Un Abu Mazen emozionato, accolto da applausi e salutato da una standing ovation; abbracci e alcune sciarpe con i colori della Palestina al collo. E ancora, la richiesta di un “certificato di nascita”, che porterà la data del 29 novembre 2012. Il 29 novembre è per i palestinesi ancora una volta una data storica e, ancora una volta, è la sala dell’Assemblea Generale dell’Onu a fare da location. 138 i sì, 9 i no e 41 gli astenuti: da ieri, all’interno delle Nazioni Unite, l’Anp viene chiamata “Stato Palestinese”. Uno “Stato osservatore non-membro”, uno Stato ancora incompiuto anche secondo le regole dell’organismo internazionale, ma pur sempre uno Stato.
Sono passati sessantacinque anni da quando, il 29 novembre del 1947, l’Assemblea generale dell’Onu con la risoluzione 181 aveva approvato il Piano di partizione della Palestina in uno stato arabo e uno ebraico, con la città di Gerusalemme internazionalizzata. Nel libro dei simboli questa data, dunque, non è scelta a caso e rappresenta una tentativo di nemesi che si compie dopo che un anno fa (nel settembre 2011), lo stesso Abu Mazen aveva presentato la domanda per l’adesione della Palestina come membro a tutti gli effetti.
Quanto accaduto ieri nel Palazzo di Vetro è certamente meno delle aspirazioni iniziali e non avrà il potere di mutare la situazione sul terreno, di cancellare insediamenti, muri, check point e di riunire Striscia di Gaza e Cisgiordania, ma è un passo avanti che reca con sé una serie di conseguenze politiche di non poco conto perché un’Entità, ciò che finora è stata l’Autorità nazionale palestinese, vale meno di uno “Stato”, “non membro” e “osservatore”; ciò che è ora la Palestina.
Immagini di giubilo nei Territori Occupati, a solo una settimana dalla fine di Pillar of Defense, hanno accompagnato tutta l’attesa per il voto a New York, fino all’esplosione di gioia. La piazza centrale di Ramallah ha seguito tutto da maxi schermi, accompagnando il voto con manifestazioni, balli e spari in aria. Ma si è festeggiato anche a Gaza, Hebron, Nablus, Jenin, dove hanno sventolato non bandiere di gruppi o fazioni, ma bandiere palestinesi. Un segnale che va oltre la felicità del momento e tocca indirettamente la questione dell’unità nazionale, un ricordo ormai lontano dopo la morte di Yasser Arafat e, per il futuro palestinese, non meno importante del voto all’Onu.
I punti clou del documento si trovano nel riferimento alla ripresa dei negoziati di pace e, soprattutto, nel richiamo alla terra occupata nel 1967 e ai confini prima della Guerra dei Sei Giorni. Nulla di nuovo, visto che le Nazioni Unite ritengono già illegittima l’occupazione di quei territori, ma è comunque importante che venga ribadito e che di fatto l’Assemblea sottoscriva il profilo di un futuro palestinese entro i suoi confini precedenti. Tutto questo significherebbe lo smantellamento degli insediamenti illegali, altro nodo dolente nelle trattative, così come lo status di Gerusalemme. Inoltre, dato non trascurabile, il riferimento costante alla parola “Stato”.
La Palestina come Città del Vaticano
Oltre ai suoi 193 Paesi membri, fanno parte delle Nazioni Unite organizzazioni, entità e Stati non membri, in qualità di osservatori. Lo status di “Non-member Observer State”, così come si legge nel testo approvato al Palazzo di Vetro, era una prerogativa riservata finora soltanto alla Città del Vaticano. Per la Palestina la nuova attribuzione ha certamente qualche risvolto politico in più. A livello pratico ciò darà diritto di parola durante gli incontri dell’Assemblea Generale, permetterà di partecipare alle procedure di voto (ma non di votare le risoluzioni) e soprattutto di accedere alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale.
L’International Criminal Court (ICC, l’acronimo in inglese) è frutto del Trattato di Roma, siglato nel 1998 e entrato in vigore nel 2002, e costituisce un organo permanente, indipendente dalle Nazioni Unite, incaricato di giudicare e quindi porre fine a crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidi. I fatti possono essere perseguiti solo se commessi sul territorio di uno Stato firmatario o da un cittadino dello stesso Stato. In realtà, Israele non ha mai ratificato la sua adesione, come pure gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, mentre l’Autorità Palestinese aveva provato ad aderire al tribunale, ma proprio la condizione di semplice entità non era stata sufficiente. In un parere espresso dalla Corte lo scorso aprile, si chiariva proprio che sarebbe stato possibile prendere in considerazione i “crimini di guerra” commessi in Palestina solo una volta risolta la controversia sullo status.
Ed ecco che ora quest’ultimo elemento pare più di tutti preoccupare Israele; almeno così si deduce dalle mosse di suoi partner stabili e affidabili come Gran Bretagna e Francia, in Europa, e Stati Uniti che, pare, nelle convulse ore precedenti al voto, abbiano fatto circolare una lettera informale in cui Abu Mazen si sarebbe dovuto impegnare a non ricorrere alla Cpi.
Una rassicurazione verbale è giunta dal rappresentante palestinese a New York, Riyad Mansour: “non credo che ci affretteremo già il giorno dopo ad aderire ad ogni organismo collegato alle Nazioni Unite, compresa la Corte Penale Internazionale”. Con una postilla: “se le autorità israeliane continueranno a non rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, a costruire illegalmente insediamenti, che è un crimine di guerra dal punto di vista della Corte Penale Internazionale e dello Statuto di Roma, ci consulteremo con tutti i nostri amici, compresi gli europei”. Dalla parte opposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha tardato a sottolineare che “il voto all’Onu non contribuirà alla creazione di un vero Stato palestinese”. “La decisione non cambierà nulla sul terreno. Non farà avanzare la creazione di uno Stato palestinese, al contrario, lo allontanerà”. Stessa posizione ribadita, più volte, dall’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Ron Prosor, che ha parlato dopo Mazen.
Dichiarazioni decise di chi in questo momento gioca in difesa, ma molto più caute di quelle che erano trapelate nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri, il falco ultranazionalista Avigdor Lieberman, parlando di modifiche degli Accordi di Oslo e di “rovesciamento” di Mahmoud Abbas.
Al contrario, invece, l’immagine del presidente dell’Anp ne è uscita rafforzata sia a livello diplomatico, sia dal punto di vista interno, in un momento in cui la sua leadership è sempre più evanescente.
Il valzer delle diplomazie e l’Europa divisa
La delegazione palestinese è arrivata a New York con la certezza di una vittoria annunciata, portando con sé il bagaglio di quei 130 Paesi che con accordi bilaterali hanno già riconosciuto la Palestina come Stato. A questi si sono aggiunti gli altri “sì” europei. Nell’Assemblea Generale dell’Onu non vale il diritto di veto in grado di bloccare interi processi in Consiglio di Sicurezza; inutile quindi il “no” degli Stati Uniti che, per voce del segretario di Stato Hillary Clinton, avevano già allertato sul pericolo di una simile iniziativa (“il cammino verso una soluzione che preveda due Stati e che soddisfi le aspirazioni del popolo palestinese è attraverso Gerusalemme e Ramallah, non New York”, aveva affermato). Russia e Cina, come accade di solito, si sono mosse invece congiuntamente sul “sì”.
Spostandoci più verso casa, la sensazione è che i lunghi balletti che hanno mostrato un’Unione Europa non ancora capace di muoversi compatta in politica estera e un’Italia che è riuscita a sciogliere le riserve sul voto solo a poche ore dall’evento, siano serviti esclusivamente a singoli aggiustamenti diplomatici. “Il premier italiano Mario Monti – racconta Abu Mazen – ha parlato con me e mi ha chiesto della risoluzione. Io gliel’ho spiegata e gli ho assicurato che prenderò in esame tutte le richieste di cautela che mi faceva, e lui mi ha detto che avrebbe preso una decisione il giorno del voto”. Quali che siano le ragioni che hanno determinato il cambio di rotta del governo italiano rispetto a quello precedente, si tratta anche per la politica estera italiana di un voto storico. Peraltro presa da un governo tecnico.
In Europa abbiamo assistito a Francia, Spagna, insieme a Danimarca, Irlanda, Portogallo, Austria, Lussemburgo, Cipro, Malta, Finlandia, Grecia, Belgio e Italia unite per il “sì”, e a Gran Bretagna e Germania, seguite da Croazia, Polonia, Romania, Slovacchia e Ungheria, che hanno preferito astenersi, per non guastare evidente i loro rapporti con gli alleati. La Repubblica Ceca, da sola, ha votato “no”, entrando così nel gruppo dei “9” capitanato da Stati Uniti e Israele.
In generale, ciò che più conta il giorno dopo (si parla sempre e comunque di simboli) è una diplomazia internazionale accomunata dal sostegno alle richieste palestinesi. Quello che resta, invece, dopo l’ubriacatura di entusiasmi è che le decisioni importanti all’Onu torneranno al tavolo del Consiglio di Sicurezza dove le resistenze degli Stati Uniti hanno ben più valore.