Questo articolo è una risposta a quello di Claus Leggewie sulla necessità per l’Europa di una politica mediterranea.
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È possibile immaginare una politica europea che abbia un orizzonte internazionale? O, detto in altri termini, è possibile una politica estera europea in assenza di una guida politica e di una politica sovranazionali? E, in questa direzione, che ruolo possono giocare i diversi Sud d’Europa, ivi incluso il Mezzogiorno italiano?
Le questioni poste da Leggewie sono tutte di grande rilievo: comunità energetica euroafricana; gestione intelligente dei flussi migratori dalle sponde del Mediterraneo; turismo sostenibile fondato sulla tutela e valorizzazione del mare; unificazione europea solida ma articolata su una costellazione di unioni federative regionali. Sono temi il cui valore, al di là della specificità dei contenuti, risiede nell’approccio tutto proiettato, di fatto, nella prospettiva degli Stati uniti d’Europa. Vedendo in questa prospettiva non tanto la costruzione difensiva di un bastione contro i pericoli della globalizzazione, i rischi della speculazione finanziaria, le minacce del fondamentalismo. Ma, al contrario, un rinnovato slancio propositivo del Vecchio Continente che ne valorizzi la solidità economica di fondo e, insieme, i tratti di una tradizione culturale che, pur con mille contraddizioni, ha i suoi punti di forza nell’esercizio della democrazia, nei sistemi di welfare, nella radicata domanda di pace e ora anche di sostenibilità nel mondo.
La mia opinione è questa debba essere la strada maestra, la stella polare, da seguire. Lo dico da cittadino europeo, da cittadino italiano, da cittadino di un’area meno sviluppata d’Europa e d’Italia. Le motivazioni di questo mio convincimento sono molteplici.
Da un punto di vista economico, l’attenzione alle regioni e ai paesi che non raggiungono il livello medio di reddito pro capite europeo o che presentano criticità in termini di debito, deficit, occupazione non risponde solo a una scelta di ordine morale ma a una esigenza concreta. Le regioni più ricche dell’Unione, nonostante la lunga crisi internazionale, non sono in grado di definire obiettivi di sviluppo che possano cambiare il quadro d’insieme. Solo il recupero di chi è indietro può ridare vigore ai numeri del sistema produttivo europeo.
Anche perché, con buona pace degli sfascisti dell’Europa e dell’euro, la verità vera è che tutti i principali paesi europei esportano in larghissima misura al’interno del perimetro dell’UE. E dunque le sorti degli stati nazionali o delle realtà regionali sono assolutamente solidali nel bene come nel male. Ed è esattamente sulla medesima lunghezza d’onda che si pone il tema della proiezione internazionale.
È interesse di tutta Europa e non di singoli paesi membri o parti di essi avere una proiezione politica e economica al di là del Mediterraneo nel rispetto delle parole d’ordine di Europa 2020: sostenibilità, inclusività, solidarietà. Parole d’ordine prive di senso se applicate allo stretto perimetro dell’Unione. Slogan vuoti se non si misurano con i problemi e le potenzialità dei Sud vicini e meno vicini.
Analogamente, è questa la visuale nella quale inquadrare le questioni essenziali dei movimenti demografici da sud e da est e della sicurezza internazionale. Non vedo soluzioni che non passino per un forte e condiviso orientamento europeo e per un approccio pragmaticamente visionario. Un approccio che, pur à consapevole delle enormi difficoltà del momento, si sforzi di allungare lo sguardo a un futuro non troppo lontano.
Cosa osta allora a prendere la via nelle direzioni indicate da Leggewie? In fondo, le argomentazioni sembrano essere di una cristallina razionalità, che dovrebbe alimentare quanto meno gli orientamenti europei. Purtroppo le cose stanno in termini profondamente diversi. Gli Stati Uniti d’Europa non sono, ancora oggi, una prospettiva concreta.
Potrei a questo punto fare un po’ di esercizio di pragmatismo economico e misurare quanto su ciò incidano interessi economici e finanziari che lucrano sulla debolezza degli stati nazionali. Oppure giocare alla geopolitica e interrogarmi quanto pesino gli interessi del nuovo sistema delle superpotenze, Usa e Cina in testa. La mia opinione è che questi fattori siano enormemente condizionanti. Ma che la questione essenziale stia nella qualità della vita politica e del dibattito pubblico europeo.
A mio avviso, la persistente debolezza degli organi di governo europei e la crescente offensiva delle componenti nazionali e subnazionali rivelano due problemi fondamentali: Commissione e Parlamento europeo hanno una relazione molto debole e molto burocratica con le diverse realtà nazionali; i governi nazionali sono influenzati, per non dire guidati, dalle esigenze di riproduzione del consenso e dalle scadenze elettorali.
I cittadini europei vedono nell’Europa i vincoli delle direttive e del fiscal compact, non la chiave del proprio futuro. A mala pena sanno, sappiamo, come i propri rappresentanti a Bruxelles e Strasburgo siano iscritti nella geografia politica sovranazionale. Il deficit è, insomma, politico. Dove per politica intendo la proposta di partiti in grado di mediare e interpretare le esigenze dei propri elettori, ma anche di incanalarle in una visione del mondo che non può più nutrirsi delle contrapposizioni la cui icona, sino al 1989, è stato il Muro di Berlino.
Da questo punto di vista, la scena politica italiana è di una povertà assoluta. Anche i regionalismi coltivano il sogno dei privilegi di una vita separata in isole felici, non il desiderio di disegni più grandi. Ma, a dire il vero, non vedo molto di meglio negli altri grandi paesi europei. L’arretramento rispetto alle visioni dei padri fondatori dell’Unione europea è evidente. Non è un demerito attribuibile solo al ceto politico. Molto dipende dalle paure e dalle fragilità delle diverse opinioni pubbliche, in assenza di un’opinione pubblica europea. Dobbiamo ripartire dalla costruzione dell’intelaiatura della vita politica nazionale e sovranazionale. A questo serve, mi sembra, la riflessione di Leggewie della quale – questo il punto – posso non condividere alcuni assunti di merito ma sottoscrivo appieno l’impostazione. Impostazione necessaria prima ancora che giusta.
Alessandro Laterza è amministratore delegato della Casa editrice Laterza e vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno