Esiste una pagina di Benedetto Croce, nel volume Teoria e storia della storiografia, in cui il filosofo italiano critica le ambizioni di ogni storia universale, denunciando l’indefinitezza di ogni progetto estensivo verso limiti abnormi, sia geografici che cronologici, della ricostruzione storica. Poco sappiamo – osserva Croce – delle origini di popoli antichi, come Greci e Romani, e quel poco, male sappiamo interpretarlo; meno ancora conosciamo di popolazioni ancora più arcaiche, dei loro spostamenti dall’Africa e dall’Asia in Europa o viceversa.
Quasi sconosciuta è invece quella porzione della storia relativa alle origini stesse del genere umano, e retrocedendo ancora quasi nulla è noto delle origini del sistema solare, e così continuando ci si perde «nel buio delle origini. Ma il buio non è solamente nelle “origini”: tutta la storia, anche la più prossima a noi, la stessa moderna di Europa, è buia; e chi potrà dir mai quali furono veramente i motivi che determinarono gli atti di un Danton o di un Robespierre, di un Napoleone o di un Alessandro di Russia? E sugli atti stessi, cioè sulla esteriorità degli atti, quante oscurezze e lacune! Si sono scritti cumuli di volumi sulle giornate di settembre o sul diciotto brumaio o sull’incendio di Mosca; e chi sa come andarono propriamente quei fatti?
Come fossero andati, non sapevano ridire neppur coloro che ne furono testimoni diretti, e che ce li tramandarono nelle versioni più varie e contraddittorie». Ma potremmo dire lo stesso per le piccole storie, come quelle delle nostre città, della nostra stessa famiglia, oppure – addirittura – di sé stessi: «or bene – conclude Croce – : se tutte quelle interrogazioni fossero soddisfatte, se noi fossimo in possesso di tutte le relative risposte, che cosa ne faremmo? […] la via del processo all’infinito è larghissima al pari della via dell’inferno, e, se non conduce all’inferno, conduce di certo al manicomio», per cui «a noi non resterebbe altro che dimenticarli, e fissarci su quel particolare solamente che risponde a un problema e costituisce la storia viva e attiva […] la storia contemporanea». Dobbiamo dunque rinunziare a ogni pretesa sulla storia universale, ma senza troppo dolore, perché come ricorda lo stesso Croce, rinunciamo a qualcosa che non abbiamo mai posseduto, né potremmo mai possedere.
Il punto problematico non è nel capire quali e quanti fattori occorre tenere in considerazione per avere una storia esaustiva in lunghezza e in profondità. Ma è stabilire cosa sia questa storia che ci interessa, che esiste, e che è storia particolare. Come ammette correttamente Croce, anche la Weltgeschichte hegeliana, in ultima analisi, è una storia particolare, poiché selettiva. E la selettività, inevitabile per lo storico, è un problema per il filosofo. Essa genera la distinzione di una storia da cui si seleziona, e una storia che seleziona, tra una storia dei fatti, e una storia della scelta e della connessione dei fatti. Ciò dipende dalla condizione stessa della dimensione storica dello spirito. La storia è una replica presente a un interesse attuale, uno sguardo, mediato da fonti, auto-conoscente. Scrive Croce: «quando lo svolgimento della cultura del mio momento storico apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è così legato al mio essere come la storia di un negozio che sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che m’incombe; ed io lo indago con la medesima ansia, sono travagliato dalla medesima coscienza d’infelicità, finché non riesco a risolverlo».
È chiaro secondo Croce che noi incontriamo anche fenomenicamente il pensiero storico soltanto in queste condizioni, cioè come manifestazione attuale di una riflessione attuale, sebbene mediata da morti reperti del passato, che vengono così rivitalizzati, ma che al di fuori di questo atto possono solo essere pragmaticamente archiviati e catalogati. Tale lavoro filologico o classificatorio non è però determinato dal pensiero storico, è semplicemente una funzione pratica rispetto alla quale le fonti sono decisamente mute, e riacquistano la parola solo nel lavoro pensante dello storico. Croce non nega la differenza tra res gestae e historia rerum gestarum, ma respinge come erronea la loro separazione, poiché l’una e l’altra, la vita e il pensiero, il documento e la critica, la filologia e la filosofia, sono sintetizzati nella storia. La prospettiva crociana in questo senso è utilissima a chiarire la posizione di Hegel, poiché anche per lui vale la soluzione meglio argomentata da Croce: l’ambiguità del termine “storia” non si comprende assegnandogli il significato di concatenazione di accadimenti reali, né quella di descrizione riflessa degli stessi. La storia è in effetti proprio la sintesi di vita e pensiero, è al tempo stesso vita del pensiero e pensiero della vita.
E i due elementi «non stanno innanzi alla storia, ossia innanzi alla sintesi, al modo che s’immaginano le fontane innanzi a colui o a colei che vi attinga col secchio, ma entro la storia medesima, entro la sintesi, costituite di essa e costituite da essa». Ecco dunque che la storia e la filosofia si abbracciano, senza poter far più a meno l’una dell’altra. E se la filosofia è scienza dello spirito, e se la storia è autocoscienza dello spirito, lo sguardo filosofico sulle generali categorie spirituali (l’arte, il linguaggio, la scienza, la politica, l’etica, la religione, e quant’altro) andrà inevitabilmente a costituire il momento rischiaratore o “metodologico” del pensiero storico, che proprio quelle categorie sintetizza coi fatti quando, a titolo d’esempio, descrive Galilei come un importante scienziato, o Dante come il padre della lingua italiana. Questa conclusione crociana al tempo stesso avvicina un’indiscernibilità, o meglio, una reciproca implicazione tra storia e filosofia, ma, pur senza definirne i termini, lascia residuare una sorta di distinzione tra un ‘luogo’ della storia, dove ai fatti è rivolta l’attitudine del pensare, e un ‘luogo’ della filosofia, in cui quello stesso pensare chiarisce meglio le prime categorie. Quasi che la distinzione tra res gestae e historia rerum gestarum dovesse ora cadere all’interno dell’atto pensante. Non più dunque, come il senso comune ci invita a credere, fatti e narrazioni di fatti, ma pensiero di fatti (storia) e conoscenza delle strutture categoriali di tale attività pensante (metodologia della storia, o filosofia).
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel rispondeva a suo modo al medesimo interrogativo permanente del lavoro storiografico: «anche lo storico comune e mediocre, il quale crede e pretende di non comportarsi che recettivamente, solo abbandonandosi al dato, non è passivo col suo pensiero: egli porta con sé le sue categorie e attraverso esse vede l’oggetto». Si tratta di una soggettività solo presuntamente recettiva, viziata da parzialità. Ciò implica che le “storie” non possono essere tante quanti gli osservatori. In forma così soggettiva la storia sarebbe una pratica superficiale (Hegel non parla mai di falsità, ma di riflessioni unilaterali: einseitige Reflexionen). Anche lo storico consapevole della forza condizionante del proprio sguardo soggettivo ha sempre la sensazione e l’obiettivo di raccontare una storia vera, cioè che nell’essenziale si distingue dalla narrazione artistica, o di fantasia. Lo storico cerca, pretende la verità. E in questa sua aspirazione è riposta una profonda necessità. Hegel rivendica allora l’esigenza di un punto più alto d’osservazione: «il grande contenuto della storia del mondo è razionale, e razionale dev’essere: una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto. Nostro scopo dev’essere il riconoscimento di questa realtà sostanziale; e per raggiungerlo bisogna portar con sé la coscienza della ragione: non occhi fisici, non un intelletto finito, ma l’occhio del concetto, della ragione, che penetra la superficie ed energicamente si apre la via attraverso il molteplice e variopinto groviglio delle contingenze […] il punto di vista della storia filosofica (philosophische Weltgeschichte) non è uno fra molti punti di vista, astrattamente prescelto, in modo che in esso si prescinda dagli altri. Il suo principio spirituale è la totalità di tutti i punti di vista. Essa esamina il principio concreto, spirituale dei popoli e la sua storia, e non si occupa di situazioni singole, ma di un pensiero universale che permea il tutto».
È interessante notare come la comparazione tra una storia filosofica e la storia degli storici sia considerata il principale punto di debolezza della visione hegeliana da parte di Croce. Si tratta di una critica fondata su un ragionamento di questo genere: premettendo che non è possibile – in buona fede – negare che la storiografia sia un fenomeno culturale forte e resistente a ogni critica filosofica, va riconosciuto che – lo si apprezzi o meno – gli storici proseguono nel proprio lavoro, affinando strumenti e metodi, accogliendo dalla filosofia solo sporadici suggerimenti; ma l’idea che la storia degli storici possa essere superata da una più profonda e, direbbe Hegel, più verace storia filosofica è non soltanto sdegnosamente respinta dagli stessi storici (d’altronde, se le cose stessero diversamente, si dedicherebbero alla ricerca filosofica, non a quella storiografica), ma pone non poche difficoltà alla stessa pensabilità di questa distinzione. Certamente Hegel supera questa doppia identità della storia affermando che inconsapevolmente, e dunque assai più superficialmente, anche la storiografia produce opere di filosofia della storia, cioè sottende col proprio narrare i fatti un’interpretazione, una lettura razionale di quegli stessi fatti. E su questo Hegel, secondo Croce, ha senz’altro una parte di ragione; e tuttavia nell’interpretazione del suo critico italiano lo scopritore della dialettica non avrebbe resistito al travolgente entusiasmo per la scoperta di codesto strumento e avrebbe scritto di fatto un’altra storia, ma una storia a priori; il risultato è sproporzionatamente sbilanciato sul piano della speculazione razionale, nonostante le continue rassicurazioni, presentate dallo stesso Hegel, sull’importanza da attribuire ai dati di fatto. Secondo Hegel, che nella storia del mondo ci sia un andamento razionale dev’essere un presupposto e un risultato, per cui bisogna per un verso anticipare la riflessione sulla storia con una ricerca logica, per poi «procedere storicamente ed empiricamente». Tuttavia, al di là della dichiarazione d’intenti, Hegel finisce per trovarsi tra le mani due storiografie: l’una, quella degli storici di professione, da lui segnalata come intellettuale o riflessa (nonché divisa in storia generale, prammatica, critica e concettuale), e , per contro, una filosofia della storia, selettiva e aprioristica. Ora, osserva Croce nel Saggio sullo Hegel, alla filosofia è estranea l’accidentalità, mentre la storia si confronta con l’effettualità reale, per cui: «se l’accidentabilità e l’individualità sono davvero estranee alla filosofia, se non si può conoscerle fuorché empiricamente, della storia non si può fare la filosofia a priori, ma per l’appunto, la storia. E, se si fa una filosofia della storia, quell’accidentale e individuale e quel metodo storico ed empirico, vengono disconosciuti e rifiutati. Dal dilemma non si esce». Croce vede bene la difficoltà e la acutizza: se il sostanziale nella storia è il razionale, allora bisognerà distinguere, nella storia, tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, tra fatti veramente storici, e fatti accidentali, sennonché in una storiografia filosofica, operare certe distinzioni ha una sola conseguenza possibile: «anziché salvare come necessari per la storia vera i fatti di un certo ordine, si vengono a gettare via come inutili i fatti, la nozione stessa di fatto».
Nella filosofia di Croce il punto non è nel meglio tutelare la reciproca indipendenza di storia e filosofia, ma nel dare invece seguito con massima coerenza alla più originaria intuizione hegeliana, quella cioè dell’universale concreto, e ribadire, come egli fece nella Logica del 1909, l’immediata e reciproca implicazione di filosofia e storia, «perché né lo spirito o la filosofia sono qualcosa di bello e fatto fuori della storia, né questa si fa senza lo spirito e la filosofia».