Questo articolo è uscito anche su Domenica – Il Sole 24 ore del 5 gennaio 2014
La Corte Costituzionale ha compiuto ciò che maggioranze di diversi colori e variegate sfumature non hanno mai osato portare a termine: toccare la legge elettorale.
Il giudice delle leggi non ha determinato una riforma complessiva, come sarebbe potuto accadere se del tema si fosse occupato il Parlamento. Si è “limitato” a eliminare dal sistema le disposizioni ritenute incostituzionali, ovvero il premio di maggioranza alla coalizione con il maggior numero di voti e le liste elettorali “bloccate”, che non consentono di esprimere una preferenza. Dopo una simile operazione di chirurgia normativa, che cosa rimane del sistema introdotto dal centrodestra nel 2005?
Resta un sistema proporzionale di lista, con circoscrizioni di grandi dimensioni. Un sistema con molti difetti e forse anche nuovi profili di incostituzionalità, quali le soglie di sbarramento più basse per chi si coalizza, irragionevoli senza la previsione del premio di maggioranza, o la possibilità per un candidato di presentarsi in tutte le circoscrizioni, soluzione ancor più in frode alla volontà popolare con l’introduzione del voto di preferenza. Meno problemi vi sarebbero stati se la Corte avesse risuscitato la vecchia legge Mattarella, come suggerivano alcuni rumors interni al Palazzo della Consulta.
Fatta l’analisi, tentiamo un giudizio: si tratta di una traiettoria immodificabile e, in ogni caso, auspicabile?
Sul primo punto, va premesso che esiste una sorta di legge della politica secondo la quale in assenza di una crisi di regime è assai raro che un ordinamento passi da un sistema proporzionale a uno maggioritario. E ciò almeno per una ragione intuitiva: le formazioni politiche non abbandonano spontaneamente le “comodità” del proporzionale, per mettersi in gioco in un agone più competitivo come quello uninominale maggioritario.
Uno sguardo alla storia conferma questa impressione: il passaggio da formule proiettive a sistemi maggioritari è quasi sempre coinciso con modifiche radicali dello scenario politico o istituzionale: così è avvenuto nel 1958 nella Francia guidata da De Gaulle e nell’Italia del 1993, così potrebbe avvenire nell’Italia di fine 2013, “sciapa e malcontenta”.
Se così stanno le cose, proviamo a individuare un difetto e un pregio della sentenza della Corte.
Il primo è presto detto: avere reintrodotto dopo vent’anni un sistema proporzionale, così finendo per stabilizzare il “marasma dei governi di larghe intese” evocato da Guido Tabellini su queste pagine lo scorso 12 dicembre e aver ripristinato il voto di preferenza, che tanto peso ha avuto nella diffusione della corruzione della politica, specie negli anni ottanta.
Il pregio, invece, è di avere rotto il tabù dell’immodificabilità del testo normativo. Non si tratta di un merito da poco, poiché con la crepa aperta dal giudice delle leggi, è possibile che si creino le condizioni per un intervento del legislatore.
E allora veniamo al secondo punto: quella imboccata dalla Corte è la direzione auspicabile? A nostro avviso no, quella preferibile è proprio la opposta via del ritorno a una formula maggioritaria fondata sul collegio uninominale.
Dietro questa predilezione vi è forse l’immagine della Londra vittoriana, con signori in tweed che si recano dal club del West End ai seggi, ma anche di quella di inizio Novecento, quando l’operaio dell’East End ha finalmente la possibilità di avere il proprio rappresentante ai Comuni.
Ma non è certo la nostalgia per l’Inghilterra di più di un secolo fa a orientare le nostre preferenze. È la sempre più profonda crisi del rapporto tra partiti e cittadini che a nostro avviso consiglia il “ritorno al collegio”, ovvero a un sistema in cui in ogni circoscrizione vi sia un solo eletto, che rappresenti un’area geografica ristretta e che abbia un “debito di riconoscenza” e una responsabilità non solo verso la formazione politica che l’ha candidato, ma anche verso il territorio che l’ha scelto.
Siamo ben consapevoli che nessuna formula ha virtù taumaturgiche e che la mera importazione di un modello fondato sull’uninominale – sia esso inglese, francese o anche australiano – non può da sola rinnovare il legame sempre più smagliato tra ceto politico e corpo elettorale.
Dal 1993 al 2005, tre Parlamenti si sono formati con sistemi tendenzialmente uninominali maggioritari e gli esiti non sono stati certo esaltanti: era usuale la pratica della spartizione dei collegi tra le numerose forze politiche che si univano in fragili coalizioni, così come erano assai frequenti i candidati “paracadutati” in territori a loro ignoti, proprio per garantire gli equilibri tra i partiti e le loro correnti interne. Così, nelle prime pagine degli elenchi telefonici italiani non è mai comparso tra i numeri utili quello del deputato del collegio, come invece avviene nel Regno Unito, e raramente i nostri parlamentari hanno maturato quella relazione profonda con il territorio che connota l’ordinamento francese, ove assai spesso il deputato è al contempo sindaco. Il sistema in questione non ha garantito per la verità nemmeno un governo stabile, anche a causa dell’ampiezza e della scarsa omogeneità delle aggregazioni elettorali.
Per queste ragioni, riteniamo più adatti alla realtà italiana il doppio turno o il sistema del “voto alternativo”, che non costringono ad alleanze pre-elettorali disomogenee e tendono a limitare la rappresentanza di formazioni estremiste.
Siamo anche consci che il ritorno all’uninominale debba essere accompagnato da una legislazione “di contorno” che incentivi forme di primarie, dal vivo o on line, per la scelta dei candidati, ponga rigidi tetti alle spese elettorali e disciplini coerentemente l’accesso ai media.
Quello di cui siamo comunque convinti è che questo sia un tempo propizio per il collegio uninominale: le elezioni del febbraio 2013 hanno mostrato la fine della rigida collocazione dell’elettorato a destra o a sinistra. Ridimensionato l’elemento ciecamente identitario, l’elettore diviene inevitabilmente più attento ai candidati, alla loro storia e alla loro capacità di dar voce anche al territorio.
Così, le tre alternative avanzate qualche giorno fa da Matteo Renzi non sono certo equivalenti. Tutte agevolano la costituzione di maggioranze stabili, ma solo il modello “legge Mattarella rivisitata” è fondato sui collegi uninominali, mentre il “doppio turno di coalizione dei sindaci” li prevede in via eventuale e quello “spagnolo” è basato su circoscrizioni plurinominali, sia pure piccole. Il rapporto elettori-eletti è, dunque, radicalmente diverso.
In questa prospettiva, “ritornare in collegio” riassume il senso di un’inversione rispetto al sistema censurato dalla Corte, nel quale pochi leader predeterminavano una massa di eligendi sotto l’ombrello di un capo carismatico.
Il retroterra culturale del collegio uninominale è infatti opposto, è un’idea di democrazia come processo che va anche dal basso all’alto. La scelta del candidato è infatti il frutto di un equilibrio tra il naturale processo di selezione della classe dirigente dal centro e le scelte della base e comunque l’elezione deve passare per una competizione in cui si vota la persona e non solo il partito.
In questa logica, il collegio può essere un valido antidoto a quella della “cultura del capo” che ha ispirato il legislatore del 2005, ovvero quella concezione della democrazia in cui il compito degli elettori è solo quello di incoronare un leader, che nei cinque anni successivi potrà governare fuori dal controllo degli altri poteri. E può essere funzionale alla trasformazione delle forze politiche più strutturate da partiti di funzionari a partiti di eletti.
Ma qui occorre fermarsi, perché già troppe volte siamo stati scottati dall’illusione di giungere a una democrazia normale e ci siamo trovati a essere rappresentati dai vari Botero, con l’unica differenza rispetto al protagonista de “Il Portaborse” di avere una faccia meno interessante di quella di Nanni Moretti.