Da mondoperaio (Gennaio 2015).
Quali furono le ragioni che indussero Jiří Pelikán a cercare rifugio in Italia e perfino a sceglierla come seconda patria? Ricordiamo innanzitutto che fu la dirigenza dubcekiana a nominare Pelikán nel novembre 1968 consigliere per la stampa e la cultura presso l’ambasciata cecoslovacca a Roma. In qualità di direttore della televisione, di presidente della Commissione esteri dell’Assemblea nazionale e anche di membro del Comitato Centrale eletto al congresso “clandestino” del partito comunista cecoslovacco di Visočany, Pelikán si era guadagnato l’ostilità dei sovietici; Brežnev in persona ne aveva preteso in più occasioni le dimissioni dalla guida della televisione. L’obiettivo primario di Dubček e dei suoi collaboratori era dunque di allontanare dalla Cecoslovacchia occupata un esponente di spicco del nuovo corso e di tutelarlo di fronte al pericolo di rappresaglie sovietiche. Al tempo stesso, sin dall’arrivo a Roma Pelikán si fece promotore di un’azione in difesa della Primavera di Praga, sfruttando la grande risonanza riscossa dall’esperimento del socialismo dal volto umano presso l’opinione pubblica italiana e la commozione determinata dall’invasione dell’agosto 1968.
Particolarmente utili per lui si rivelarono i contatti allacciati sin dagli anni Cinquanta con una moltitudine di esponenti politici italiani in qualità prima di segretario e poi di presidente di una delle organizzazioni di massa comuniste con sede a Praga, l’Unione internazionale degli studenti (Uie). Tra i suoi referenti spiccavano i fratelli Berlinguer: Giovanni (suo predecessore a capo dell’Uie), ed Enrico, che aveva intrapreso una brillante carriera ai vertici del Pci fino ad assumerne la guida di fatto proprio all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia. Anche se a un livello gerarchico del tutto diverso, vale la pena di nominare l’amicizia con Carlo Ripa di Meana, che aveva vissuto a Praga come funzionario comunista distaccato presso l’Uie, ma che dopo la rivolta ungherese del 1956 era transitato insieme a una pattuglia di altri compagni nel Psi.
Meno intima, ma in prospettiva altrettanto importante, era la conoscenza con Bettino Craxi, che come dirigente socialista dell’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana (Unuri) aveva frequentato le riunioni dell’Uie; secondo alcune ricostruzioni, proprio gli incontri praghesi con Pelikán avrebbero fornito al giovane Craxi l’impulso a maturare una visione decisamente critica dell’ideologia comunista e del socialismo realizzato in Urss e nell’Europa centro-orientale.
Le amicizie e i rapporti intessuti non comportavano automaticamente che Pelikán, intrapresa la strada dell’esilio, decidesse di fare dell’Italia la sua base operativa. Al contrario, all’inizio l’ex direttore della televisione esplorò la possibilità di stabilire il centro delle sue attività in Inghilterra. Proprio qui effettuò il coming out con l’intervista al Times del 1° ottobre 1969, con la quale annunciava la decisione di non obbedire al richiamo in patria della nuova dirigenza husakiana e di impegnarsi dall’estero per la difesa del socialismo dal volto umano di impronta dubcekiana. La scena londinese non fu però in grado di soddisfare le aspettative di Pelikán né dal punto di vista lavorativo, né da quello politico. Alla fine del 1969 egli fece ritorno in Italia, dove aveva la prospettiva di una collaborazione con la Rai. Ma, soprattutto, nella penisola poteva contare su un clima politico propizio al tipo di lotta contro il regime normalizzatore che aveva in mente, vista la presenza di un’opinione pubblica fortemente orientata a sinistra e le ripercussioni suscitate dalla Primavera.
Senza dubbio per Pelikán un grave colpo fu rappresentato dalla constatazione che la scelta dell’esilio significava la rottura dei rapporti instaurati col Pci finché era consigliere di ambasciata. Per sintetizzare una questione su cui si è molto discusso, si può dire che i comunisti italiani intendevano rimanere coerenti con la “severa riprovazione e condanna” espresse nei confronti della repressione dell’esperimento sessantottesco, tanto da farne delle componenti tutt’altro che trascurabili del loro patrimonio identitario. Ritenevano tuttavia che la soluzione della questione cecoslovacca andasse cercata all’interno del movimento comunista internazionale, attraverso un dialogo con l’Urss, e in subordine con le stesse autorità normalizzatrici. In questa contesto non c’era spazio per una collaborazione con quanti avevano rotto di loro iniziativa con il Ksc normalizzato, e in primo luogo con Pelikán, che si stava rapidamente accreditando come l’ufficioso leader dell’emigrazione post-sessantottesca.
A conferma di quanto detto c’è un documento finora inedito risalente all’inizio dell’estate 1969. Qui uno dei funzionari comunisti incaricati di seguire la pratica cecoslovacca riferiva ai vertici del partito di aver maturato “la convinzione della necessità, per noi, di accrescere le misure di cautela nei contatti con esponenti di quel paese e soprattutto con coloro che attualmente svolgono la loro attività all’estero”. Si trattava infatti di “gente in gran parte bruciata e già sottoposta a controllo”, tra la quale si trovavano “‘poeti’ della politica quanto mai ingenui e fuori della realtà”, e probabilmente anche agenti provocatori. Questo discorso si applicava in primo luogo all’“amico di Roma”, del quale non si faceva il nome ma che era chiaramente identificabile con Pelikán; proprio a lui si sarebbe dovuto “far sapere, con tutta la delicatezza dovuta ed in forma del tutto personale, in quale situazione si trova, quali prospettive gli si aprono […] e fargli capire che in questa situazione è meglio interrompere i nostri rapporti”.
Queste raccomandazioni di massima ricevettero piena applicazione. All’inizio del 1970 Pelikán si rivolse direttamente a Enrico Berlinguer per spiegare le ragioni che lo avevano indotto a non tornare in patria, ma anche per ribadire la sua adesione all’ideologia comunista e per dare la disponibilità a stabilire una collaborazione col Pci, perfino di tipo occulto. Non ricevette però alcuna risposta. Un anno dopo, durante una riunione della Direzione del partito, Arturo Colombi si spinse fino a dichiarare che “l’atteggiamento di Pelikán è l’atteggiamento di un nemico”. Senza dubbio Colombi era uno degli elementi più intransigenti della dirigenza comunista, ma il fatto che le sue parole non venissero contraddette appare significativo.
La sospensione dei rapporti ufficiali col Pci non significava comunque che Pelikán fosse isolato. Grazie alle sue doti organizzative e comunicative, l’esule cecoslovacco riuscì a conquistarsi una posizione di rilievo nella scena politica e culturale italiana. A lui si rivolgevano gli esponenti non conformisti del Pci, che consideravano troppo prudente la linea ufficiale del partito nei confronti dei paesi del blocco sovietico. Tra loro si contavano membri del Comitato Centrale come Lucio Lombardo Radice e il direttore di Giorni-Vie Nuove Davide Lajolo, o un pubblicista esperto di Cecoslovacchia come Luciano Antonetti, che con Pelikán avrebbe mantenuto un rapporto di collaborazione per tutta la vita. Lo stesso discorso valeva per le formazioni della nuova sinistra, a partire dal gruppo del Manifesto, che guardavano con interesse e simpatia ai fermenti nei paesi dell’Europa orientale. Ulteriori menzioni meritano la sinistra cattolica, i radicali, i repubblicani, ma anche alcuni esponenti centristi o di destra.
In questo panorama una posizione di assoluto rilievo spettava tuttavia al Psi di Bettino Craxi. In effetti sin dal suo arrivo in Italia Pelikán trovò un referente privilegiato nel vecchio conoscente dei tempi dell’Uie, che era ormai divenuto vicesegretario del Psi e leader della sua corrente autonomista. Per Craxi il tentativo di rinnovamento sessantottesco rivestiva un duplice interesse: a livello ideale era fonte di ispirazione per le indagini tendenti al rinnovamento del pensiero socialista, a livello strumentale era utile per mettere in luce la persistente dipendenza del Pci dall’Urss e i limiti del nascente eurocomunismo. Insomma, per il vicesegretario socialista Pelikán era un interlocutore strategico.
Da qui l’appoggio da lui fornito alle iniziative dell’esule, a partire dal finanziamento della pubblicazione della rivista bimestrale in lingua ceca Listy, che dalla fondazione (nel 1971) fino alla caduta del regime normalizzatore si sarebbe imposta come uno dei principali strumenti, se non il principale, per dare voce alle forze dell’opposizione e del dissenso in Cecoslovacchia. Di lì a qualche anno sarebbe stata anche lanciata un’edizione in lingua italiana della rivista, formalmente ad opera di un centro studi di area socialista, l’Istituto europeo di scienze sociali. In maniera significativa, la sede di questa edizione era in Piazza Duomo, allo stesso indirizzo dello storico ufficio milanese di Craxi; se Pelikán rivestiva la carica di direttore, a lui era affiancato Ugo Intini in qualità di direttore responsabile, mentre un altro giovane dirigente socialista come Claudio Martelli figurava con loro nel comitato di redazione.
Le vicissitudini di Pelikán sulla scena politica italiana sono piuttosto note: alla vigilia della scomparsa, lui stesso avrebbe incentrato su di loro il volume-intervista con Antonio Carioti pubblicato col titolo di Io, esule indigesto. Ciò che talvolta si tende a dimenticare è come Pelikán, con le sue esperienze, il suo attivismo e il suo entusiasmo, riuscisse a ritagliarsi una posizione di rilievo nel dibattito culturale italiano. Con una quantità impressionante di discorsi, di interviste radiofoniche e televisive e di articoli sulla stampa, egli si impose infatti come il referente più competente per l’opinione pubblica italiana per quanto riguardava il fenomeno del socialismo reale nell’Europa centro-orientale, l’opposizione, il dissenso; si può anzi dire che egli colmasse una lacuna, considerate la scarsezza di autentici esperti su tali temi in Italia e la tendenza a delegare la loro trattazione a personalità dal profilo per lo più politico.
Lo stesso Pelikán proponeva del resto un’interpretazione non del tutto univoca degli sviluppi in corso nei paesi del blocco sovietico. Al momento della scelta dell’esilio egli non si sentiva affatto un dissidente, ma un membro del gruppo dirigente riformista che era stato ingiustamente allontanato dal potere per effetto dell’occupazione straniera e che meritava una riabilitazione e un reinserimento nella vita politica. Come mostravano le riflessioni da lui svolte sui media italiani e soprattutto su Mondoperaio, al centro delle sue premure non vi erano in origine “gli intellettuali del dissenso”, ma quella che definiva, a seconda delle circostanze, “l’opposizione” o “l’alternativa socialista”, o anche i “democratici di partito”: insomma, i membri riformisti del Ksc che erano stati espulsi durante la normalizzazione e che stavano faticosamente cercando di organizzare un’alternativa al partito al potere, se non un vero e proprio “partito degli espulsi”.
Questo quadro di riferimento mutò sensibilmente nella seconda metà degli anni Settanta. Il cambiamento principale fu rappresentato dalla nascita di Charta 77 e dalla risonanza da essa suscitata a livello internazionale. Pelikán non aveva avuto nessun sentore dell’iniziativa, ma capì immediatamente che Charta rappresentava la principale novità verificatasi in Cecoslovacchia dagli eventi del 1968-69, e mobilitò in suo sostegno Listy. Da questo momento divenne un attivo sostenitore della causa del dissenso, della difesa dei diritti umani e di una collaborazione paritetica tra le diverse componenti della cultura alternativa cecoslovacca, pur non abbandonando mai la speranza che in futuro si potesse avviare una transizione favorevole agli ideali del comunismo riformista o socialismo democratico.
L’altro cambiamento sul quale è opportuno concentrare l’attenzione fu l’avvento di Craxi alla segreteria del Psi nel 1976. Il risultato fu il rilancio in grande stile del tentativo di fare dei temi del dissenso e dell’opposizione dell’Est una battaglia per l’identità socialista (e, ovviamente, per mettere in difficoltà i rivali del Pci). Tutto ciò si verificava proprio nel momento in cui per Pelikán si avvicinava il conseguimento della cittadinanza italiana, e dunque si apriva la possibilità di intervenire in maniera più incisiva nella vita politica locale. Il caporedattore di Listy era perfettamente consapevole degli sviluppi in corso: come scriveva a un altro esponente dell’esilio, “la nostra cittadinanza italiana è sulla buona strada e dopo si apriranno nuove opportunità, tanto più che il mio amico Craxi è diventato segretario generale del Partito socialista”.
Bisogna dire che anche di fronte a queste novità l’impulso iniziale per Pelikán fu di tornare a rivolgersi al Pci. Alla fine del 1976 egli scrisse sia al direttore dell’Unità Luca Pavolini, sia al direttore della sezione internazionale del Comitato centrale Sergio Segre per prospettare l’instaurazione di una collaborazione e perfino l’adesione al partito, ma neanche questa volta le sue proposte furono prese in considerazione: anzi, a rendere la vicenda ancora più imbarazzante si aggiunse il fatto che le sue aperture furono fatte filtrare sulla stampa italiana. Il colpo di grazia alla speranza di una collaborazione si verificò nell’estate 1977, quando Pelikán si attivò insieme a Luciano Antonetti per organizzare un incontro tra i vertici del Pci e il neoesule Zdeněk Mlynář, che dopo essersi distinto come uno degli ideologi del nuovo corso se membro della presidenza del Ksc, era divenuto uno dei leader dei comunisti espulsi ed era stato tra gli artefici di Charta 77. Il risultato fu però deludente, consistendo in un semplice incontro tra Mlynář e il direttore di Rinascita Adalberto Minucci, oltretutto non a Botteghe Oscure ma nella sede della rivista. Questo atteggiamento contrastava con quello di altri esponenti eurocomunisti, come dimostrava l’intimo colloquio concesso di lì a breve dal segretario del partito comunista spagnolo Santiago Carrillo sia a Mlynář che a Pelikán.
Con questo fallimento caddero le ultime remore di Pelikán a impegnarsi apertamente a fianco del Psi. Un primo segnale si ebbe nel 1977, quando, con l’aiuto di due altri esuli cechi come Antonín Liehm e sua moglie Mira, divenne uno degli animatori della Biennale del dissenso diretta dal vecchio amico Ripa di Meana. Ma, soprattutto, nel 1979 egli si assicurò l’elezione al Parlamento europeo presentandosi da indipendente nella lista dei socialisti italiani. L’elezione a Strasburgo fu un grandissimo successo, perché diede una visibilità senza precedenti alla causa del dissenso e alle correnti di opposizione esistenti in Cecoslovacchia e nell’intera Europa centro-orientale. Al tempo stesso permise a Pelikán di superare le difficoltà finanziarie con le quali si era dovuto confrontare nel primo decennio dell’esilio, e gli offrì l’opportunità di allargare in maniera esponenziale i suoi contatti sulla scena internazionale.
Con il conseguimento della cittadinanza italiana e l’elezione a Strasburgo si può dunque parlare di una crescente identificazione di Pelikán col Psi craxiano. L’esule ceco si avvalse del sostegno personale del segretario socialista per dispiegare un’azione a più livelli in favore dell’opposizione e del dissenso interni, ormai ben al di là della pubblicazione di Listy. In particolare, egli contribuì in maniera rilevante alla creazione in patria della rivista Lidové noviny, stabilì un contatto diretto con l’indiscusso leader della cultura alternativa cecoslovacca Václav Havel, e si attivò proprio insieme a Craxi per la sua liberazione dal carcere all’inizio del 1989. Ancora alla vigilia della rivoluzione di velluto l’esule ceco stava progettando la creazione di un centro studi per il socialismo democratico e per il pluralismo nei paesi dell’Est nel quadro della Fondazione Nenni.
Eppure Pelikán non interruppe mai i rapporti con altre aree politiche. Questa linea di condotta rifletteva le remore espresse da altri esponenti dell’esilio e dell’opposizione interna verso una collaborazione esclusiva con il Psi, a scapito dei contatti con altre componenti della sinistra europea e in particolare col Pci. Lui stesso confidava la preoccupazione di “come unire la difesa degli interessi italiani con la prospettiva della sinistra, anche con riguardo per ciò che succede da noi a casa”. In questa prospettiva partecipò con Luciano Antonetti alla lunga trattativa che doveva portare alla pubblicazione della nota intervista di Dubček sull’Unità nel gennaio 1988; in maniera analoga appoggiò gli sforzi posti in essere dal Pci per ottenere dal nuovo segretario del Pcus Michail Gorbačëv una revisione del giudizio sulla Primavera di Praga e una sconfessione dell’invasione dell’agosto 1968.
Con questa multiforme attività Pelikán svolse un ruolo di tutto rilievo nella preparazione di quella “rivoluzione di velluto” di cui si è da poco celebrato il venticinquesimo anniversario. Al di là dell’oggettiva identificazione con il Psi craxiano, l’esule ceco si avvalse di qualunque aiuto potesse giovare alla causa del suo paese, non esitando all’occorrenza a sfruttare le tensioni e le rivalità esistenti tra le varie componenti della sinistra italiana. Al tempo stesso, proprio attraverso tali tensioni e rivalità, anche l’Italia poté contribuire alla maturazione dei grandi eventi del 1989.