Il Pd di Renzi ha finalmente rotto lo steccato, che come un incantesimo di infinita durata, impediva alla sinistra italiana di diventare maggioranza di governo. Le intenzioni, il desiderio, la voglia di superare quella barriera si erano manifestate da un bel po’: forse già dalla svolta del 1989, quando il simbolo del Pci era stato archiviato per sempre. Ma Occhetto e quella classe dirigente erano figli di una storia antica e difficile, quasi impossibile da lasciarsi alle spalle, per tante ragioni ideologiche, ma anche sociali, economiche, radicate nella fase ascendente dello sviluppo industriale italiano. Ci avevano provato poi le varie Cose 2 e Cose 3, che però non erano mai andate oltre un tentativo cosmetico, per quanto volonteroso, di «andare oltre» la vecchia sinistra. Di nuovo, un tentativo più coraggioso era stato quello, avviato da Prodi con la coalizione dell’Ulivo, poi con l’asinello, infine con la nascita della Margherita di Rutelli e poi con la tentata fusione, che però non è mai andata oltre la sua natura di aggregato dei gruppi dirigenti provenienti dai vari tronconi dei progressisti e dei liberal italiani. Infine il tentativo più vicino a noi: quello di Veltroni del 2007. Il partito nasceva finalmente con il nome giusto corrispondente al disegno di un partito pensato per conquistare la maggioranza: l’organizzazione PD dunque esisteva finalmente e non era più una remota aspirazione di marca «americana», ma era ancora prigioniera delle lotte tra tante «micro leadership», ciascuna delle quali temeva di precipitare in una inedita pericolosa avventura se si fosse affidata a una «macroleadership» (Mauro Calise), che è invece nella natura stessa di una competizione per la maggioranza. Ricordate, non secoli, ma solo pochi mesi fa, l’indimenticabile dibattito sul fatto che non si possono sommare la segreteria del partito e la candidatura alla guida del governo? Il tema veniva sorprendentemente preso sul serio nell’Europa dove è la norma e dove fa eccezione il contrario.
Ebbene, per certificare che quella storia di correnti in perenne, irrisolto, contrasto volgeva al termine, occorreva qualcuno che si impegnasse a togliere dal proscenio i micro leader, non per eliminarli come si fa in regimi autoritari, ma per comunicare che il comando del partito era unificato e personale, e che i leader usciti sconfitti dalla lotta per la guida del partito non dovevano boicottare il leader scelto con le primarie, ma concorrere al successo elettorale del vincitore. Proprio come in America e negli altri paesi europei. Ma perché riuscisse a Renzi quel che non era riuscito a Veltroni nel 2007 occorreva ancora un altro passaggio, forse ancora più difficile: una vera metamorfosi dell’identità del «soggetto Pd», da erede delle memorie composite della sinistra e dei progressisti italiani a qualcosa di molto più largo. Non bastava certo – come implorava per anni Rutelli – proibirsi la parola «sinistra» per sostituirla con «centrosinistra». Bisognava trasformare il «noi» del Pd in una identificazione molto più grande, nell’unica appropriata a un partito che abbia davvero la «vocazione maggioritaria»: e cioè «noi italiani», «noi elettori». Per questo occorreva l’intuizione di Renzi, la sua personale vocazione «pigliatutto», quella che gli ha consentito di presentarsi come competitore di Berlusconi e di Grillo sul loro stesso terreno. E a compiere questo processo di allargamento dell’identità niente poteva essere più utile della sconfitta disastrosa, ma chiarissima, pedagogica, di Bersani, che ha incarnato l’ultima versione della «ditta», del «noi-la-nostra-storia-e-memoria», un «noi» che mai avrebbe potuto attraversare il recinto dei partecipi di lungo corso. Ricordate, ancora, la recentissima, ineffabile discussione sui «condomini»? quando gli avversari di Renzi dentro il partito, nella campagna per le primarie, si opponevano alla partecipazione degli elettori «esterni» come una ingerenza impropria: sarebbe, dicevano, come chiamare inquilini di una altro condominio a eleggere l’amministratore del tuo! Ebbene, la cosiddetta «minoranza del Pd» confermava la sua resistenza al passaggio dal partito ideologico con le radici nella prima Repubblica, proporzionalista, al partito elettorale che si batte per prendere la maggioranza di governo e toglierla agli avversari. Un risultato oltre il 40%, e con l’acquisto di milioni di voti in più rispetto alle ultime politiche, conferma che il recinto è finalmente abbattuto. Gli errori di Grillo – vaghezza di programmi sommati a spaventose minacce – hanno fatto il resto. Ora un passo avanti verso una possibile «normalità» della politica italiana, perché diventi capace di una fisiologica alternanza, è stato fatto. All’appello ora manca la destra, se mai si deciderà a voltare pagina.
non vedo nessun trionfalismo. trionfo sì, 40 per cento, dopo decenni di fallimenti, dovuti anche ai cambiamenti culturali, troppo “lenti e radicati”, troppo radicati…
Non sono d’accordo con i toni trionfalistici: il 23,33% dell’elettorato (40,8% del 57,2%) ha votato PD.
Lo zoccolo duro del conservatorismo italiano ha il suo nuovo rottame prossimo venturo?
Il trionfo del riformismo necessita di un cambiamento culturale intergenerazionale ed intragenerazionale, lento e radicato, perché si possa sperare che sia poi duraturo.
Buon lavoro @MatteoRenzi e al suo nuovo centro che avanza.