Momento di condivisione e di raccoglimento, veicolo di tradizioni e mezzo di comunicazione – il cibo è molto più che apportare all’organismo l’energia necessaria per renderlo funzionante. Il cibo è anche simbolo religioso, nutrimento dell’anima e la sua condivisione a tavola un momento di convivialità e intimità con l’altro.
Ma cosa succede quando ceniamo con chi mangia solo halal? E come dovrebbero comportarsi istituzioni come le mense scolastiche di fronte a famiglie che rifiutano la carne di maiale? O ancora, quale risposta dovrebbe dare lo Stato a chi pretende di sapere come è stato macellato l’animale che trova sul bancone del supermercato?
Sono domande destinate a diventare sempre più frequenti in una società plurale, dove culture, fedi e pratiche religiose convivono, entrando quotidianamente in contatto – e, spesso anche in contrasto.
Dalla necessità di tracciare i percorsi che portino alle risposte a queste e altri simili interrogativi, è nato “Nutrire l’anima. Religioni e alimentazione”, un ciclo di conferenze figlio di un progetto che ha affiancato Expo Milano 2015, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Reset – Dialogues on Civilizations e Università degli Studi di Milano.
La preparazione per l’esposizione universale del 2015 che porterà a Milano 130 paesi del mondo a confrontarsi sul tema “Nutrire il Pianeta. Futuro per la vita“, comincia un anno prima con una serie di iniziative coordinate da Salvatore Veca, nell’ambito di Laboratorio Expo. Presentato come un progetto di Expo 2015 e Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, il Laboratorio è pensato come il percorso di preparazione all’evento del 2015, un incubatore di idee, proposte e iniziative sviluppate in quattro percorsi – Agricoltura e alimentazione, Sviluppo sostenibile, Antropologia e Sociologia urbana – che portano dritti all’Esposizione.
La riflessione antropologica, culturale e sociale sulle tematiche di Expo, parte così nel marzo 2014, quando a Milano gli argomenti del triangolo cibo, cultura e diritto si incontrano nelle tre conferenze di “Nutire l’anima. Religione e alimentazione”. Coordinati dal professore Silvio Ferrari, docente di Diritto canonico ed ecclesiastico alla Statale di Milano – dove, sulla tematica dell’incontro tra cibo e religione, ha attivato un modulo didattico – gli accademici Giovanni Filoramo, Maria Chiara Giorda, Gianfranco Marrone e Mario Ricca hanno tenuto delle lecture sulla centralità del cibo nella religione e sulla risposta del diritto e delle istituzioni al pluralismo religioso e culturale.
La risposta apparentemente positiva dell’Italia a un consumo alimentare ancora incentrato sì sulla dieta mediterranea, ma sempre più aperto alla sperimentazione della diversità, cela infatti un enorme vuoto di conoscenza. A portare gli italiani a vincere lo scetticismo nei confronti delle pietanze provenienti da altre culture e religioni e aprire la strada al multiculturalismo culinario sono infatti quella curiosità e quelle mode globalizzate che spesso però lasciano in disparte l’importanza che, almeno in via teorica, il cibo ha all’interno di queste stesse culture – e, già prima, delle religioni su cui queste hanno posto le basi.
Certo, al netto delle tendenze e dei diversivi per le serate, rimane che l’emergere di cucine diverse è l’evidenza di un’apertura della società italiana, di fatto una piccola fessura che fa ben sperare per l’Italia plurale del futuro. Oltre a un’opportunità, per chi arriva nel nostro paese, di ritrovare la propria cultura e iniziare a sentirsi, anche qui, a casa. Ma l’ignoranza, rintracciabile anche nel rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, curato dallo storico Alberto Melloni, mina lo sviluppo di politiche che aiutino l’integrazione, a partire dalla tavola.
A questo proposito sono esemplificativi i dati della ricerca europea À table avec les religions, forniti dalla stessa Maria Chiara Giorda e relativi alla risposta da parte delle mense scolastiche alle necessità di menù differenziati avanzate da studenti e famiglie. Tra i casi italiani di accoglienza e rifiuto (quando di tipo ontologico e quando di tipo culturale-identitario), è emblematico il caso di Torino dove, di fronte a classi in cui il rapporto tra studenti italiani e studenti stranieri è sempre più vicino al 50-50, alle numerose iniziative volte a educare i bambini a un rapporto con il cibo rispettoso della propria salute, non ne corrispondono di simili incentrate invece sul rapporto delle abitudini alimentari diverse, dettate dalla religione.
Un atteggiamento che rispecchia sostanzialmente quello della maggior parte delle mense italiane – tra le quali comunque spiccano eccezioni in positivo (come il caso di Sesto fiorentino, dove viene offerta la possibilità di un menù speciale per i bambini di osservanza musulmana) come in negativo (come invece avviene ad Adro, in provincia di Brescia, dove l’esclusione della carne dei menù è ammessa solo previa prescrizione medica).