L’articolo fa riferimento al discorso di Mohammad Khatami ex presidente dell’Iran letto durante gli Istanbul Seminars 2012 organizzati da ResetDoc.
Credo che il presidente Khatami – userò questo appellativo, seguendo l’esempio di Jahanbegloo – abbia toccato il nodo cruciale del dialogo di civiltà. Uno degli effetti indesiderati della tesi dello scontro di civiltà sostenuta da Huntington è stato probabilmente quello di stimolare, a mo’ di contrappunto, la ricerca di spazi di dialogo. Lo dimostrano non solo le attività di ResetDoc, ma anche la politica dello stesso Khatami, l’Alleanza delle civiltà di Erdogan e Zapatero e moltissime altre iniziative e conferenze.
Detto questo, è importante chiedersi quale dovrebbe essere l’oggetto del dialogo. Credo che esso debba avere innanzi tutto un’agenda: senza un impegno in tal senso, si rischia di perdersi nelle buone intenzioni. E che non debba essere circoscritto alle tre religioni monoteiste. I fedeli di queste ultime possono convenire che sono tutti figli di Abramo, ma il mondo è ben più vasto. Come ha spiegato Adam Seligman, professore di Studi religiosi, se a quel gruppo si aggiungono i buddisti, la tradizione religiosa si riduce giocoforza alla comune convinzione che dobbiamo aspirare al bene e comportarci in modo eticamente corretto: un argomento molto debole. Il dialogo, dunque, deve avere una qualche finalità.
Il secondo punto è che, nel definire lo scopo del dialogo, non bisogna lasciarsi sedurre dalle sirene del pensiero utopistico, bensì esplorare le frontiere del possibile e usare il metodo della ragione pubblica per individuare aree di consenso laddove il conflitto sembra prevalere, estendendole il più possibile.
Credo inoltre che sia necessario andare oltre questa sorta di enunciato meta-dialogico per cui il dialogo deve avere delle finalità. A tal proposito, il messaggio del presidente Khatami racchiude una considerazione molto importante. La democrazia è diventata un orizzonte di speranza per le popolazioni soggette a regime autoritari, ma al tempo stesso fa sorgere il sospetto che si tratti di una parola vuota. Più d’uno ha sostenuto che essa sia usata dai potenti come un cavallo di Troia, tramutandosi in uno strumento ideologico (come il libero mercato all’epoca della Guerra Fredda) o in una soluzione di facciata con cui regimi poco presentabili cercano di ottenere legittimità internazionale e attrarre nuovi investimenti. La vera essenza della democrazia e il suo rapporto con il processo elettorale sono diventati oggetto di critica e di riflessione da entrambe le parti. Basti citare il saggio diLarbi Sadiki sulle elezioni senza democrazia con riferimento all’Egitto o, in Occidente, l’analisi di Jane Mansbridge e le riflessioni di altri politologi sulla rappresentanza non elettorale (quella di John Dryzek sulla democrazia discorsiva, per esempio).
A mio giudizio, dunque, per cogliere l’essenza della democrazia occorre considerare una certa caratteristica dell’ethos o della cultura morale condivisa dai cittadini che permea le istituzioni di una società democratica. Il problema è che questo ethos democratico è stato concepito sempre e solo in chiave occidentale, e agli occhi di molti la democratizzazione è ormai sinonimo di occidentalizzazione. Il che pone un grosso ostacolo sulla via del dialogo tra civiltà.
Secondo il presidente Khatami, l’Occidente dovrebbe riconoscere che l’affermazione della democrazia non richiede necessariamente l’adozione del modello occidentale. E questo è un punto fondamentale, perché anche il colonialismo ha una sua dimensione culturale, che si traduce nell’aspettativa di standard e modelli in base ai quali gli altri vengono giudicati. Solo avviando una profonda riflessione su questi temi si potrà evitare di alimentare l’idea di uno scontro, per cui chi intende tener fede alla propria tradizione culturale deve diffidare della democrazia, mentre chi difende quest’ultima si arrende in qualche modo al modello dominante dell’Occidente.
A mio parere, dunque, il punto principale all’ordine del giorno del dialogo di civiltà è la pluralità e la pari legittimità dei percorsi che possono condurre a una società decente, ancorché non democratica. Per «società decente» intendo una società in cui il potere è soggetto a forme di controllo e i diritti umani vengono rispettati. Come si può passare da una situazione del genere a una società pienamente democratica ma non occidentalizzata?
Si è accennato alla contrapposizione tra democrazia liberale e non liberale, ma credo che occorra fare un passo avanti, perché inquadrare la questione in quei termini significa restare legati alla concezione democratica occidentale. Così come si parla di «modernità multiple», un concetto che da più di un decennio è al centro di importanti ricerche, si dovrebbe parlare di «democrazie multiple».
In questo senso, la dichiarazione del presidente Khatami racchiude un messaggio molto importante: l’idea di cercare di aree di convergenza. L’ethos democratico è sicuramente caratterizzato dalla dedizione al bene comune come finalità di chi governa, dall’idea del consenso come fondamento della legittimità e da una nozione del valore dell’individuo che non coincide necessariamente con quella occidentale ma, ispirandosi al concetto di «persona», può essere molto più ampia e inclusiva e risentire dell’influenza di culture politiche vicine al buddismo, al confucianesimo e all’Islam.
L’ideale del bene comune, così come quello del pluralismo, è largamente condiviso da molte altre tradizioni, a partire da quella islamica. Ali İhsan Yitik ha dimostrato che il principio dell’extra eclessiam nulla salus non è mai stato contemplato nell’Islam e il defunto Nasr Hamid Abu Zayd ha scritto: «Non c’è un solo verso del Corano che sancisca una punizione terrena o la condanna per apostasia. La libertà di religione intesa come immunità dalla coercizione è ampiamente riconosciuta anche dagli ulema tradizionali». È quindi ravvisabile una convergenza sull’idea del pluralismo, che è sicuramente un elemento cruciale dell’ethos democratico, così come sul criterio della deliberazione collegiale regolata dal principio del consenso e sul valore dell’uguaglianza dei cittadini, come ha spiegato Khaled Abou El Fadl.
Ma il nodo cruciale è un altro: l’area di divergenza. A questo proposito, vorrei soffermarmi su due aspetti che costituiscono un ingrediente fondamentale dell’ethos democratico dell’Occidente, ma risultano ancora difficili da accettare nelle società non occidentali: l’idea della priorità dei diritti rispetto ai doveri da un lato, e il valore del libero confronto nella sfera pubblica (il fatto cioè che il conflitto sia produttivo e in qualche modo positivo) dall’altro. In altre culture politiche, infatti, i diritti e i programmi assistenziali sono in qualche modo visti come misure riparative o retributive: solo nel caso di un abuso si ha il diritto di ripristinare la situazione precedente.
Ciò di cui è veramente difficile trovare un equivalente, tuttavia, è l’idea che esistano diritti a prescindere da qualsiasi altra considerazione, e che ci si possa confrontare apertamente con altri individui o con l’intera comunità politica. I diritti sono baluardi che servono a limitare il potere, ma tale esigenza può essere soddisfatta anche in altri modi. Le posizioni critiche nei confronti dell’idea della priorità dei diritti rispetto ai doveri sono fortemente radicate anche nelle società occidentali, per cui da questo punto di vista non c’è uno scontro tra Oriente e Occidente.
Mi sia consentito di ricordare che, nei suoi saggi di sociologia della religione, Weber ripercorre l’ascesa dell’etica protestante illustrando come l’idea della priorità dei diritti sia faticosamente scaturita dalla concezione cattolica della fratellanza, nella quale il concetto di «dovere» aveva senz’altro un valore fortemente normativo, ma la nozione di «diritto» risultava totalmente assente, e che si rifaceva al principio di solidarietà (il dovere di prestare assistenza, cioè, non si traduceva in un diritto). Si pensi al repubblicanesimo civico, una cultura politica di ispirazione laica che, sebbene ponesse l’accento sulla virtù, non riconosceva i diritti in quanto tali; a teorici dell’utilitarismo come Jeremy Bentham, noto per aver definito i diritti una «sciocchezza sui trampoli»; o a importanti correnti della teoria femminista che contrappongono l’etica dei diritti all’etica della cura (Carol Gilligan). Questa tradizione critica, dunque, è ravvisabile anche in Occidente.
Lo scopo del dialogo dovrebbe essere la definizione di modelli ideali di cultura democratica parimenti legittimi e non necessariamente incentrati su quei due elementi controversi (la priorità dei diritti rispetto ai doveri e l’enfasi sul conflitto). In base alla mia esperienza di cittadino italiano cresciuto negli anni del predominio della Democrazia cristiana, posso dire che quel partito sicuramente riconosceva l’importanza dell’idea della priorità dei diritti, ma nutriva una profonda avversione nei confronti di qualsiasi forma di conflitto o rivalità sociale. E questa è una variante della cultura e dell’ethos democratici probabilmente più diffusa in società influenzate da diverse tradizioni religiose. In ultima analisi, il dialogo deve (o dovrebbe) vertere sulle molteplici vie d’accesso a una nozione differenziata dell’ethos democratico.
(Traduzione di Enrico Del Sero)