La forma di realismo a mio avviso più convincente si esprime nei termini di una combinazione tra l’idea kantiana dell’«idealismo trascendentale» (ma senza alcun richiamo al Ding an sich, alla «cosa in sé») e un particolare tipo di «pragmatismo», che può esser fatto risalire a un fondamentale saggio di Charles Sanders Peirce intitolato «Il fissarsi della credenza».
Avendo un’ispirazione kantiana, il realismo in questione rinuncia a quello che Hilary Putnam chiama «realismo metafisico», o a quello che in un’epoca precedente sarebbe stato probabilmente chiamato «realismo trascendentale». E avendo un’ispirazione pragmatista, esso rinuncia al fallibilismo dell’epistemologia cartesiana.
Prendiamo anzitutto in considerazione il versante pragmatista.
Nella prospettiva dell’epistemologia pragmatista, ciò che è irrilevante per la pratica di ricerca cognitiva lo è anche per l’epistemologia. Il dubbio fallibilistico dello scetticismo cartesiano è irrilevante ai fini della ricerca e, di conseguenza, non ha alcun valore epistemologico.
Prendiamo lo scetticismo cartesiano sul mondo esterno. In tale prospettiva, tutte le nostre credenze relative al mondo esterno possono essere false, e non potremo mai essere certi della verità di alcuna di esse. Si tratta di due tesi distinte, giacché la seconda non implica la prima. Ed è alla seconda tesi che si oppone il pragmatismo. Il presupposto di tale obiezione è che se non potremo mai sapere che una data credenza sul mondo è vera, allora la verità non può essere un obiettivo della nostra ricerca. Non avrebbe senso affermare che la verità è un obiettivo della nostra ricerca, infatti, se in nessuna circostanza possiamo essere certi di averlo raggiunto. In tal caso, la nostra ricerca sarebbe come un messaggio infilato in una bottiglia che viene poi gettata in mare. Che genere di impresa epistemologica è mai questa? Non potremmo mai avere alcun controllo sulla sua riuscita, e ogni successo ci sembrerebbe una gratifica inaspettata o un colpo di fortuna.
Per fare chiarezza su questo punto si può prendere in considerazione il «paradosso della prefazione». Capita spesso che un autore scriva: «Nelle prossime quattrocento pagine ci sarà sicuramente qualche mia affermazione falsa» (per poi generalmente aggiungere: «Ogni responsabilità è mia e non di quanti mi hanno gentilmente aiutato nella stesura del libro»). Un dubbio generale di questo tipo, tuttavia, è del tutto irrilevante ai fini del lavoro del nostro autore. Esso non indica che una determinata affermazione all’interno del suo libro è falsa: si limita a segnalare che «qualche affermazione» potrebbe esserlo. Un dubbio del genere, dunque, non fornisce alcuna indicazione su come il libro potrebbe essere migliorato. Lo stesso vale per il dubbio cartesiano. Se penso che tutte le mie credenze possano essere false, ma non ho motivo di dubitare di alcuna di esse in particolare, non c’è ragione di rimetterle in discussione, né di cercare di migliorare lo stato della mia ricerca sul mondo.
La verità è dunque qualcosa che, una volta raggiunto, non può renderci inconsapevoli rispetto al fatto stesso di averlo raggiunto. È possibile sapere quando abbiamo raggiunto la verità. Ciò non significa, tuttavia, che non possiamo rivedere le nostre credenze. Possiamo certamente rivedere le credenze, anche quelle che al momento sosteniamo con convinzione. Ma l’idea di poter rivedere una data credenza sostenuta con convinzione è cosa diversa dal dire: «La mia credenza che p è vera, ma per quanto ne so potrebbe essere falsa», o «So che p, ma per quanto ne so, p è falsa». Si tratta di una distinzione sottolineata con enfasi nel saggio di Peirce, oltre che successivamente da filosofi come Wittgenstein e Austin.
Che tipo di relazione sussiste tra questo pragmatismo e la nozione kantiana di «idealismo trascendentale»? Se il pragmatismo è nel giusto, la parola «credenza» può avere due significati diversi ai fini della nostra ricerca. Da un lato ci sono le credenze sostenute con convinzione e certezza, dall’altro le credenze assunte come ipotesi. Nell’ambito della ricerca, le prime costituiscono lo sfondo mentre le seconde sono in primo piano. E quando verifichiamo le credenze-ipotesi, diamo per scontato che la verità delle credenze di sfondo sia indubitabile, perché è alla luce delle seconde che valutiamo le prime. Esse non sono dunque soggette al dubbio filosofico e fallibilistico. E ciò significa che quando determiniamo le condizioni per cui una qualsiasi affermazione è vera o falsa, lo facciamo sempre alla luce delle nostre credenze di sfondo.
Kant aveva affermato che la realtà è, in un certo senso, non del tutto indipendente dalla nostra visione del mondo. Quella che ho appena esposto è la rielaborazione pragmatista dell’idea kantiana. Nell’orizzonte di ricerca pragmatista, le nostre credenze consolidate, quelle sostenute con convinzione, forniscono i criteri valutativi di sfondo, ossia la visione del mondo a partire dalla quale, nel corso della ricerca, possiamo valutare ipotesi in primo piano o specificare le condizioni in cui una particolare affermazione è vera. In altre parole, il connubio di pragmatismo e idealismo trascendentale può produrre un sano realismo.
Qualcuno potrebbe obiettare che tale nozione di realismo non renda la verità abbastanza indipendente dalla credenza. Ebbene, io penso che il realismo richieda questa forma di indipendenza solo in un senso: quello per cui una credenza è vera anche se noi non la crediamo tale. Ma il realismo che ho formulato in termini di pragmatismo e idealismo trascendentale prevede questa condizione. Supponiamo di credere che p sia vera, ossia che rispetti gli standard di correttezza forniti dalle nostre credenze di sfondo. Ma questi standard sono tali per cui sappiamo anche che, se dovessimo attestare la verità di qualcosa senza tenerne conto, commetteremmo un errore.
Così, nell’ipotesi in cui giudicassimo che non-p è vera, dovremmo concludere che quel giudizio è sbagliato. In altre parole, p è vera sia nel caso in cui lo crediamo sia in quello in cui non lo crediamo, ovvero crediamo nella sua negazione. Non occorre altro per stabilire l’indipendenza dalla credenza di cui la verità ha bisogno per essere oggettiva.
Akeel Bilgrami è professore presso il dipartimento di Filosofia della Columbia University e membro del Comitato per il Pensiero Globale della stessa università. I suoi studi vanno dalla filosofia della mente e del linguaggio a quella politica e morale. Tra i suoi scritti: “Belief and Meaning” (1992), “Self-knowledge and resentment” (2006) e “Politics and the moral psychology of identity” (in uscita).
(Traduzione di Enrico Del Sero)