Per uno come me, che ha lavorato a lungo con Saraceno, tornare a Camaldoli significa tornare al clima di programmazione e di futuro che era tipico delle persone da lui frequentate, professionalmente e umanamente, specialmente Sergio Paronetto. Certo nessuno di noi ha conosciuto personalmente Paronetto (è morto nel 1945), però il clima, il suo modo di vivere e pensare, era tipicamente montiniano (e del resto lo stesso fratello del Papa, Ludovico Montini, fu partecipe del testo di Camaldoli). Inoltre, era segnato dalla presa di coscienza di una società non da disegnare dall’alto, magari dalla stessa dottrina sociale della Chiesa, ma di una società che diventava aperta, una società che cresceva su sé stessa.
Questo è stato il cruciale punto di partenza di Camaldoli; ed in effetti quando Paronetto nel ‘45 spiega come era avvenuta questa convergenza anche politica in piena fase di declino del fascismo, usa una frase che a me è sempre piaciuta molto: “In questo gruppo non abbiamo mirato a fare grandi operazioni di definizione da parte degli studiosi, di forme apodittiche di una dottrina definita. Ma abbiamo mirato ad approfondire i complessi problemi che presenta la società moderna; e a offrire al lettore, all’uomo d’azione, gli elementi per orientamento sicuro e al tempo stesso adatto alla contingente concretezza della fase storica e politica che attraversiamo”.
Si tratta di una frase quasi inattesa (più deritiana che saraceniana verrebbe da scherzare), perché proviene da un gruppo che pure era élitario e faceva parte dell’eccellenza della culturale cattolica; e che faceva parte dell’eccellenza del potere dell’economia italiana, in pratica del grande giro dell’Iri e di Beneduce. Eppure il gruppo non si è messo a definire un programma, magari ispirato a verità assolute, ma si è dedicato a capire come orientarsi in una società tutta particolare come l’Italia del 1943. Ed è questo aprirsi al mondo, per combinarlo in una operazione di notevolissima portata culturale e politica, che ha poi avuto una parte determinante nella formazione del partito cattolico.
Si è molto spesso dimenticato che la Democrazia Cristiana, pur cresciuta in convulse crisi interne ed esterne, è nata in una logica culturale ispirata a Camaldoli, cioè di collegamento con la società, di inserimento nei processi reali della società; senza ambizioni di guidarla dall’altro ma vivificandola dal di dentro. Questo non è stato facile, tanto è vero che c’è stato qualcuno che ha disconosciuto quel raccordo stretto del mondo cattolico con la realtà quotidiana, nei suoi processi economici e sociali. Per alcuni (penso a Scoppola, a Badget Bozzo, a Del Noce) quella apertura al mondo ha fatto perdere valore allo “essere cattolico”, quasi la fine della cristianità come corpo collettivo, come chiuso in sé stesso; e Del Noce arrivava a sostenere che alla fine avremmo pagato questo tradimento della cristianità come entità palpabile, precisa, autoreferente; l’avremmo pagata con la secolarizzazione e con la diffusione dell’egoismo individuale e del soggettivismo etico.
Risalire oggi dall’egoismo individuale e dal soggettivismo etico a una cultura del bene comune è certo più difficile, ma ricordiamoci che gli uomini di Camaldoli partivano da una scelta coraggiosa, quasi stabilendo che “il bene comune lo si fa impastando le mani nella società, non predicandolo dall’esterno”. Riprendere a predicare il bene comune è indispensabile all’interno di una società che esprime solo soggettività: soggettività religiosa, soggettività economica, soggettività culturale, soggettività morale. Ma la scelta di Camaldoli è ancora valida, la scelta cioè di una cultura cristiana e cattolica che diventa anima dal di dentro di una società complessa, superando la tentazione di pensare la fede e l’appartenenza ecclesiale solo come scelta personale dei singoli e non soggetto complessivo di comune sentire.
Nella formazione della Democrazia Cristiana questo è stato un elemento fondante drammatico, perché Camaldoli lavorò per un partito laico, che potesse valorizzare ogni singolo interesse in una responsabilità collettiva vivente nella storia. Inserendosi in una dinamica sociopolitica complessa, che converrà richiamare. I soggetti politici si formano se c’è una soggettualità collettiva, perché la gente ha bisogno di credere nei soggetti che operano a metà strada tra l’individualismo personale e il bene comune. Va ricordato infatti che la formazione della Dc è stata operata su due strade: la strada che potremmo attribuire a Pio XII; e quella che potremmo attribuire a Montini.
Con Camaldoli siamo in piena cultura montiniana, ma c’era a quell’epoca anche una cultura cattolica che pensava in maniera diversa. Pio XII in particolare non voleva un partito alla Paronetto, cioè un soggetto di forte razionalità collettiva; pensava piuttosto a un partito che riunisse movimenti di vario tipo, dai coltivatori diretti ai maestri elementari. Gennaro Acquaviva ricorda quel che gli disse la Badaloni, maestra elementare, che con Carlo Carretto fu chiamata da Pio XII nel luglio del ’44, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, che si sentì dire “qui c’è una busta con un po’ di soldi, nel cortile trovate una Cinquecento, da domani mattina girate per il Mezzogiorno e in tutte le province meridionali create una associazione dei maestri cattolici perché la cultura dei meridionali è passata e passa attraverso il rapporto con i maestri e le maestre”. Ed iniziò lì l’epopea del collateralismo politico, e chi conosce il potere democristiano sa quanto sono stati importanti i maestri cattolici (ed insieme i coltivatori diretti) “montiniani” anche in termini di pieno potere politico.
Dall’altra parte c’erano i vecchi popolari che si riconoscevano in una cultura politica più precisa e che preparavano, anche rifacendosi a Camaldoli, il nuovo partito. Se andate a leggere i ricordi di Adriano Ossicini si ritrova un suo incontro nel ‘42 con il vecchio Spataro che gli dice “ma tu che stai facendo fra i cattolici comunisti e i cristiano sociali, evita di fare il movimentista. Tu sei figlio di un deputato popolare, torna con noi a fare un nuovo partito popolare, intorno a De Gasperi che sta preparando il dopo Mussolini”. Con la sicurezza che in quel partito sarebbero confluiti non tanto i movimenti di base ma anche una moderna tecnocrazia, capace di egemonia culturale, se ricordiamo che gli stessi estensori di Camaldoli (in particolare Saraceno e Paronetto) venivano dall’Iri, da una cultura economica alta, da un circolo di potere alto, spesso accusato di tentazioni massoniche.
Pensiamo oggi che ci siano le condizioni per fare, dopo un minimo di riflessione sul passato, un rilancio e un partito politico in grado di interpretare sia i movimenti sia le istanze di una struttura a forte ed unitaria organizzazione? Ho paura che siamo addirittura in una fase di allontanamento dalle origini pacelliane e montiniane del ’45; dobbiamo allora tornare ad “esplorare” se e quanto la cultura cattolica abbia oggi dentro di sé una dimensione di buona e strutturale cultura organizzativa di una società ordinata, ma il cui bene collettivo è ancora tutto da interpretare e attuare.
C’è allora da ricostruire i meccanismi fondanti di allora: dire “rifaccio Camaldoli” o “torno al centro” sono ambizioni senza speranza, se non si riesce ad esprimere una cultura e una struttura capaci di interpretare entrambi le istanze del ’45: (la mobilitazione dei movimenti e la gestione del potere di vertice) e capaci quindi di esprimere una piena soggettualità collettiva. I soggetti politici si formano se c’è una soggettualità collettiva, perché la gente ha bisogno di credere nei soggetti che operano a metà strada tra l’individualismo personale e il bene comune. Condizione purtroppo difficile da perseguire in una congiuntura politica in cui vince sempre la disintermediazione; ma ciò non significa che “ci rinunciamo”, anzi ci sprona a lavorare sodo, come hanno fatto i padri fondatori ormai quasi ottanta anni fa.