Come può un mafioso dichiararsi cattolico osservante?
Una volta posi questa domanda a un collaboratore di giustizia che aveva confessato quasi un centinaio di omicidi. Mi rispose seraficamente: «Signor giudice, le giuro sulla testa dei miei figli: non ho mai ucciso nessuno per un mio interesse personale, sono stato sempre comandato». Giustificazioni di questo tipo, sono certo, saranno ben analizzate per comprendere come un giuramento di appartenenza possa trasformare un uomo in un automa privo di qualsiasi principio etico, in un soldato in perenne guerra contro una enorme quantità di nemici.
Non v’è dubbio che il riconoscimento sociale di volgari assassini come persone di rispetto, di giustizia, d’onore si sia basato, in passato, sulla legittimazione concessa da una Chiesa che, rimasta in silenzio, ha rinunciato a denunciare la violenza della mafia, anche se l’insegnamento di Cristo ripudia la violenza. Perché la Chiesa rinunciò per lunghi decenni alla sua secolare funzione di indirizzo etico, celebrando per i mafiosi e le loro famiglie battesimi, cresime, matrimoni e funerali in pompa magna? Perché non ha usato nei loro confronti l’esecrazione aperta, la scomunica, l’emarginazione dalla comunità dei fedeli, nonostante calpestino quotidianamente il diritto alla vita?
A Palermo negli anni Sessanta, nel momento di maggiore coesione tra mafia, imprenditoria, amministrazione pubblica e politica, il cardinale Ruffini, di fronte alla violenza omicida che riempiva le strade cittadine, continuava a ripetere nelle sue pastorali che la mafia era una creazione dei comunisti, che la Sicilia non era solo mafia, e che più pericoloso di questa era il comunismo, recepito nel suo aspetto ideologico come negazione di Dio.
È con il cardinale Pappalardo che comincia la denuncia ferma, aperta, della violenza mafiosa; è con lui che la Chiesa siciliana acquista quella dignità che in passato era stata mortificata da un atteggiamento di “complice prudenza”. La sua presa di posizione suonò per la comunità religiosa palermitana come una novità dirompente. Da qualche anno, dagli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre, sino a Carlo Alberto Dalla Chiesa, era emersa l’intensità del momento storico, con una mafia che non esitava a colpire, con attentati cruenti, personalità dello Stato di altissimo livello che osavano contrastarla. Il cardinale aveva levato senza timori la sua voce nel 1979, ai funerali di Giuliano; due anni dopo, mentre infuriava la guerra di mafia e le strade di Palermo erano insanguinate e lastricate di cadaveri, celebrò una funzione nella Cattedrale, poi definita «messa antimafia», in cui si rivolse direttamente ai mafiosi, dicendo: «Il profitto che deriva dall’omicidio è maledetto da Dio e dagli uomini e quand’anche riusciste a sfuggire alla giustizia degli uomini, non riuscireste a sfuggire a quella di Dio».
L’eco mediatica che accompagnò l’ultimo tragico evento, l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, e la cassa di risonanza del sentimento di orrore dei cittadini, spinsero Pappalardo a sintonizzarsi in maniera ancora più ferma e decisa con i sentimenti della società civile, offrendo pieno sostegno a chi contrastava il fenomeno mafioso. Vale la pena riascoltare anche oggi quelle parole, che cambiarono il ruolo della Chiesa in Sicilia e ne riscattarono il passato.
Il 4 settembre 1982, dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa.
«La mafia», disse il cardinale, pronunciando questa parola con tutto il disprezzo di cui era capace, «è un demone dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, quanto mai decise, invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e si può applicare – continuò Pappalardo citando il passo che rimase famoso – una nota frase della letteratura latina: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?»
A seguito delle sferzanti accuse, dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso applauso. Un urlo liberatorio, un grido di condanna diretto allo Stato. Pappalardo fece vergognare la classe politica italiana che, indugiando a concedere al generale Dalla Chiesa i poteri speciali che aveva richiesto, l’aveva lasciato in una situazione di incertezza dalla quale non era uscito vivo. Ma fu come se, grazie a quelle parole, i cittadini palermitani avessero trovato una guida morale, e il coraggio civile accese una luce nel buio delle istituzioni. L’ “omelia di Sagunto” segnò una grande svolta nella storia della lotta alla mafia. Dopo qualche giorno venne approvata la legge Rognoni-La Torre, fu nominato un prefetto di Palermo con poteri speciali e l’azione della Commissione parlamentare antimafia riprese vigore.
Da allora giovani parroci-coraggio iniziarono a porsi domande sul loro ruolo in una terra di violenza, sangue e diritti negati, chiedendosi se dovevano limitarsi a curare le anime o invece impegnarsi in un’azione apostolica in difesa dei diritti dell’uomo. Sorsero, su impulso del cardinale, movimenti, missioni popolari fuori dalle parrocchie, istituti dedicati alla formazione evangelica dei credenti, dei giovani, degli emarginati.
Successivamente a squarciare la coltre del silenzio come un tuono furono le parole pronunciate nella valle dei templi ad Agrigento da Giovanni Paolo II nel 1993: si rivolse apertamente al potere mafioso esprimendo la piena condanna nei riguardi di tale fenomeno criminale in nome dell’uomo e della fede. L’intervento del Papa ebbe grande risonanza: le Sue parole provocarono tra i fedeli commozione e gioia, molti videro un annuncio di liberazione e di ritrovata solidarietà umana nel segno dell’antica fede. Il percorso si conclude definitivamente con le parole pronunciate dal cardinale arcivescovo di Palermo Paolo Romeo nell’Omelia per la beatificazione di don Giuseppe Puglisi:
«I mafiosi, che spesso pure si dicono e si mostrano credenti, muovono meccanismi di sopraffazione ed ingiustizia, di rancore, di odio, di violenza, di morte. Il Beato Puglisi servì e amò i fratelli da padre. Fu soprattutto a Brancaccio che trovò bambini e giovani quotidianamente esposti ad una paternità falsa e meschina, quella della mafia del quartiere, che rubava dignità e dava morte in cambio di protezione e sostegno. La sua azione mirò a rendere presente un altro padre, il ‘Padre Nostro’. Secondo lui di ‘nostro’ non può esserci ‘cosa’ che si impone a tutti attraverso un ‘padrino’ onnipresente. Di ‘nostro’ c’è solo Dio che ama tutti dentro e fuori la Chiesa.»
Ma il suggello definitivo si è avuto con le prese di posizione di Papa Francesco: che emozione l’incontro con i parenti delle vittime di mafia insieme a don Ciotti! Ero presente in quel momento toccante, e ho sentito il Papa rivolgersi ai mafiosi e dire:
«Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini mafiosi è denaro insanguinato, è potere insanguinato e non potrete portarlo all’altra vita.»
Ho avvertito un grido di una forza e di una potenza paragonabile al «convertitevi” gridato ai mafiosi da Papa Giovanni Paolo II.
Significative infine le chiare parole pronunciate da Papa Francesco all’indomani della beatificazione di don Puglisi:
«I mafiosi volevano sconfiggere Padre Pino Puglisi perché sottraeva loro i giovani, ma in realtà è lui che ha vinto. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone, non possono fare questo, non possono fare i nostri fratelli schiavi, dobbiamo pregare il Signore, preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio.»
Un rapporto definitivamente spezzato, sia dalle più alte incarnazioni della Chiesa sia nel cuore di tutti i fedeli.
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Queste righe sono tratte dal messaggio di apertura ai lavori inviato dal Presidente del Senato (e già Procuratore nazionale antimafia) Pietro Grasso agli organizzatori de L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia (Roma – Casa della Memoria e della Storia, 20-21 novembre 2014).