L’articolo fa riferimento al discorso di Mohammad Khatami ex presidente dell’Iran letto durante gli Istanbul Seminars 2012 organizzati da ResetDoc.
Il primo elemento positivo da rilevare in questo messaggio riguarda il non detto. Esso non si sofferma – e un cambiamento in questo senso era necessario da tempo – sulla famosa teoria di Huntington sullo scontro di civiltà, il cui debole impianto è stato smentito dai fatti. Lo scontro non è inevitabile e, come sostiene il presidente Khatami, il dialogo è possibile e necessario.
Ma non voglio tanto perorare la causa del dialogo, quanto mettere in luce le insidie che esso comporta, prima tra tutte la paura. Paura di quel che viene percepito non solo come diverso, ma anche come una minaccia (o, per meglio dire, come una minaccia perché diverso). Da questo punto di vista l’ignoranza è dilagante e la conoscenza reciproca può essere di grande aiuto, anche se non da sola non è sufficiente.
E oggi dobbiamo fare i conti con un nuovo ostacolo al dialogo che, paradossalmente, coincide con la globalizzazione. Dico «paradossalmente» perché, a prima vista, la globalizzazione dovrebbe promuovere i contatti, favorire la conoscenza reciproca e facilitare il dialogo, mentre la sensazione diffusa – e non senza ragione – è che essa comporti una perdita di controllo sulle nostre vite. Le decisioni che ci riguardano vengono prese altrove e le istituzioni democratiche sorte all’interno delle comunità locali o dello Stato nazione hanno difficoltà a proiettarsi a livello globale. La democrazia globale è un’aspirazione, non un dato di fatto.
Di qui il ritorno della questione dell’identità; un’identità che spesso assume un carattere ideologico perché considerata esclusiva, singolare e antagonista rispetto a tutte le altre. Così, ci si dimentica che essa è frutto – storicamente e antropologicamente – di un continuo scambio e dialogo con l’altro. E che gli esseri umani sono necessariamente definiti, come hanno sottolineato Amin Maalouf e Amartya Sen, da una pluralità di identità. Il fatto è che la paura degli spazi aperti della globalizzazione viene sfruttata sul piano politico da demagoghi che abilmente fomentano le ostilità e agitano lo spettro della diversità – sia essa culturale, religiosa o razziale –, descrivendo l’immigrazione come un’invasione.
Tutto ciò è ulteriormente amplificato dall’attuale crisi economica, che offre ai populisti reazionari l’occasione di rappresentare i problemi politici ed economici in termini di giochi a somma zero. Lo spazio per la solidarietà si restringe, il rischio di violenze aumenta e tutti coloro che credono nella necessità e nella possibilità del dialogo devono raddoppiare gli sforzi.
Primo, come suggerisce giustamente il presidente Khatami, occorre un serio impegno sul piano culturale per promuovere la conoscenza reciproca andando oltre i vincoli del multiculturalismo e dell’assimilazione, con un approccio autenticamente multiculturale e cosmopolita.
Secondo, bisogna fare i conti con le condizioni materiali, ossia il peggioramento della situazione socioeconomica e la perdita di potere politico, che rendono difficile il dialogo e alimentano le divisioni identitarie. La crescente disuguaglianza che caratterizza la nostra epoca non favorisce in alcun modo il dialogo.
Terzo, se è vero che, sul piano internazionale, il dialogo porta alla pace, non bisogna dimenticare che è vero anche il contrario, nel senso che senza la pace il dialogo rischia di diventare una pia illusione.
In conclusione, la promozione del dialogo è un’evidente priorità umana, ma comporta anche una serie di difficoltà. Filosofi e autorità religiose, ma anche economisti, politici e persino diplomatici, hanno davanti a sé un lavoro enorme.
(Traduzione di Enrico Del Sero)