Questo articolo è una prima parte del contributo presentato da Mariachiara Giorda tenutosi il 26 marzo 2014 a Milano. Quanto segue è da considerarsi un’introduzione teorica allo studio A tavola con le religioni, pubblicato qui.
La scuola e le istituzioni educative in genere sono identificate come quelle agenzie fondamentali per la promozione della salute attraverso l’acquisizione di stili di vita e di alimentazione sani. Al contempo, una più salutare proposta nutrizionale deve ottenersi attraverso lo sviluppo di politiche del cibo e della nutrizione che devono essere rispettose, plurali e pluraliste, attente alle culture religiose rappresentate dagli utenti: ogni religione definisce infatti i modi in cui il corpo, la salute e le pratiche alimentari sono costruite, negoziate, stabilite e regolate.
L’obiettivo di questo contributo è riflettere sullo stato attuale delle politiche relative al cibo e alle religioni, promosse nella ristorazione scolastica collettiva e alle buone pratiche che le istituzioni hanno adottato in Italia per promuovere la creazione di un contesto più favorevole allo sviluppo complessivo della persona, con particolare riguardo per l’identità religiosa.
In una prima parte, si prenderanno in esame alcune buone prassi relative al rapporto tra l’alimentazione e le religioni nelle scuole italiane, in particolare in riferimento a tre ambiti: creazione e produzione del cibo, consumo (obblighi, divieti e digiuni) e distribuzione (regolamentazione ed etichettatura) e con un focus specifico sulle politiche di educazione e promozione attivate dal servizio mensa delle scuole di Torino. In una seconda parte si presenteranno e analizzeranno i dati dei questionari relativi al rapporto tra cibo e culture, abitudini e regole religiose, somministrati nell’anno scolastico 2013/2014, nell’ambito di un progetto condotto dalla Fondazione Benvenuti in Italia, di cui si illustreranno le linee guida.
Una premessa: Pluralismo religioso, cibo e scuola
Il dato di fatto, punto di partenza di questo contributo, è il pluralismo religioso in cui viviamo: nonostante i processi di secolarizzazione in corso da decenni, la nostra società è sempre più plurale e complessa [1]. Tra i vari ambiti di ricerca che questo pluralismo ha rivivificato, il rapporto tra le religioni e gli spazi pubblici è senza dubbio di grande interesse, sia per gli studiosi, sia per gli attori coinvolti, siano essi semplici cittadini o istituzioni pubbliche, culturali e politiche. Senza dubbio la scuola è uno degli spazi pubblici in cui le religioni si esprimono con maggiore forza: non entriamo qui nel dibattito, ma basterebbe ricordare la questione – aperta e a ondate varie di interesse pubblico – dell’insegnamento della religione (e delle religioni) che interroga il sistema educativo e la sua capacità di intercettare urgenze e sfide [2].
Se il rapporto tra religioni e spazi pubblici pone di continuo interrogativi e domande di ricerca, teorica ed empirica, uno dei temi che nel contenitore degli studi religionistici ha suscitato interesse per la possibilità di accostarvisi in maniera comparativa è il rapporto tra religioni e cibo [3]. La possibilità di studiare la nutrizione e l’alimentazione nel suo rapporto di influenza (reciproca) con il sacro e la religione ha da sempre mosso studi di antropologi, sociologi, storici delle religioni [4]: ciascuna comunità culturale e religiosa agisce come unità portatrice di cultura [5] e ciò implica che ogni comunità è attivamente coinvolta nel processo di inclusione sociale. Il cibo è un elemento culturale e, in quanto tale, è parte dell’amalgama di simboli che costruiscono qualsiasi tipo di sistema culturale. I significati veicolati dal cibo, sono utili a rappresentare e istituzionalizzare i valori e le credenze della cultura [6]. Il cibo può quindi essere suddiviso in categorie differenti, con riferimento all’igiene e al disordine, alla purezza e al pericolo. L’igiene si riferisce all’ordine, il pericolo e la sporcizia si riferiscono al disordine. Scartare il cibo non è un’azione negativa, ma uno sforzo positivo volto ad organizzare l’ambiente. Non esistono cose sporche in sé: la sporcizia esiste nell’occhio dell’osservatore. La purezza e l’impurità creano unità nell’esperienza del cibo; sono contributi positivi per l’espiazione. Attraverso di essi, i modelli simbolici sono elaborati e pubblicamente manifestati; attraverso tali modelli, elementi diversi tra loro vengono legati e si attribuisce significato comune ad esperienze differenti.
I modelli alimentari sono influenzati dai retroterra socioeconomici e socioculturali tanto quanto dalla religione, che gioca un ruolo fondamentale nelle vite delle persone, imponendo restrizioni severe anche in materia di consumi alimentari. Ciascun individuo ma anche ciascun gruppo culturale sviluppa le proprie preferenze per alcuni tipi di cibo e le preferenze culturali scaturiscono dall’interazione tra risorse disponibili, tradizione e necessità imposte dall’ambiente sociale, nonché dalle credenze, superstizioni, tabù e attitudini rispetto al cibo e al modo di consumarlo [7].
L’assunzione di cibo smette di rappresentare la risposta a un bisogno esclusivamente fisiologico per abbracciare appieno la più ampia dimensione del bisogno culturale. Oltre a questo, le concezioni religiose del cibo hanno informato e tuttora informano gli stili alimentari dei gruppi culturali; i sistemi giuridico-normativi pubblici devono confrontarsi a loro volta con tali concezioni religiose.
A quanto sinora elencato occorre aggiungere l’effetto delle migrazioni e della globalizzazione, fenomeni recenti che mutano i modelli alimentari diffusi: nella migrazione avviene spesso un aggiustamento pragmatico delle abitudini alimentari che, anche se fondate su regole religiosamente orientate, trovano un adattamento sulla base della disponibilità di risorse alimentari del paese ospitante. Allo stesso modo, le società globalizzate si confrontano sempre più spesso con temi e questioni sconosciuti, tra le quali l’alimentazione è uno degli elementi di emersione dell’alterità [8].
In un simile contesto, le organizzazioni sociali, le istituzioni e i sistemi educativi sono chiamati a rapportarsi con tale alterità, con l’obiettivo di promuovere, in primis, l’inclusione sociale: il cibo può essere considerato contemporaneamente oggetto e soggetto dei mutamenti sociali, tra i quali l’incontro e lo scontro tra alterità culturali e religiose rappresenta uno scenario crescente e rilevante per la convivenza civile. Occorrono nuovi modi di gestire e organizzare scenari in continuo mutamento, nei quali i bisogni, le abitudini, i comportamenti di individui dalla differente appartenenza culturale e religiosa si intrecciano con sempre maggiore costanza.
Se incrociamo l’importanza dell’analisi del rapporto tra cibo e religione (tra cibo e religioni) con quella della prospettiva degli spazi pubblici, è chiaro quanto sia centrale una ricerca che tenga in considerazione di tale tema e tale approccio, occupandosi quindi di cibo e religione (intesa come porzione specifica di un sistema culturale più complesso) in uno spazio pubblico come la scuola. Di pluralismo culturale e religioso e “mense scolastiche” si occupa l’indagine qui descritta.
Sebbene il numero delle ricerche e degli studi in materia vada aumentando, il tema necessita di maggiore indagine e ulteriori sviluppi, capaci, inoltre, di portare ad una definizione univoca del fenomeno. Prima ancora di considerare i bisogni emergenti, è importante soffermarsi sui bisogni tradizionalmente legati all’alimentazione come alla commensalità, l’atto di mangiare insieme, nella stessa mensa [9]. Nella cornice dei temi sin qui affrontati, la commensalità appare infatti come concetto dirimente per discutere di regole religiose, pratiche, divieti e tabù in fatto di nutrizione: essa rappresenta infatti una delle più evidenti manifestazioni della socialità umana [10]; considerato l’aspetto socialmente rilevante della nutrizione e l’aspetto rituale della condivisione del cibo, la commensalità può essere definita come una comunione religiosa capace di rinsaldare quotidianamente la società nel suo complesso. Anche il tema della “qualità” permette di allargare gli orizzonti di questa ricerca [11]: che la si prenda dalla prospettiva del demand o del supply, la qualità è considerata sempre come prodotto di un processo di negoziazione anche contestato che in parte deriva e in parte determina le relazioni di potere tra i differenti attori della catena alimentare. Nel contesto del cibo (produzione, distribuzione e consumo) esistono quattro tipi di convenzioni sulla qualità [12]:
- convenzioni commerciali o del mercato che definiscono la qualità in termini di prezzo
- convenzioni domestiche , basate sulle relazioni sulla territorialità e sul metodo di produzione (tradizionale)
- convenzioni industriali, che valutano i cibi e i prodotti sulla base della loro affidabilità ed efficienza e sulla loro corrispondenza a standards e regole
- convenzioni civili che rispondono a un set di principi collettivi e guardano ai benefici sociali
Di questo panorama complesso occorre tenere conto quando si tratta il tema della qualità e dello sviluppo di una “economia della qualità” che includa aspetti sociali, culturali ma anche spirituali [13].
Religione e pratiche alimentari
Un quadro generale può essere utile a sottolineare quanti tasselli compongano il mosaico del rapporto tra cibo e religioni, in termini di cibi sacri, cibi vietati, periodi di festa, digiuni. Come si è accennato, ciascuna concezione religiosa in materia di cibo fa riferimento a tre categorie fondamentali [14]:
- Creazione e produzione, ovvero tutto quanto precede il consumo;
- Consumo, la cui tassonomia è legata a prescrizioni dirette (cibi leciti ed illeciti), prescrizioni temporanee (astensione e digiuno) o obblighi specifici (come nel caso degli eventi rituali);
- Distribuzione, ovvero il tema complesso della regolamentazione ed etichettatura, che coinvolgono l’industria alimentare ed il marketing (come nel caso della carne, l’alimento più strettamente regolamentato nell’islam).
1.Religioni e abitudini a tavola
Nel panorama delle normative alimentari religiose, l’ebraismo si distingue per lo sforzo di legiferare ogni aspetto che riguarda l’alimentazione e la commensalità; si manifesta così il segno evidente che anche a tavola l’ebreo costruisce il rapporto con Dio.
In due libri della Torah, quali il Levitico e il Deuteronomio, sono presenti i criteri che regolamentano l’alimentazione ebraica, raccolti nella kasherut; il termine deriva dalla radice ebraica kaf-shin-reish, ovvero corretto, permesso: il più conosciuto termine kosher designa dunque quegli alimenti che incontrano gli standards definiti dalla Torah. Nonostante la kasherut preveda descrizioni dettagliate di ogni alimento e delle sue regole, tre principi fondamentali stanno alla base dell’intero sistema normativo:
- esistono cibi permessi e proibiti;
- alcuni animali, o parti di questi, non devono essere assolutamente mangiati: questa restrizione prevede la carne, gli organi, le uova ed il latte di tutti gli animali proibiti;
- gli animali permessi devono essere macellati secondo le norme di macellazione rituale definite dalla schechita [15].
In particolare, è permesso il consumo degli animali di terra in presenza di due principali caratteristiche, l’unghia fessa e la ruminazione; tra gli animali d’acqua sono permessi quelli che possiedono sia le pinne che le squame; rispetto agli animali d’aria i criteri sono meno chiari: la Torah fornisce una lista di uccelli proibiti (notturni o rapaci), permettendo il consumo di polli, oche, anatre e tacchini (per quanto per alcuni questi ultimi vadano inclusi tra i proibiti perché sconosciuti all’epoca della Torah) [16]. È inoltre proibito il consumo congiunto di carne e latticini, con riferimento alla norma secondo cui «non farai cuocere il capretto nel latte di sua madre» [17]; da qui il divieto è stato esteso anche al pollame in genere. Questa fondamentale separazione si applica al momento del consumo tanto quanto a quello della distribuzione e della preparazione: gli utensili, le pentole, le padelle, i piatti, le posate, i lavelli o le lavastoviglie non possono ospitare contemporaneamente i due alimenti. Inoltre, una volta consumata la carne è necessario che passino almeno sei ore prima che sia lecito il consumo di latticini.
Le regole della kasherut non sono limitate a cerimonie o festività, ma si applicano nella quotidianità per tutta la durata dell’anno; specifiche restrizioni riguardano tuttavia i periodi di festività o cerimonia. Ogni aspetto della simbologia che accompagna i pasti non si configura quale gesto meccanico, piuttosto richiede consapevolezza; esso ha lo scopo di sottolineare la sacralità che il consumo del cibo contiene.
Anche le festività hanno lo scopo di sottolineare tale aspetto sacrale. Si consideri la Pesach, Pasqua ebraica, per il festeggiamento della quale i preparativi partono molto tempo prima. In quell’occasione non deve essere presente in casa cibo lievitato (chametz). La sera prima della vigilia l’intera famiglia è coinvolta nella ricerca “rituale” delle briciole di pane, che verranno poi bruciate l’indomani.
Alla vigilia di Pesach i primogeniti fanno digiuno, ricordando l’uccisione dei figli degli egiziani e due giorni prima della festa ha luogo il sèder (“ordine”: la radice linguistica è la medesima che accomuna il termine siddur, col significato di libro delle preghiere), il banchetto con azzimi, erbe amare ed altri cibi, durante il quale si assiste alla lettura dell’Haggadà, il racconto della fuga. Alla fine della cena viene consumato un pezzetto di afikomen, l’agnello pasquale, a ricordo del pasto fatto nei tempi antichi.
Nell’islam, la moderazione costituisce il tratto alimentare più evidente; recita il testo coranico: «Mangiate e bevete ma senza eccessi, ché Allah non ama chi eccede» (VII, 31). Il Corano, definendo ciò che è lecito (halal) e illecito (haram), impedisce il consumo di alcune carni di animali; l’unica ad essere nominata con precisione è quella di maiale (II, 173). Pur proibendo poche altre carni, l’islam condanna con forza anche quelle lecite se su esse non sia stato invocato il nome di Dio (VI, 121) e non sia stato praticato il corretto rituale di macellazione [18].
Le regole alimentari definite dalle norme religiose islamiche condividono tre criteri fondamentali.
- Distinzione tra cibi leciti ed illeciti: la carne suina, compresa quella di cinghiale, è proibita, così come la carne di predatori e carnivori quali leoni, tigri, cani, gatti e uccelli rapaci. È permesso il consumo di carne di animali addomesticati con zoccolo fesso, quale quella di bovino, di pecora, capra, agnello, bufalo e cammello; i volatili che non fanno uso di artigli per la presa del cibo, come polli e tacchini, sono ammessi. Uova e latte possono essere consumati se derivano da animali permessi;
- Proibizione del sangue: il sangue è sempre haram, che provenga da animali leciti o meno;
- Metodo di macellazione: il consumo di qualsiasi tipo di carne non può prescindere dal metodo rituale di macellazione19; come per la kasherut ebraica, l’animale non deve essere stordito e deve essere ucciso con un taglio netto alla gola, così da causare l’immediato e più completo deflusso possibile di sangue e la morte più rapida possibile.
Il cristianesimo pone l’uomo libero in ambito alimentare: non esiste una vera normativa che prescriva il consumo di alimenti, nessun tabù colpisce cibi o bevande. Sono presenti piuttosto momenti di astinenza e di digiuno soprattutto nel periodo liturgico della Quaresima. L’astinenza dalle carni e il digiuno del Mercoledì delle Ceneri e del Venerdì Santo costituiscono le principali restrizioni alimentari alla libertà introdotta da Gesù: «Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna? Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mt 15, 1-20).
È bene precisare però che il cristianesimo (così come l’ebraismo e l’islam) non si configura quale tradizione unica e concernente tradizioni simboliche e culturali univocamente definibili. Esso si costituisce, piuttosto, di differenti correnti, ed è corretto sostenere che non tutte hanno promosso lo stesso rapporto con il cibo. In particolare, la corrente avventista ha proposto una scelta nutrizionale lacto-ovo-vegetariana, nella quale il maiale non è permesso. Gli avventisti non vegetariani consumano generalmente carni di animali ruminanti con zoccolo fesso. Le carni permesse lo sono in quanto “pulite”: la Chiesa Avventista del Settimo Giorno considera infatti il cibo come strettamente legato al rapporto salute-malattia, che definisce i cibi non salutari come “sporchi”, contaminati [20].
Relativamente al cristianesimo considerato nel suo complesso, si può affermare che anche l’architettura dei luoghi religiosi (ad esempio dei monasteri) sottolinei il significato sacrale del cibo.
Il refettorio è sempre parallelo alla chiesa, a significare che l’uomo vive di Parola e di pane. Si mangia e si prega a ore fisse, e la semplice osservanza dell’orario crea una disciplina del corpo, elementi fondamentali per l’ascesi dei monaci ma anche dei laici.
Se si rileggono i testi chiave del monachesimo occidentale e di alcune religioni orientali, tra cui il Buddhismo, non deve sorprendere la presenza di numerose affinità, anche per quel che riguarda il pasto. Per esempio nella regola di san Benedetto e in quella di Doghen, monaco buddhista della tradizione zen vissuto nel XIII secolo, il cuoco ricopre un ruolo quasi sacro: ambedue le regole prescrivono che colui che prepara gli alimenti sia una persona matura e virtuosa, un maestro di vita di fronte alla comunità.
Nel buddhismo è raccomandata l’astinenza dalle carni per rispetto alla vita degli animali. Nella tradizione buddhista si ritrovano numerosi riferimenti all’alimentazione del Buddha, che almeno al tempo del Palazzo poteva includere il consumo di carni; questo, tuttavia, prima della grande rinuncia e della decisione di vivere in reclusione ed isolamento. La descrizione del suo ultimo pasto prima dell’illuminazione riporta un menù estremamente semplice: riso cotto nel latte. In seguito all’illuminazione, non c’è sutra che riporti consumo di carne da parte del Buddha. Il cibo che avrebbe causato la morte per avvelenamento del Buddha è stato tradizionalmente identificato con la carne di maiale. Il termine originario è stato tuttavia frainteso: le moderne traduzioni ed interpretazioni sposano la versione che vuole ci si riferisse al “cibo dei maiali”, ossia i funghi [21].
In diverse occasioni Buddha afferma che nessun essere vivente dovrebbe essere ucciso o spinto alla morte e il canone pali è intriso di istanze vegetariane: «Tutti gli esseri tremano di fronte al pericolo, tutti temono la morte. Quando un uomo ne ha coscienza non uccide né spinge alla morte. Tutti gli esseri provano paura di fronte alla morte, la vita è cara a tutti. Quando un uomo ne è cosciente non uccide né spinge alla morte» (Dhammapada, 129-130).
Nella tradizione buddhista, anche per quanto concerne il cibo, si condanna la ricerca del piacere fine a se stesso, privo di considerazioni sulle conseguenze.
Se la carne è consumata per il suo gusto ed il piacere che ne si ottiene, pur sapendo che questa non è necessaria per la sopravvivenza, si compie un atto ingiusto.
Anche se il suo consumo non è direttamente proibito, l’astensione dalla carne è considerata nel buddhismo come un valore finalizzato a salvare la vita a un essere senziente: è chiaro, infatti, che, se una persona si astiene dal mangiar carne per tutta una vita, un certo numero di animali non verranno uccisi per lei. Una frase del XIV Dalai Lama sintetizza efficacemente questo principio: «Gli animali uccidono solo quando hanno fame, e questo è un atteggiamento assai diverso da quello degli uomini, che sopprimono milioni di animali solo in nome del profitto».
Le tradizioni religiose che si riconoscono genericamente nell’induismo condividono tratti specifici rispetto al cibo ed all’alimentazione; il cibo è considerato d’importanza vitale, parte del Supremo, del Brahma: il cibo nutre il fisico, la mente e gli aspetti emotivi della persona. È considerato un dono divino, da trattarsi con rispetto.
L’importanza del cibo e del suo significato sacrale è variamente rappresentata nei rituali induisti, dove gli alimenti sono spesso associati al compimento dei cerimoniali. Il primo pasto di un bambino è celebrato come un rito sacro e i riti funebri comprendono l’offerta di cibo all’anima del defunto, in vista del suo viaggio verso il mondo ancestrale.
È conoscenza diffusa la proibizione del consumo di carne bovina: la mucca è considerata sacra dall’induismo, in quanto Madre. Secondo la concezione di karma, la violenza o la sofferenza inflitte ad un essere vivente hanno conseguenze su colui che commette l’atto; per evitare violenza e sofferenza il vegetarianesimo è ampiamente consigliato e sostenuto, sebbene non imposto. Il veganismo, ovvero la più ampia astensione dall’uso di prodotti derivanti da animali, non è sostenuto; esistono prodotti di derivazione animale proibiti in alcune località ma non altrove: l’anatra, o il granchio, possono essere leciti o illeciti a seconda del luogo in cui ci si trova e della tradizione osservata.
L’aderenza all’ahimsa (non-violenza) è la base fondamentale della dottrina vegetariana dell’induismo, condivisa dalle principali tradizioni religiose indiane: l’induismo, il buddhismo, il giainismo ed il sikismo. Tali religioni affermano il carattere sacro della vita, sia essa umana, animale o elementare; ma l’essenza della verità sta nel suo rapporto diretto ed indissolubile con l’ahimsa: verità, ahimsa e vegetarianesimo sono strettamente interrelati. Il rispetto rigoroso dell’ahimsa comporta anche il rifiuto di alcuni vegetali (aglio, cipolle; per certe caste anche carote, rape, legumi rossi) e di tutte le bevande alcoliche.
La Bhagavadgita suddivide i cibi in tre classi fondamentali, distinte dalla bontà, dalla passione, dall’ignoranza. I più salutari sono quelli buoni: latticini, cereali, frutta e vegetali allungano la vita e purificano l’esistenza. I cibi salutari sono dolci, succosi, grassi e gradevoli; i cibi amari, acidi, salati, pungenti, secchi o caldi sono legati alla passione e fonte di malessere; i cibi dell’ignoranza, come carni e pesce, sono descritti come putridi, decomposti, sporchi, fonte di dolore e karma negativo.
Restando nelle tradizioni orientali, il primo daoismo classico fa spesso riferimento all’agricoltura, al giardinaggio e all’alimentazione; in questa tradizione il cibo e l’atto della nutrizione rappresentano aspetti fondamentali del cammino spirituale della persona. L’attenzione dedicata al cibo non si limita alle questioni mediche o dietologiche: mente e fisico sono due regni congiunti, attraversati dalla stessa energia che pervade l’esistenza. L’attenzione a tali aspetti della nutrizione si fa più spiccata negli scritti più recenti; secondo Ge Hong (IV sec. d.C.), l’ingestione è la chiave dell’attività soteriologica. Nel suo pensiero, il principio di salvezza attraverso l’ingestione non si limita all’idea del cibo sano come fonte di longevità o immortalità: il cibo puro permette alla persona di allontanarsi dalla sporcizia, il marciume del mondo [22].
Ciononostante, non esiste nel pensiero daoista un cibo perfetto, assolutamente equilibrato, valido per tutta la vita: occorre che la persona ascolti il proprio corpo e le sue necessità, provvedendo a fornirgli il giusto equilibrio alimentare. Riguardo alla carne, l’unico limite imposto riguarda le pratiche con le quali questa è stata prodotta: non si consumano carni derivanti da pratiche indegne o inumane; il vegetarianesimo non è obbligatorio, ma visto come un modo possibile per promuovere il rispetto per la vita in tutte le sue forme. Vi è, inoltre, il rifiuto dei cereali, perché legati alla nascita di vermi e parassiti portatori di malattie. Essendo ogni azione in un rapporto di stretta dipendenza dalle altre, la longevità – e l’immortalità – richiedono che si dimostri verso il cibo il medesimo rispetto che ognuno riserva a se stesso.
2. Cibo e religione. Cibo come simbolo
Alcuni alimenti sono simbolicamente sacri e proprio in quanto tali devono o non possono essere consumati. Nelle Confessioni di Sant’Agostino si legge di come sua madre Monica si recasse spesso al sepolcro dei santi, come usava in Africa, per portare focacce, pane e vino, secondo il rituale del refrigerium, noto già ai Romani; tale rituale prevedeva che il consumo del pasto avvenisse sulle tombe di antenati e parenti, per “rinfrescare” la memoria del morto.
Il pane, alimento spirituale della città dei morti per il mondo classico, si configura quale alimento cristianizzato. Il pane è il corpo di Cristo, il viatico che è offerto a chi affronta il viaggio nell’aldilà, a chi deve entrare nel regno dei salvati e che sostituisce la moneta che deve essere pagata a Caronte affinché traghetti i morti nell’aldilà; Cristo è divenuto il garante del trapasso salvifico. Esso è alimento carico di significato sacrale; nel cattolicesimo, esso è accolta l’idea che sia il pane azzimo (Esodo 13, 6-7) non lievitato, tipico della tradizione ebraica, l’ostia dell’eucaristia.
Il pane azzimo è anche il pane che si consuma durane la settimana di Pesach, che combatte la natura profana del lievito e che è simbolo di purità e non-contaminazione: come si legge nel Libro dello Splendore, lo Sefer ha-zohar – prodotto nell’ambiente mistico del 1290 da Mosheh ben Shem Tov del Leon – il pane azzimo è pane celeste, simbolo di libertà e di virtù, che purifica e esalta.
Come è noto, è proibito il consumo della vacca, proprio perché è venerata come sacra in ambiente hindu: l’articolo 48 della Costituzione stabilisce che è proibito macellare vacche e vitelli e altri animali da latte e da tiro.
Alcune divinità del pantheon hindu sono associate a un toro (Shiva) o a una vacca (Krishna è guardiano di mucche). Inoltre, anche la figura materna è associata alla vacca; come la madre fornisce il latte per la sussistenza dei suoi figli, così la vacca produce alcuni elementi centrali per il rito, quali il latte e il burro con cui si cospargono templi e statue o lo sterco e l’urina, usati per la pulizia e la cura. L’insieme di simboli che tale animale contiene costruisce un confine invalicabile intorno all’animale stesso. Si potrebbe dire che tale animale è sacro, in quanto permette la comunicazione tra l’uomo e la divinità, in quanto i suoi frutti nutrono l’uomo ed il suo rapporto con il sacro.
La vacca in India segna anche un confine tra la comunità religiosa hindu e quella musulmana che invece può (o potrebbe) macellare e cibarsi di bovini. La forza simbolica investita sulla vacca è enorme ed è la conseguenza di un insieme definito di limitazioni concrete, frutto di una influenza reciproca tra religioni e abitudini alimentari. Nella formulazione più antica del sistema di credenza vedico non vi era il tabù che vietava di sacrificare le mucche e cibarsi della loro carne; ma a una fase dell’economia dominata dall’allevamento di mandrie bovine da parte di una popolazione di ridotte dimensioni, seguì un aumento della popolazione e la relativa scarsità di risorse alimentari disponibili da cui il divieto di consumare la carne della vacca [23].
Il maiale è tra gli animali maggiormente colpiti da tabù, poiché il divieto di assumere la sua carne unisce ebrei (Levitico XI, 12) e musulmani (Corano II, 173), così come essi sono accomunati dalla tecnica di macellazione che mira a fari fuoriuscire il sangue dell’animale di cui ci si ciba.
Numerose sono state le spiegazioni che hanno tentato di motivare questa proibizione, alcune tra le più note fanno riferimento alle carni troppo grasse dell’animale, alla sua presunta sporcizia, alla difficoltà di allevamento in certe condizioni climatiche, alla anti-economicità dell’allevamento dei maiali, molto più difficili da gestire rispetto ai bovini.
Mary Douglas ha sostenuto, relativamente al contesto ebraico, che poiché gli animali leciti sono costituiti da quelli che hanno lo zoccolo fesso e sono ruminanti, il fatto che il maiale non rientri in tale classificazione ne fa un ibrido, e perciò, in quanto non classificabile, un animale illecito. [24]
L’agnello è uno dei simboli di cui cibarsi maggiormente ricorrente nei tre monoteismi: il Pesach ebraico, la Pasqua cristiana e l’Id al-Adha, la festa del sacrificio hanno al centro dei loro piatti tipici la carne di agnello che in quanto animale sia simbolico sia sacro deve essere consumato.
Il vino, come si legge nel Liber Scalae Machometi (130-131) è proibito da Dio al profeta, messo alla prova dall’angelo Gabriele che gli pone di fronte quattro coppe, una di latte, una di miele al sapore di ambra, una di acqua e, infine, una di vino che il profeta rifiuta sdegnato e poiché egli lo ha rifiutato, Dio allontanerà da lui e dal suo popolo ogni stoltezza e lordura.
Nel Corano il vino è proibito agli uomini (II, 216; ma anche «O voi che credete, in verità il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare» in V, 90) ma occorre ricordare che in una sura (XLVII, 16) si legge che in Paradiso correranno fiumi di acqua chiara, latte fresco e vino delizioso.
Il vino segna un confine tra l’islam e le altre due religioni monoteiste: per gli ebrei è strumento di santificazione, associato alle festività religiose, simbolo dell’altare dove si celebra un atto di culto offerto verso la divinità. Il vino deve essere kasher, puro per essere consumato, mentre non sono ammessi i suoi derivati: aceto, super alcolici e neppure i succhi di uva. Sono ammesse, invece, bevande alcoliche che non derivano dall’uva fermentata, quali la birra, il whisky, il gin, il rum e altri. Per i cristiani il vino è il simbolo eucaristico insieme al pane, il sangue di Cristo, versato per la remissione dei peccati e la redenzione degli esseri umani.
Tutte le religioni considerano il cibo un dono di Dio. Questa certezza impone una risposta che non può essere un gesto qualsiasi, ma deve tradurre la consapevolezza che il mangiare non è solo frutto delle sue mani ma dono divino. Il ringraziamento a Dio spinge ogni fedele a un’azione di lode e benedizione per il cibo posto sulla tavola. La preghiera sul cibo è una prassi fondamentale nelle religioni orientali. In modo particolare l’induismo invita i fedeli a preparare il pasto secondo prasada (cucinato con devozione per Dio). Non solo: prima di consumare cibi e bevande essi ricordano il suo nome recitando formule di ringraziamento, dette puja.
Gli ebrei trovano in Dt. 8, 10 («Mangerai dunque e ti sazierai, e benedirai l’Eterno, il tuo Dio, a motivo del buon paese che t’avrà dato») un testo fondante che li spinge continuamente al ricordo che attraverso il cibo si giunge a Dio. Anche i cristiani possono ricavare dal Nuovo Testamento molti passi dove Gesù pregava prima di accostarsi al cibo: la moltiplicazione dei pani. «Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione» (Mc. 6, 41). Una consuetudine mantenuta dalla Chiesa primitiva: «spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio» (At. 2, 46–47). La preghiera di ringraziamento prima dei pasti è presente anche nell’islam: «Non cibatevi di ciò su cui non è stato invocato il nome di Dio, sarebbe cosa ingiusta, sicuramente» (sura VI, 121).
3. Il digiuno come incontro con il divino
Infine, vale la pena introdurre, se pur rapidamente, qualche riflessione sul fatto che ogni religione invita al digiuno. In quanto dono di Dio ogni cibo ed ogni bevanda sono sacri, positivi, buoni compresi quelli interdetti permanentemente. Chi si astiene e chi digiuna non lo fa contro Dio. Astinenza e digiuno sono strumenti, vie, occasioni per incontrare Dio. Come il consumo di cibo anche la rinuncia ad esso ha un valore sacrale e comunitario: è incontro con Dio nella comunione con i fratelli. Oltre alla condivisione di un pasto, ai fedeli è anche richiesto di rispettare insieme un tempo di digiuno, dove far emergere, anche fisicamente, la necessità di porre attenzione a Dio durante il vivere quotidiano.
Alcune religioni si prefiggono lo scopo di elevare l’uomo mostrandogli la superiorità di un mondo di rinuncia ai piacere terreni. In quest’ottica anche il digiuno diviene una modalità attraverso la quale incontrare il divino.
L’induismo colloca il rifiuto del cibo tra le prassi più importanti dell’agire del fedele. Nel calendario lunare induista si digiuna l’undicesimo giorno dopo la luna calante e l’undicesimo giorno dopo la luna crescente, nel corso di una ricorrenza chiamata Ekadasi (undicesimo giorno, in sanscrito).
Gli ebrei non solo conoscono numerose prescrizioni alimentari, ma seguendo l’invito biblico, digiunano in molte occasioni: il digiuno di Yom Kippur è il più conosciuto e il più praticato. Esso riveste una particolare importanza, in quanto traccia di questo giorno si trova direttamente nella Torah (Lv 16, 29–31; 23, 27–32; Nm. 29, 7).
Anche in ambito cattolico, seppure l’insegnamento biblico sia privo di divieti gastronomici, esiste l’invito a rinunciare in certi periodi al cibo. Si pensi ai quaranta giorni nel deserto nel famoso episodio che precede le tentazioni subite da Gesù. In assenza di tabù alimentari, tutta la normativa alimentare cristiana coincide con i tempi riservati all’astinenza e al digiuno. Essa prevede due giorni di digiuno (mercoledì delle ceneri e venerdì santo) e l’astensione dalle carni il venerdì di Quaresima, mentre i venerdì durante l’anno l’astinenza può essere sostituita da altre forme caritative o penitenziali.
La pratica del digiuno nell’Islam è molto nota: durante tutto il mese lunare di Ramadan, l’unico nominato esplicitamente nel Corano (sura II, 185) il fedele si astiene completamente da cibi solidi e liquidi dal sorgere del sole fino al suo tramonto. Ramadan pone il credente di fronte alle sue dipendenze fisiche e mentali. Esso vuole essere un periodo di rinnovata armonia pretesa da Allah, non un predominio dell’anima sul corpo, ma lo sforzo di raggiungere un equilibrio che non sia solo interiore.
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Note
[1] G. Filoramo, F. Pajer, Di che Dio sei?, Sei, Torino 2012.
[2] Mi permetto di rimandare a M. Giorda, A. Saggioro, La materia invisibile, Emi, Bologna 2011. Si veda anche N. Fiorita, Scuola pubblica e religioni, Libellula edizioni, Lecce 2012.
[3] Cfr. O. Marchisio, Religione come cibo e cibo come religione, FrancoAngeli, Milano 2004; F. Neresini, V. Rettore, Cibo, cultura e identità, Carocci, Roma 2008; M. Salani, A tavola con le religioni, EDB, Bologna 2007; A. Cipriani, Tradizioni alimentari e cultura, Gli Ori, Pistoia 2002.
[4] M. Harris, The Sacred Cow. Cultural Anthropology, Harper Collins College Publishers, New York 1995. Si veda anche R. Cipriani, L. M. Lombardi Satriani, Il cibo e il sacro, Armando editore, Roma 2013.
[5] K. Barth, I gruppi etnici e i loro confini, in V. Maher (a cura di), Questioni di eticità, Rosenberg & Sellier, Torino 1994, pp. 33 – 73.
[6] Cfr. M. Douglas, Purity and Danger. An analysis of conceptions of pollution and taboo, Routledge, London 1966.
[7] D. Usha Rani, M. V. Sudhakara Reddy, M. Sreedevamma, Nutrition and religion, Discovery Publishing House, Delhi 2003.
[8] A. G. Chizzoniti, M. Tallacchini (a cura di), Cibo e Religione: diritto e diritti, in «Quaderni del Dipartimento di scienze giuridiche», Università Cattolica del Sacro Cuore, 2010, Libellula Edizioni, Tricase (Le), p. 7.
[9] J. Sobal, M. K. Nelson, Commensal eating patterns: A community study, in «Appetite» 41 (2003), pp. 181–190.
[10] Cfr. C. Fisher, Commensality, society and culture, Social science Information, 50, 3-4 (2011), pp. 528-548.
[11] R. Sonnino, Quality food, public procurement, and sustainable development: the school meal revolution in Rome, in «Environment and Planning A» 41(2), (2009), pp. 425 – 440.
[12] K. J. Morgan, School food and the public domain: the politics of the public plate, in «The Political Quarterly», 77 (2006), pp. 379 – 387.
[13] L. B. DeLind, Of bodies, places, and culture: re-situating local food, in «Journal of Agricultural and Environmental Ethics» 19 (2006), pp. 121 – 146.
[14] A. G. Chizzoniti, M. Tallacchini (a cura di), Cibo e Religione: diritto e diritti, in «Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche», Università Cattolica del Sacro Cuore, Libellula Edizioni, Tricase (Le) 2010, p.7.
[15] Dt .12:21.
[16] Lv. 11:13-19 and Dt. 14:9.
[17] Es. 23:19; Es. 34:26; Dt. 14:21.
[18] http://www.meatami.com/ht/a/GetDocumentAction/i/82883, 05.12.2013.
[19] Ibidem.
[20] La scelta nutrizionale degli Avventisti è simile a quella fatta dai monaci Trappisti, anche se le motivazioni sono diverse. La carne era il cibo dei ricchi e quindi si pensò di condividere meglio la vita della gente ordinaria impostando la dieta su cibi semplici e non eccitanti.
[21] Così Arthur Waley, K. E. Neumann, and Mrs. Rhys David. Si veda D. N. Snyder, The Complete Book of Buddha’s list, Vipassana Foundation, Las Vegas, 2009. http://www.shabkar.org/download/pdf/Buddhism_and_Vegetarianism_Fiveteen_Questions_and_Answers.pdf, 05.12.2013.
[22] Cfr. R. F. Campany, Ingesting the marvellous, in N. Girardot, J. Miller, Liu Xiaogan (Eds.) Daoism and Ecology, Harvard University Press, Cambridge 2001.
[23] M. Harris, Buono da mangiare, Einaudi, Torino 1990.
[24] Cfr. M. Douglas, Purity and Danger. An analysis of conceptions of pollution and taboo, Routledge, London 1966.