Vent’anni fa, in un libro che resta ancora la cosa più controcorrente e più intelligente scritta sulla fine della cosiddetta prima Repubblica, Luciano Cafagna condensò la sua riflessione nella metafora della grande slavina: salutata, a differenza dalle slavine non metaforiche, dall’entusiasmo della grande maggioranza degli italiani, forse inconsapevole, forse no, che sotto quella massa di detriti rischiava di restare sepolto, assieme al vecchio sistema dei partiti, il “povero villaggio” della nostra democrazia.
Ho ripreso in mano in questi giorni il libro appassionato e amaro del nostro amico Luciano. Confesso di esserne rimasto impressionato anche più di quando lo lessi per la prima volta. Allora, correva l’anno 1993, lo trovai anzitutto un ottimo antidoto per tenere a bada il fastidio politico – ma prima ancora morale e intellettuale – che provocavano, a me e certo non solo a me, tante apologie stolide, e spesso ipocrite, della “rivoluzione italiana”. Adesso, vent’anni dopo, a colpirmi (e sono convinto che chiunque lo legga o lo rilegga oggi ne sarà colpito quanto me) è soprattutto la sua straordinaria attualità. Ed è inutile sottolineare che una simile impressione testimonia certo una volta di più della lucidità intellettuale dello storico Luciano Cafagna, ma dà anche pienamente ragione, e non c’è da esserne contenti, al suo altrettanto forte (verrebbe da dire connaturato) pessimismo. I motivi di fondo, antichi e meno antichi, della crisi che investì il nostro “povero villaggio” democratico all’inizio degli anni Novanta, così felicemente individuati da Cafagna, sono ancora lì, sostanzialmente intatti.
Le tre crisi – fiscale, morale e istituzionale – che combinate dettero origine alla grande slavina non solo non sono state avviate a soluzione, ma si sono, se possibile, ingigantite. Sicuramente alle nostre pene attuali concorre in modo determinante una crisi economica e finanziaria europea e mondiale dalle dimensioni inaudite e dagli esiti peggio che incerti. Ma la parte del problema, rilevantissima, che ci riguarda e ci chiama direttamente in causa, a cominciare dalle dimensioni paurose del nostro debito pubblico, ha origini antiche.
Quello che rischia di restare “anche se tutto quello che gli sta sopra viene spazzato via”, scriveva nel ’93 Cafagna, è uno Stato sociale “barocco”, nato dalla particolarissima versione che del deficit spending keynesiano aveva il centro-sinistra, quello vero con tanto di trattino, e poi alimentato a dismisura dalla consociazione tra maggioranza e opposizione. La cosiddetta rivoluzione di vent’anni fa fece della denuncia della consociazione e del consociativismo, rappresentati come il male assoluto, uno dei suoi principali cavalli di battaglia. E di certo, nel tempo del bipolarismo selvatico, di consociazione e di consociativismo c’è stata scarsissima traccia. Ma è altrettanto certo che, in questi vent’anni da quelle macerie non siamo riusciti a venir fuori, e altre ancora, anzi più pesanti, se ne sono aggiunte e minacciano di intrappolarci.
La cosiddetta seconda Repubblica muore malamente senza neppure aver visto la luce, cosicché è persino lecito rappresentarla come una lunga e penosa agonia della prima. Non deve essere un caso se tutto ciò si è fatto clamorosamente evidente agli occhi non solo degli analisti, dei commentatori, degli studiosi, ma della grande maggioranza degli italiani, quando l’Italia si è ritrovata sull’orlo di un baratro sul quale, peraltro, continuiamo a passeggiare. E’ il segno di un fallimento.
Quando scrisse La grande slavina Cafagna ovviamente questo non poteva saperlo. Colse però lucidamente, proprio lui che in piena sintonia con Giuliano Amato ha sempre considerato la partitocrazia un lascito del fascismo, quello che altri, moltissimi altri, si rifiutavano di vedere. E cioè che il “distruzionismo”, la cultura della vendetta, non serve a ricostruire. Per il semplice motivo che, cito, “strappandosi furiosamente l’abito vecchio senza averne uno nuovo si resta nudi in mezzo a una strada”.
Allora, a far passare in secondo piano, e anzi a rimuovere questa evidenza contribuì, così la chiamava Luciano, una sorta di collettiva “ilarità degli abissi”, quella che coglie il subacqueo quando resta a corto di ossigeno. Oggi, a guardare la società italiana, di ilarità, seppure degli abissi, non se ne vede proprio. Quella che c’era la abbiamo spesa tutta nelle contese fracassone e anche feroci, ma sostanzialmente improduttive, di questi ultimi vent’anni: anni in cui, mentre tutti o quasi hanno fatto a gara nel dichiararsi più riformisti degli altri, del riformismo si è quasi smarrita la traccia, sul piano economico e sociale così come su quello istituzionale. Non è questo il caso di Luciano Cafagna, che è stato un riformista vero: se mi si passa il termine, militante. Il suo riformismo lo ha posto agli antipodi di un massimalismo sempre risorgente, che, diceva,”producendo inflazione, riduzione di competitività, montagne di debito pubblico, riesce solo a impedire alle sinistre”, quando governano, “di continuare a governare”.
La forza del suo riformismo (anche se poteva trattarsi, e a lungo nella sinistra italiana si trattò, della forza delle Cassandre) stava anzitutto nel fatto che era identificabile sulla base di coordinate chiare. C’era una stella polare cui riferirsi. “Il riformismo reale del nostro tempo”, sosteneva riandando criticamente all’esperienza del centro-sinistra degli anni Settanta, è, “per quanto riguarda l’economia, quello che riesce ad associare efficacemente il Welfare State e la politica dei redditi”. Non so quanti tra noi, in una situazione tanto cambiata, e in peggio, si riconoscerebbe ancora in un simile paradigma (così come, su terreni diversi, in altri analoghi). Io stesso temo che queste di Cafagna siano parole che hanno un senso soprattutto per i nostri ieri. Penso però (e anche di questo dobbiamo essere grati a Luciano che non ha mai smesso di pensarlo) che se non si riparte da qui difficilmente la sinistra potrà uscire dalla tenaglia mortale tra massimalismo e subalternità politica e culturale in cui da un pezzo si è andata a cacciare. A Cafagna, lo so, la parola: utopia non piaceva nemmeno un po’. Ma, se c’è un’utopia riformista, sta tutta qui.
L’ilarità degli abissi
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