E’ successo su Twitter a ottobre ed è successo di nuovo nelle prime settimane del 2013: nella classifica delle discussioni più seguite sul social network entrano due hashtag, prima #letroiedellamiacittà e poi, in gennaio, #letroiedellamiascuola. Centoquaranta caratteri di pura rabbia, spesso con annesse fotografie della coetanea presa di mira: già, perché la discussione è stata, in tutti i due casi, ad altissima partecipazione femminile e minorenne (il secondo hashtag, quello sulle troie scolastiche, è stato lanciato da una ragazzina di terza media). Qualche esempio? “Le troie della mia scuola si fanno le foto quando nevica mezze nude. si siete trasgry”. Oppure: “cambiano foto trenta volte al giorno solo per avere più mi piace”, “si fanno foto bimbominkiose cn la sigaretta in mano e l’iphone5 anke se nn fumano x metterle su fb e avere i mi piace”, “non capiscono che la didascalia delle foto non serve x citare frasi poetiche che giustifichino le loro tette di fuori”, “si fanno mille foto agli occhi pubblicandole poi su facebook e scrivendo ‘ho degli occhi bruttissimi”, “si fanno le foto in pantaloncini corti e pancia scoperta quando fuori ci sono i pinguini”.
Le foto, le foto, le foto. E i mi piace, i mi piace, i mi piace. Sotto accusa, e sotto tiro, ex bambine di tredici anni che più o meno consapevolmente imitano lo scatto nel bagno di Barbara e Lucia nel bagno di Palazzo Grazioli, magari posando in biancheria intima e non in tubino nero. Ma le altre, le accusatrici, non sono immuni dal riproporre, in piccolo, quanto avviene fuori dalla scuola e dal mondo spesso asfittico dei social: è il modello in miniatura fra perbene e permale che viene ridotto a tweet o status su Facebook. O, per meglio dire, la semplificazione che dei contrasti fra le adulte arrivano alle ex bambine. Di qua le belle e vincenti, ben truccate e ben vestite, accusate di frequentazioni sessuali multiple (a dodici anni), di là quelle che si ritengono bruttine o inadeguate e dunque perdenti, e dunque non sfiorabili dalla fama, se non in branco. Tutte unite contro le rivali, nell’anonimato di un tweet e nel gran calderone dei risentiti che sempre più anima la rete, a qualsiasi fascia d’età o genere sessuale si appartenga. E’ lo stesso meccanismo noto ai frequentatori di Facebook, dove molti utenti pubblicano l’immagine del tweet che hanno rivolto al potente di turno, politico o attore o scrittore che sia, commentando soddisfatti “gliele ho cantate” e racimolando adesioni rabbiose quanto inutili.
Non è una novità, è un’evoluzione. Qualche anno fa l’insulto si concretizzava in due termini, attention whore, ovvero puttana che vuole attenzione, ovvero chi è disposto a tutto per farsi notare: l’allusione non era al sesso, bensì al desiderio di avere successo a tutti i costi (ma le parole, come sempre, pesano, e molto) e l’appellativo veniva distribuito iniquamente fra coloro che realmente si affacciavano alla rete con l’unico scopo di trovare un po’ di luce e persone che si affermavano con la forza dei loro scritti (quell’epiteto fu affibbiato da uno degli infiniti blog “cattivi”, che traggono a loro volta fama dalla vis polemica, a una scrittrice di grandissimo talento, Babsi Jones, che in seguito sparì dalla rete, anche per questo). Poi si è diffuso, in ambiti più ristretti, quello di scene queen, riferito a ragazzine dai lunghi capelli lisci e colorati e guardaroba studiatissimo. Anche qui, la battaglia si consuma sui video e sulle foto. Prima su Netlog e poi e definitivamente su Facebook. Foto e mi piace. Mi piace e foto.
Una generazione di ossessionate dalla fama? Neanche un po’. Le ragazzine che twittano contro le “troie” non sono un caso, non sono mostri, non sono oggetti su cui salmodiare “signore, devo finiremo”. Perché il morbo, che uno psicanalista brillante ha definito il trionfo dell’inconshow e che altrove si chiama microfama, riguarda gli adulti in primo luogo, donne e uomini, celebri e no: e riguarda il marketing, che ha colto con tempismo notevole quel che stava avvenendo su Internet, volgendolo a proprio vantaggio. Nei blog, per esempio, una parte considerevole di influencer o aspiranti tali collabora con le aziende: produttori di margarina se sono food blogger, stilisti se sono fashion blogger, marchi di detersivi o passeggini se sono mom blogger, case editrici se sono lit- blogger. Il meccanismo è perverso, perché induce altri ad assimilare i modi e i comportamenti del blogger prescelto per poter essere a sua volta contattato dalle aziende. E’ un mutamento notevole. Un tempo i blog erano il luogo alternativo alla carta: laddove il giornalismo tradizionale non poteva arrivare per mancanza di spazi c’erano i blog. Oggi sono i blog i luoghi di promozione e diffusione di prodotti su cui il marketing punta, nella maggior parte dei casi senza scossoni, e con successo.
E’ come, insomma, se si fosse saltato un passaggio. Ieri la concezione del successo somigliava a quella degli apostoli di Jesus Christ Superstar, quelli, più fumati che ispirati, che tra gli ulivi del Getsemani cantavano di aver sempre desiderato di diventare apostoli, che si sono impegnati tantissimo per riuscirci finché, appunto, ce l’hanno fatta, e che quando andranno in pensione scriveranno i Vangeli, così si parlerà di loro anche dopo morti. Questa era, in effetti, la concezione della fama negli anni Settanta e fino a certo underground dei Novanta: impegnati e ce la farai. Oggi ci si impegna solo nella promozione. E, a quanto pare, sono le donne a impegnarsi di più. Le bambine che pubblicano foto e quelle che postano su YouTube tutorial su come passare il fard sulle guance, sperando di diventare un giorno make up-guru e ricevere in omaggio cosmetici costosissimi in cambio di un po’ di pubblicità semigratuita.
E le loro madri? Il Mom Central Consulting (un’agenzia di marketing statunitense che lavora sul brand delle mamme) ha dimostrato che le madri blogger hanno un potere enorme: e di fatto sono state loro a cambiare il modo di concepire il marketing. Lo stesso Mom Central Consulting si presenta così: “raggiungiamo le madri e le coinvolgiamo in un potente programma di passaparola come blog tours, programmi di viral marketing ed eventi dal vivo”, considerato per le aziende il modo migliore per “promuovere e raccomandare il proprio brand” e per aumentare le vendite dei prodotti. A MCC aderiscono oltre cento marchi, giustamente interessatissimi. Quanto alla situazione italiana, basti pensare alla vera e propria opera di seduzione, a suon di spot, canzoni e viaggi premio, intrapresa da Procter&Gamble verso le mamme, prime consumatrici d’Italia.
Ma tutto questo, attenzione, non significa affatto che bisogna sottrarsi alle sirene della fama, micro o nano che sia. Significa semmai che bisogna avere consapevolezza di quanto la medesima, sui social e in rete, sia effimera, e svanisca ancora più presto delle canzonette dei musicarelli anni Sessanta. Un clic, e si passa a un altro guru. Ma nel frattempo le ragazze, perché sono soprattutto loro a entrare in ballo, possono farsi molto male. Su un blog, ho trovato il commento di una delle ex.bambine etichettate come “troie” su Twitter, solo perché “un anno fa ho accettato l invito x un cinema….. La storia dura ancora lei era una mia amica lei ha la mia età”, e che dice amaramente:
“In rete dovrebbero starci le persone mentalmente elastiche e intelligenti ( non parlo di studi) forse dovremmo dire educate…”. Impossibile, certo, e irreversibile. Ma ignorare quel che avviene non lo renderà meno doloroso.