Articolo pubblicato su La Stampa dell’11 gennaio 2015
Si è quasi esitanti a cercare di riflettere sui tragici eventi di Parigi quando sembrerebbe invece giusto limitarsi a respingere categoricamente una disumana barbarie. E invece proprio adesso è necessario cercare di ragionare. Perché se c’è una finalità che accomuna i terroristi di tutte le cause, politiche o religiose che siano, è quella di produrre reazioni emotive e violente al termine delle quali non vi sarà più distinzione fra loro e le società da loro prese come bersaglio. Vorremmo poter dire che questo non succederà, che – come i dirigenti della Francia e non solo ripetono come un mantra – la democrazia manterrà i nervi saldi, non si farà assimilare agli intolleranti e ai violenti. Oggi però in Europa sentiamo parlare di misure che non sono anti-terroriste ma piuttosto anti-musulmane e anti-immigrati, di espulsioni in massa e persino di ristabilimento della pena di morte.
Ma non si tratta solo del pericolo di una deriva autoritaria ed intollerante. Quello che è accaduto a Parigi ci obbliga anche a riflettere su alcuni aspetti della nostra società. In primo luogo la libertà di stampa e delle sue possibili contraddizioni con il rispetto di quello che dai credenti è considerato sacro ed intoccabile. Qui sembra subito importante fare chiarezza su una distinzione irrinunciabile. Possiamo criticare come politicamente irresponsabile, moralmente ambiguo e anche esteticamente volgare la satira e la critica ad una fede religiosa, ma non tutto quello che è inopportuno o criticabile dovrebbe essere considerato proibito o illegale. Il limite giuridico può essere solo quello del codice penale (ingiuria, diffamazione) – una tutela, va aggiunto, che non si deve riferire solo alla religione ma deve proteggere ogni tipo di valore individuale o di gruppo. Un’etica della responsabilità dovrebbe poi imporre a tutti di vagliare i propri comportamenti alla luce delle loro prevedibili conseguenze. Sarebbe comunque devastante per una convivenza basata sulla libertà e il dialogo concedere a ciascuno il diritto di definire quello che costituisce un’offesa intollerabile.
Recentemente, in Iran, alcune donne sono state attaccate con l’acido da chi, musulmano tradizionalista, si riteneva offeso dal fatto che camminavano per la strada con un abbigliamento “poco ortodosso”. In India un grande artista musulmano, M.F. Husain, è morto in esilio dopo che aveva dovuto abbandonare il Paese a seguito delle minacce di morte di induisti radicali che ritenevano offensivo il suo modo di rappresentare le divinità femminili indù, mentre il libro di una eminente indologa americana, Wendy Doniger, è stato ritirato dalle librerie dall’editore, Penguin India, spaventato per le minacce di chi lo considerava offensivo per la religione. Come si vede, il problema non è solo l’Islam, anche se è l’Islam a costituirne oggi l’aspetto più drammaticamente attuale.
A questo proposito va detto che, nel momento in cui respingiamo l’islamofobia e l’attacco a un’intera comunità religiosa, arbitrariamente inclusa nella categoria della violenza terrorista, non possiamo non auspicare che dall’interno stesso di quella comunità vengano non solo condanne non ambigue della violenza, ma anche una riflessione autocritica alla quale purtroppo viene spesso sostituita la denuncia delle responsabilità altrui, quando non allucinate teorie cospirative.
Le responsabilità dell’Occidente sono pesanti e innegabili: prima il colonialismo, con l’umiliazione di una grande civiltà; poi il prolungato appoggio a dittatori seguito più recentemente da interventi militari che non hanno solo rovesciato i tiranni, ma hanno smantellato gli Stati che si pretendeva di liberare generando anarchia e frammentazione politico-territoriale; l’integrazione solo apparente di comunità di vecchia e nuova immigrazione in realtà discriminate e ghettizzate economicamente e socialmente. Questo dovremmo riconoscerlo noi, come primo passo nella ricerca di una politica più rispettosa, più solidale e soprattutto più sensata.
Ma il compito spetta anche agli islamici. Vi è chi ritiene oggi inaccettabile pretendere da chi non ha alcun rapporto con i violenti una presa di distanza dalle loro azioni. Eppure è importante ed è necessario, come lo fu la condanna, e non solo la presa di distanza, dei comunisti italiani rispetto alle Brigate rosse, destinate ad essere sconfitte dal momento in cui nel Pci si smise di considerarli “compagni che sbagliano”. Questo negli stessi anni in cui nel partito giungeva alla sua piena maturazione una profonda riflessione autocritica su rivoluzione e modello sovietico. Lo ha scritto in questi giorni un filosofo, Abdennour Bidar che, in una “lettera aperta al mondo musulmano” pubblicata su Huffington post (e qui), ha denunciato “il rifiuto di riconoscere che questo mostro è nato da te” e ha lanciato un appello angosciato e coraggioso, formulato con parole che, se usate da un non-musulmano, verrebbero certamente tacciate di “islamofobia”: “Ecco quali sono le tue malattie croniche: incapacità di costruire democrazie durevoli in cui la libertà di coscienza rispetto ai dogmi della religione venga riconosciuta come diritto morale e politico; difficoltà cronica a migliorare la condizione femminile in direzione dell’uguaglianza, della responsabilità e della libertà; incapacità di separare sufficientemente il potere politico dal controllo dell’autorità religiosa; incapacità di instaurare il rispetto, la tolleranza e un effettivo riconoscimento del pluralismo religioso e delle minoranze religiose”.
Se vogliamo spezzare una spirale che minaccia di travolgerci tutti e ridurci tutti a un più basso livello di umanità e di civiltà, ci sarà molto lavoro da fare. Per noi e per loro. Ma ciascuno dovrà avere il coraggio di partire dal riconoscimento delle proprie colpe, delle proprie responsabilità. Solo così potremo costruire una convivenza in cui sarà finalmente possibile, pure nel rispetto di tutte le differenze, religiose e non, abolire la stessa contrapposizione fra “noi” e “loro”.