle due estreme erano antitetici. Per i socialisti più ortodossi si trattava della dissoluzione del mondo “borghese” come era stato profetizzato da Marx e sarebbe avvenuto per ragioni legate all’incapacità del capitalismo di garantire giustizia sociale. Per il cattolicesimo più integralista la crisi derivava dall’abbandono delle capacità equilibratrici della religione, abbandono che avevano portato al declino morale e alla dissoluzione delle reti di convivenza tradizionali. Si ricordi che la democrazia era stato un concetto visto a lungo dalla Chiesa come negatore dell’ordine gerarchico che si riteneva fondato da Dio.
Non si può dimenticare che la risposta dei fascismi si inserì nella interpretazione di questa crisi di civiltà offrendo una propria ricetta per superarla: un pasticcio ideologico che prendeva elementi un po’ da tutte le voci critiche e che si offriva di frullarli insieme dando vita ad una sua “rivoluzione” che, per citare Tasca, era una controrivoluzione postuma alla minaccia di dissoluzione dell’ordine sociale che si supponeva ereditato dalla tradizione (confusa, come spesso accade, con la natura) ed una controrivoluzione preventiva della rivoluzione che si dava per certo si sarebbe verificata qualora appunto le forze della “conservazione radicale” non avessero stabilito regimi in grado di risolvere autoritariamente (e demagogicamente) la crisi di civiltà.
La Chiesa fu parte ambigua in queste dinamiche, sia a livello vaticano che a livello italiano. Da un lato si compiaceva che quanto era successo confermasse in qualche misura l’anatema sulla modernità che essa aveva lanciato (non senza contraddizioni che qui non posso esaminare). Dal lato opposto non riteneva che i fascismi potessero essere veramente la risposta alla crisi di civiltà viste anche le loro resistenze caparbie a farsi guidare dalle gerarchie ecclesiastiche nell’interpretazione delle contingenze storiche e nella gestione del potere. Per questo alla fine si era optato per un’opera di preparazione per il momento in cui il radicalismo reazionario fosse finito in angolo e avesse lasciato il campo alla domanda tanto di una nuova interpretazione/indicazione delle vie d’uscita dalla crisi della civiltà “borghese” quanto di una nuova classe dirigente in grado di prendere la guida della nuova fase.
Ci sono due passaggi che voglio sottolineare in questo intervento tagliato con l’accetta. Il primo è il radiomessaggio di Pio XII per il Natale 1942 in cui, per quanto fra le righe date le contingenze, ci si rappacifica con la “democrazia” come forma della politica moderna e si invitano i cattolici ad “agire” perché è il precetto dell’ora. Si ricordi che la democrazia era stato un concetto visto a lungo dalla Chiesa come negatore dell’ordine gerarchico che si riteneva fondato da Dio. Adesso, superato il timore che una accettazione del paradigma democratico potesse implicare la sua applicazione al sistema ecclesiastico, si andava anche oltre il già acquisito, ma mai veramente accettato, neutralismo fra i sistemi politici purché rispettassero i diritti della Chiesa e si iniziava ad impostare quel percorso che avrebbe portato ad identificare nel sistema democratico ben temperato il più vicino alla visione cattolica.
Il secondo di questi passaggi è proprio il convegno di Camaldoli, quando, anche in questo caso in modo semi-cospirativo, si chiede ad una qualificata rappresentanza del laicato organizzato e formato nel contesto ecclesiastico di elaborare una sorta di manifesto per la rivoluzione costituzionale che è attesa per la nuova fase che si apre. Vorrei sottolineare che questo compito è affidato a dei laici e non ai dottrinari ecclesiastici tipo gli scrittori della Civiltà Cattolica: anche questo è un segno della rappacificazione con la democrazia (rappacificazione incerta, come mostrerà la storia seguente del complicato rapporto fra gerarchie e Democrazia cristiana negli anni della “apertura a sinistra”).
La caratteristica del contesto in cui si svolse il lavoro di Camaldoli e poi quello delle avanguardie cattoliche nella nostra fase costituente (le due cose non coincidono completamente: Dossetti, per dire, a Camaldoli non c’era, La Pira sì) era quello di una fase di speranza positiva verso la costruzione di un mondo nuovo, quella costruzione a cui, come disse La Pira nel suo intervento sul progetto di Costituzione nel marzo 1947, i cattolici non avevano potuto partecipare nella fase della rivoluzione borghese fra Sette e Ottocento a causa delle inclinazioni anticlericali dominanti in quei momenti, ma che ora avrebbe visto il loro attivo e convinto coinvolgimento perché l’anticlericalismo era scomparso grazie alla fattiva partecipazione dei cattolici alla costruzione di un nuovo ordine post bellico.
Quanto è diverso quel contesto da quel che viviamo oggi? Moltissimo.
Innanzitutto la crisi attuale non è percepita come crisi di civiltà, ma come un misto fra una presunta incapacità di portare a fondo il sistema dei diritti (senza i doveri) che si suppone sia la conquista del costituzionalismo ed una percepita crisi apocalittica che in modo oscuro minaccerebbe la dissoluzione del nostro mondo (basti citare la fortuna del radicalismo ambientalista per capire a cosa mi riferisco). In questo contesto la Chiesa si trova nuovamente in una posizione ambigua.
Da un lato non può dimenticare la pacificazione abbastanza totale che ha fatto con la modernità attraverso l’enciclica conciliare Gaudium et Spes, che è un punto d’arrivo del percorso iniziato negli anni Quaranta per trovare conferma con forza nell’ottimismo generale degli anni Sessanta (quelli, giusto per buttare lì due elementi, che avevano visto la capacità di evitare la catastrofe nucleare con gli eventi di Cuba del 1962, e l’emergere dell’indipendenza delle ex colonie africane conquistate, si credeva, all’equilibrio dei sistemi democratici). Dal lato opposto si sarebbe abbastanza presto rifatta viva la antica diffidenza verso un mondo che nell’elaborazione della cultura sociale unificante non voleva riconoscere alcun ruolo preminente alla religione e alle Chiese.
In parallelo alla volontà di compartecipazione positiva alla vita politica e sociale, in cui erano ancora presenti in maniera molto significativa forze politiche e movimenti sociali cattolici, si andava instaurando una tendenza a denunciare le debolezze e le crisi del sistema uscito dalla stabilizzazione postbellica seguita al 1945. Il tema, presentato a volte come il progetto di una restauratio cristiana, era piuttosto vivo in papa Woytjla, che aveva letto la crisi finale del comunismo europeo come una conferma della fondatezza della lotta ingaggiata dalla Chiesa contro una certa modernità, ma era stato presente in maniera più contorta anche in papa Ratzinger. Presentarlo sotto l’antica veste del tramonto dell’Occidente non è pienamente adeguato, ma temo che qualcosa di questo ci sia e forse in qualche misura, seppur in tutt’altro contesto, è individuabile anche in alcune esternazioni di papa Bergoglio.
Ciò che qui interessa mettere in luce è il carattere apocalittico che comunque ha assunto gran parte del messaggio dei vertici ecclesiastici: siamo di fronte ad un tornante storico decisivo, ma oscuro, misterioso, non dominabile. La società a cui ci si indirizza è in crisi, sta abbandonando la fiducia nel messaggio religioso, non si lascia consigliare, ma al tempo stesso ha raggiunto il potere di inibire qualsiasi intervento efficacemente censorio pur nel senso positivo del termine. I cattolici in Italia sono ormai minoranza, non solo considerando quelli seriamente e pienamente coinvolti nella vita delle comunità, ma persino allargando la cerchia della considerazione a quelli che una volta si usavano definire i cattolici tepidi o anonimi, cioè privi del coinvolgimento nelle strutture ecclesiali ma in qualche modo ancora parte dell’idem sentire del messaggio cristiano.
Per azzardare il paragone con Camaldoli abbiamo l’impressione che oggi la Chiesa non saprebbe come fare ad individuare una trentina di laici autorevoli e riconosciuti e legittimati come tali a cui affidare il compito di stilare una specie di “codice” su ciò che va fatto per avviare il paese fuori dalla sua crisi. Notiamo che non ci sarebbe neppure l’imbarazzo che gli altri percepissero in questo una operazione a sostegno non diciamo dell’egemonia, ma neppure della rilevanza di un “partito cattolico”. Questo non esiste più da un pezzo e un pronunciamento di componenti laiche avvallate dal consenso, più o meno formale, delle gerarchie non servirebbe se non a venire eventualmente strumentalizzato da questo o da quello, in sostanza preso assai poco sul serio da tutti.
Le organizzazioni del laicato esistono ancora, inquadrano anche personalità di spessore, ma sono percepite come la sopravvivenza di un vecchio buon mondo antico che parla solo a quelli che vivono al suo interno senza capacità di proporsi come fucina di gruppi dirigenti e senza attitudine ad entrare in campo nell’interpretazione del passaggio storico che stiamo vivendo e che non può essere ridotto al tempo di attesa più o meno rassegnata dell’apocalisse prossima ventura. In una società dominata dall’individualismo di singolarità, quello del ciascuno legge a sé stesso, la solidarietà è intesa solo come mutuo soccorso fra sodali, per il resto è una vaga ideologia buonista con scarsa concretezza. La crisi attuale è, a mio modesto giudizio, in gran parte dovuta alla dissoluzione dei legami solidaristici che costituiscono le comunità di destini nell’ambito politico.
La chiesa, se mi si permette un gioco retorico un poco audace, dovrebbe essere in grado di porre all’uomo d’oggi la classica domanda “Caino, dov’è tuo fratello?” ben sapendo che riceverà la altrettanto classica risposta: “sono forse io il custode di mio fratello?”. È nel confrontarsi con questa dinamica che si potrà provare a riprendere il filo del contributo da dare allo sviluppo del costituzionalismo occidentale che è incentrato nel dovere della solidarietà fra i membri della comunità di destini a cui si appartiene (anzi alla pluralità di comunità di destini in cui tutti sono inseriti) e che da questo fa discendere i diritti delle persone e delle articolazioni che la compongono.
La cultura del cattolicesimo politico ha ancora qualcosa da dire a fronte di questa crisi, qualcosa che non sia semplicemente consolatorio delle nostre pene (ci vuole anche quello, lungi da me il disprezzarlo), ma che sia costruttivo perché alla fine si è convinti che, per dirla con un vecchio slogan, le forze del male non praevalebunt. Il contesto di oggi è meno drammatico da tanti punti di vista di quello che si trovavano davanti le avanguardie dei cattolici italiani nella prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso, ma è molto più difficile perché manca quella fede e speranza in una evoluzione positiva che sia in grado quanto meno di intravvederla come lo si fu allora. Sarebbe dunque necessario provare a rifare in qualche modo Camaldoli: evitando, sia chiaro, lo spettacolino delle riesumazioni e sforzandosi invece di mettere a sistema le risorse che in qualche modo abbiamo pur ereditato dal nostro passato.