La società globale del rischio.
Una discussione fra Ulrich Beck e Danilo Zolo

Questa conversazione è stata pubblicata nel Numero 53 (Marzo-Aprile 1999) di Reset con il titolo “Pensare globale“.  

 

1. Verso una nuova modernità

D.Z. C’è a mio parere una profonda continuità teorica fra i tuoi libri precedenti — in particolare La società del rischio e Controveleni — e l’ultimo tuo libro, Che cos’è la globalizzazione?, che sta per uscire in edizione italiana presso l’editore romano Carocci.

U.B. È vero. Nel mio libro Società del rischio, che è apparso in Germania nel 1986, avevo proposto la distinzione fra una prima e una seconda modernità. Avevo caratterizzato la prima modernità nei seguenti termini: una società statale e nazionale, strutture collettive, pieno impiego, rapida industrializzazione, uno sfruttamento della natura non “visibile”. Il modello della prima modernità – che potremmo anche chiamare semplice o industriale – ha profonde radici storiche. Si è affermato nella società europea, attraverso varie rivoluzioni politiche ed industriali, a partire dal Settecento. Oggi, alla fine del millennio, ci troviamo di fronte a ciò che io chiamo “modernizzazione della modernizzazione” o “seconda modernità” od anche “modernità riflessiva”. Si tratta di un processo nel quale vengono poste in questione e divengono oggetto di “riflessione” le fondamentali assunzioni, le insufficienze e le antinomie della prima modernità. E a tutto ciò sono collegati problemi cruciali della politica moderna. La modernità illuministica deve affrontare la sfida di cinque processi: la globalizzazione, l’individualizzazione, la disoccupazione, la sottoccupazione, la rivoluzione dei generi e, last but not least, i rischi globali della crisi ecologica e della turbolenza dei mercati finanziari. Penso che si stiano affermando un nuovo tipo di capitalismo e un nuovo stile di vita, molto diversi dalle fasi precedenti dello sviluppo sociale. Ed è per queste ragioni che abbiamo urgente bisogno di nuovi quadri di riferimento sia sul piano sociologico che su quello politico.

D.Z. Nelle tue pagine l’analisi dei dilemmi e dei rischi della globalizzazione mi sembra condotta con molta lucidità e vigore critico. E’ questo secondo me l’aspetto più stimolante del tuo libro, che del resto è, in generale, tematicamente molto ricco, brillante e tutt’altro che apologetico nei confronti della presente situazione internazionale e dei potentati politici ed economici che la governano. Nello stesso tempo, però, tu continui a suggerire un atteggiamento sostanzialmente ottimistico, anche se si tratta, per così dire, di un ‘ottimismo drammatico’.

U.B. No, non parlerei di ottimismo… Come si può essere ottimisti di fronte all’attuale situazione del mondo? Ma d’altra parte, come si fa ad essere soltanto pessimisti? Il mondo che ci sta di fronte è carico di paradossi che non possono non renderci perplessi. Dobbiamo liberarci da alcune certezze antropologiche del passato e nello stesso tempo tentare di costruire, in mezzo ad una quantità di contraddizioni e di rotture, linee di coerenza e di continuità. Speranza e disperazione non possono non intrecciarsi nella nostra esperienza. Guardiamo ad esempio all’Europa. Un secolo buio, nel quale abbiamo avuto due sanguinose guerre mondiali, l’Olocausto, il fascismo e l’imperialismo comunista è finalmente al tramonto e sta lasciando il posto alla prospettiva di un’Europa democratica da costruire nei prossimi anni. Non sono queste ragioni sufficienti per essere ottimisti e pessimisti nello stesso tempo?

D.Z. E tuttavia l’intento ultimo del tuo libro, attraverso un’interpretazione che tu stesso chiami ‘dialettica’, è di presentare la globalizzazione come foriera di una nuova modernità. La ‘società del rischio’ — a livello nazionale come a livello globale — non comporta, tu sostieni, un congedo dalla tradizione illuministica, come vogliono invece le tendenze irrazionalistiche del ‘post-moderno’. Al contrario, tu ti sforzi di delineare una teoria sociale che nella scia di Weber rintracci nel presente il profilo di una nuova modernità. Come nel secolo dicannovesimo la modernizzazione industriale ha dissolto e superato il sistema corporativo della società rurale, così la modernità globale è destinata, secondo te, a superare le attuali forme della politica ‘nazional-statale’ e dell’economia tardocapitalistica. È così?

U.B. Si, è vero, ma nello stesso tempo cambiano, come ho detto, le assunzioni fondamentali, l’antropologia e il paradigma stesso della modernità. Certo, il termine ‘modernità’ ha sempre significato anche crisi in atto, discontinuità e incertezze. Ma ciò che distingue la ‘modernità riflessiva’ e la rende problematica è il fatto che dobbiamo trovare risposte radicali alle sfide e ai rischi globali prodotti dalla modernità stessa. Le sfide potranno essere vinte se riusciremo a produrre più e migliore tecnologia, più e migliore sviluppo economico, più e migliore differenziazione funzionale. E queste sono le condizioni per battere la disoccupazione, la distruzione dell’ambiente naturale, l’egoismo sociale e così via.

 

2. Un dialogo globale fre le culture

D.Z. Permettimi una obiezione: che cosa può significare esattamente “nuova modernità” se, come tu fai, ci si riferisce non soltanto al mondo europeo ed occidentale, ma a tutte le culture del globo? Non c’è qui il rischio di adottare una prospettiva eurocentrica, di finire involontariamente in forme di “imperialismo” antropologico e culturale, come fanno secondo me i più noti Western globalists, a cominciare da David Held, Richard Falk e, in qualche misura, anche Jürgen Habermas? Le riflessioni di Samuel Huntington sul conflitto fra le civiltà non contengono, nonostante la loro evidente debolezza teorico-politica, almeno un’avvertenza cautelativa da accogliere? E cioè che i valori occidentali, per quanto preziosi, non sono affatto universali e non possono essere “esportati” con la forza, la pressione economica o la propaganda.

U.B. Personalmente non condivido l’immagine del mondo contemporaneo che Samuel Huntington ha dipinto. La mia impressione è che quando Huntington parla di “scontro fra civiltà” in realtà ha presente l’esperienza di un maschio bianco e protestante minacciato dalla rapida emergenza di un’America del Nord ormai divenuta multiculturale e sempre più influenzata da tradizioni culturali di origine non europea. La mia teoria della “seconda modernità” è un serio tentativo di superare ogni tipo di “imperialismo occidentale” ed ogni concezione unidirezionale della modernità. Io mi propongo di superare il pregiudizio evoluzionistico che affligge larga parte della scienza sociale occidentale. È un pregiudizio che relega le società non occidentali contemporanee nella categoria del “tradizionale” e del “premoderno” e in questo modo, anziché definirle dal loro proprio punto di vista, le concepisce in termini di opposizione alla modernità o di non modernizzazione. Molti pensano persino che lo studio delle società occidentali premoderne possa aiutarci a capire le caratteristiche che i paesi non occidentali presentano oggi. “Seconda modernità” significa al contrario che dobbiamo collocare con fermezza il mondo non occidentale nell’ambito della “modernizzazione della modernizzazione” e cioè entro un pluralismo di modernità. In questa prospettiva c’è spazio per concettualizzare la possibilità di traiettorie divergenti della modernità.

D.Z. Condivido il senso di questo tuo tentativo, anche se conservo qualche dubbio sulla possibilità di universalizzare la categoria di “modernità”. Ma, a questo proposito, che cosa pensi di autori giapponesi, malesi e cinesi, come Shintaro Ishihara, Mahathir Mohammed, Son Qiang e Zhang Xiaobo, che rifiutano i valori politici e culturali della modernità occidentale pur accettando l’industrialismo e l’economia di mercato? Il rifiuto, come è noto, riguarda in particolare la tradizione liberaldemocratica e la dottrina dei diritti dell’uomo. C’è fra di loro chi rivendica contro l’occidente l’universalità dei “valori asiatici”. Lee Kuan Yew, il celebre re-filosofo di Singapore, ha sostenuto ad esempio che la tradizione confuciana, con la sua concezione paternalistica del potere e la sua idea organica della società e della famiglia, offre il quadro ideologico più adatto per contenere gli effetti “anarchici” dell’economia di mercato e per attenuare le spinte disgregatrici dell’individualismo e del liberalismo occidentale.

U.B. Si tratta di un dibattito molto importante e stimolante. Anzitutto noi occidentali dobbiamo prendere atto del fatto che sono in corso ampie discussioni – in Asia, in Africa, in Cina, nell’America del Sud – che hanno per oggetto il tema delle ‘modernità divergenti’. Nel mio libro Was ist Globalisierung? ho tentato di contribuire a questo dialogo globale distinguendo il “contestualismo universale o relativismo”, che è un atteggiamento post-moderno, dall’ “universalismo contestuale”, che supera l’alternativa rigida fra l’affermazione di un (unico) universalismo e la negazione di ogni possibile universalismo. In questa prospettiva possono convivere sia il mio che il tuo universalismo e cioè una pluralità di universalismi diversi. Su questo punto dobbiamo essere molto precisi. Nella società globale del rischio le società non occidentali hanno in comune con le società occidentali non solo lo stesso spazio e lo stesso tempo ma anche alcune delle sfide fondamentali della seconda modernità, anche se percepite entro ambiti culturali diversi e secondo prospettive divergenti. Questi aspetti di analogia fra situazioni diverse sono stati illustrati da un recente dibattito, “Korea: A Risk Society”, che è apparso sul Korea Journal (30, 1998, 1). I saggi presentati in questo volume sono un ottimo esempio di come l’identica situazione di rischio prodotta da una modernizzazione troppo rapida può dar vita a prospettive culturali divergenti e proprio per questo molto interessanti sia dal punto di vista teorico che da quello politico.

 

3. Globalismo economico e fondamentalismo mercantile

D.Z. Apprezzo il tuo accenno alla necessità di un “dialogo globale” fra le culture e tuttavia questo dialogo mi sembra, per quanto riguarda l’occidente, ancora molto lontano dall’essere non dico avviato, ma neppure concepito. Ma ritorno ad un tema centrale della tua elaborazione teorica. La società del rischio – avevi sostenuto in Risikogesellschaft – è una società che, nonostante tutto, ha a disposizione nuove possibilità di trasformazione e di sviluppo razionale della condizione umana: maggiore uguaglianza, maggiore libertà individuale e capacità di autoformazione. L’imperativo che allora formulavi era la necessità che la prospettiva di una nuova “ecologia politica” riuscisse a prevalere sugli schemi della logica puramente economica della produzione, del consumo e del profitto. Analogamente oggi sostieni che i rischi che minacciano la società globalizzata possono mobilitare – soprattutto nel mondo occidentale – nuove energie sociali e politiche. Ti domando: che cosa ti induce a pensare che una politica transnazionale possa riuscire a prevalere sugli schemi del “globalismo economico” e che un senso collettivo di responsabilità per le sorti del mondo possa contrastare l’apatia e il disincanto politico – si è recentemente parlato di neo-edonismo e di neo-cinismo delle nuove generazioni – che oggi dilagano in occidente?

U.B. Quando ho scritto il mio libro sulla globalizzazione, e cioè un anno e mezzo fa, la critica del globalismo neoliberale sembrava assolutamente “idealistica”, nella vecchia accezione tedesca del termine. Ma noi viviamo davvero in un mondo ove tutto è fortemente accelerato e difficilmente controllabile. In questo breve periodo di tempo l’attenzione pubblica mondiale si è concentrata sulla questione di come controllare il mercato finanziario globale e i suoi rischi globali. Ci si chiede come dovrebbe o potrebbe essere una globalizzazione responsabile e come possa diventare una realtà concreta. Il fondamentalismo mercantile, naturalmente, assume che i mercati finanziari siano dei sistemi capaci di autoregolazione e che tendano costantemente all’equilibrio. Nel suo ultimo libro George Soros usa la nozione di “riflessività” (anche Anthony Giddens la usa e la uso anch’io) per proporre un punto di vista più realistico. Egli sostiene che a causa del carattere riflessivo dei mezzi di informazione i mercati finanziari tendono all’instabilità. Possono divenire caotici, essere influenzati da effetti di bandwaggon, da comportamenti di massa irrazionali e da fenomeni di panico. Per queste ragioni i mercati finanziari globali appartengono alla categoria della società mondiale del rischio. La principale conseguenza di tutto questo è che l’era dell’ideologia del libero mercato è ormai una vaga reminiscenza. Si sta verificando esattamente il contrario: la politicizzazione del mercato globale. In Asia sta accadendo qualcosa che si potrebbe chiamare una Chernobil economica: il carattere “socialmente esplosivo” del rischio finanziario globale sta diventando una realtà. E ciò dà vita ad una dinamica di trasformazione culturale e politica che indebolisce le burocrazie, contesta l’egemonia dell’economia classica, sfida il neoliberismo e ridisegna i confini e le arene della politica contemporanea. Si affacciano nuove opzioni politiche: il protezionismo nazionale e regionale, il ricorso a meccanismi di regolazione e a istituzioni sovranazionali e, infine, la questione della loro democratizzazione.

D.Z. E dunque, secondo te, tutto questo può aprire nuove prospettive e far emergere forze politiche transnazionali. È una possibilità, lo ammetto, anche se in questo momento non mi sembra di scorgere molti indizi in questo senso. Riconosco comunque che in questo libro ti sei sforzato di analizzare i vari aspetti del processo di globalizzazione al di fuori degli schemi tradizionali che contrappongono i fautori della globalizzazione come sviluppo coerente della modernità occidentale ai suoi detrattori. Questi ultimi vedono nella globalizzazione essenzialmente un fattore di turbolenza e, nello stesso tempo, un’inarrestabile deriva verso la concentrazione del potere internazionale, l’aumento del divario fra paesi ricchi e paesi poveri e l’appiattimento delle diversità culturali. Ti chiedo: quali argomenti opponi a chi sostiene che i processi di globalizzazione tendono a gerarchizzare ulteriormente i rapporti internazionali ponendo al vertice del potere e della ricchezza un direttorio di potenze industriali, anzitutto gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Giappone.

U.B. C’è una forte tendenza a porre il segno di equazione fra globalizzazione e americanizzazione o persino fra globalizzazione e nuovo imperialismo. Ma questa non è tutta la verità. Ci sono prove evidenti che la globalizzazione diviene sempre più un fenomeno decentrato, non controllato e non controllabile da un singolo paese o da un gruppo di paesi. In realtà le conseguenze della globalizzazione colpiscono o possono colpire gli Stati Uniti come la Francia, l’Italia, la Germania o i paesi asiatici. Questo è vero per lo meno per i rischi finanziari, per i mezzi di comunicazione e per gli squilibri ecologici (il riscaldamento dell’atmosfera, ad esempio). Lo Stato nazionale è sottoposto a sfide in modo eguale nell’America del Sud come in Asia, in Europa o nell’America settentrionale. Ci sono persino fenomeni di “colonizzazione inversa”. Accade cioè che dei paesi non occidentali modellino forme di sviluppo in occidente. Si pensi alla “latinizzazione” di alcune grandi città statunitensi, all’emergenza in India e in Malesia di un settore di alta tecnologia senza radici territoriali e orientato al mercato globale, oppure all’acquisto da parte del Portogallo di una grande quantità di prodotti musicali e televisivi del Brasile. Ma, naturalmente, ci sono dei vincitori e dei perdenti nel gioco della globalizzazione. Una minoranza diventa sempre più ricca e una maggioranza crescente diviene sempre più povera. La quota della ricchezza globale che è andata al 5% più povero della popolazione mondiale è passata negli ultimi dieci anni dal 2,3% all’1,4%. Nello stesso periodo la quota accaparrata dal 5% più ricco della popolazione mondiale è cresciuta dal 70% all’85%. Come ha scritto recentemente un autore inglese, piuttosto che di “villaggio globale” (global village) è il caso di parlare di “saccheggio globale” (global pillage).

D.Z. E non ti sembra dunque che la concentrazione del potere internazionale abbia come conseguenza una crescente inclinazione delle grandi potenze a violare o aggirare il diritto internazionale? Come giudichi, a questo proposito, la tendenza degli Stati Uniti ad erigersi a gendarme del mondo attraverso un uso strumentale anche del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? Non ti pare che questo sia recentemente avvenuto in quella che è stata chiamata la “terza guerra” del Golfo Persico? Non c’è il rischio che questo alimenti – e agli occhi di molti finisca per giustificare – il terrorismo internazionale?

U.B. Sì, come ho detto, viviamo in una società mondiale del rischio. Il mondo sta diventando caotico. Non mi è difficile immaginare la possibilità di un gran numero di disastri. “Seconda modernità” non significa che ogni cosa debba andare per il suo verso. Sarebbe una profonda incomprensione del mio punto di vista. Ci sono dietro l’angolo nuove minacce che nessuno è preparato ad affrontare. Io stesso sto lavorando da qualche anno ad un nuovo libro sul “cattivo cittadino”: è il cittadino che usa le sue libertà per contrastare le incertezze sociali che si trova dinanzi e nelle quali è immerso. Ma questo atteggiamento non è sufficiente. Sarebbe intellettualmente troppo facile. Molto più difficile è tentare di ricostruire e di sviluppare le nuove opzioni, i nuovi orizzonti sociali e politici che stanno emergendo. Insomma è troppo facile essere oggi unilateralmente pessimisti. Io sono simultaneamente ottimista e pessimista. Il mio interesse è scoprire ciò che è nuovo. Le idee fondamentali della mia teoria della società del rischio vanno oltre l’ottimismo e il pessimismo.

D.Z. Sono d’accordo con te, anche se con la mia domanda non intendevo sollecitarti ad una dichiarazione di pessimismo ma a un giudizio specifico sul processo di gerarchizzazione del potere internazionale – a mio parere oggi in atto – e sulla funzione che in questo quadro svolgono le istituzioni internazionali e gli Stati Uniti. Condivido comunque il tuo rifiuto del fatalismo.

 

4. Verso una ‘McDonaldizzazione’ della società globale?

D.Z. Nel tuo ultimo libro hai scritto alcune pagine, che io trovo molto interessanti, per criticare il fatalismo di chi giura nella inevitabile omologazione culturale del pianeta. La tesi di George Ritzer della McDonaldization of society, sostieni, è sbagliata. Ed è esagerato pensare che la globalizzazione culturale sia un rullo compressore che produce l’ “occidentalizzazione del mondo”. Questa tesi è sostenuta, come è noto, da Serge Latouch. Ma anche altri sociologi della globalizzazione – Mike Featherstone e Bryan Turner, ad esempio – pensano che siamo in presenza di fenomeni di “creolizzazione” delle culture indigene. Si tratterebbe di una estesa contaminazione di culture deboli da parte dei modelli di consumo e degli stili di vita che i grandi mezzi di comunicazione di massa – quasi sempre radicati in occidente – diffondono nel mondo, in particolare attraverso la comunicazione pubblicitaria. È un fenomeno, essi sostengono, di distruzione della diversità, della complessità e della bellezza del mondo.

U.B. Per me questo è uno degli aspetti più affascinanti del dibattito sulla globalizzazione culturale che impegna in particolare scrittori anglosassoni – antropologi e teorici della cultura – come Appadurai, Robertson, Featherstone, Lash, Urry, Albrow, Eade e molti altri. C’è un nuovo significato della dimensione locale che emerge nell’era della globalizzazione. L’intera letteratura che se ne occupa offre una pittoresca e convincente controprova del semplicistico stereotipo della “McDonaldizzazione del mondo”. Ciò che è chiaro è che in questo orizzonte transnazionale si formano, spesso illegalmente, degli amalgami sociali che minacciano seriamente l’aspirazione degli Stati nazionali ad esercitare un controllo territoriale e a garantire l’ordine. Gli spazi della vita privata e del lavoro che ne derivano sono “impuri”. Per analizzare questi fenomeni la sociologia deve abbandonare schemi di interpretazione troppo rigidi ed ammettere la possibilità di coesistenza di forme di vita diverse.

D.Z. Ma pensi davvero che ci siano culture e civiltà capaci di resistere all’imponente deriva che diffonde nel mondo la scienza, la tecnologia, la burocrazia, l’industrialismo e l’individualismo occidentale? E che cosa può ridurre, non dico arrestare, il fenomeno della migrazione di massa dai paesi poveri ai paesi industrializzati, con tutte le conseguenze che questo comporta in termini di diseguaglianza sociale, di sfruttamento del lavoro e di distruzione delle identità culturali? I processi di globalizzazione possono favorire – o invece al contrario soffocare – le spinte verso l’autonomia etnica o l’indipendenza nazionale? Penso ad esempio, fra i moltissimi altri, ai tamil, ai palestinesi, ai curdi, ai baschi, ai corsi.

U.B. Ci sono secondo me due modi di concepire e di concettualizzare la globalizzazione: due modi che devono essere tenuti nettamente distinti. Uno corrisponde all’idea di una globalizzazione semplice e lineare, l’altro corrisponde al concetto di “globalizzazione riflessiva”. La versione semplice rinvia alla teoria che potremmo definire del “contenitore sociale”: il contenitore è la società statale e nazionale, fondata su un’identità collettiva più o meno omogenea. La globalizzazione da questo punto di vista è qualcosa che si aggiunge, che proviene dall’esterno e che perciò ci minaccia e persino ci aggredisce nella nostra comune identità. Nella prospettiva della concezione riflessiva della globalizzazione la stessa definizione di società e di comunità cambia radicalmente. Vivere assieme non ha più il significato di risiedere in luoghi geograficamente contigui. Può anche significare vivere assieme scavalcando i confini statali e anche quelli continentali. E questo vale non soltanto per gli “attori globali” e per i managers del capitalismo globale, ma anche, ad esempio, per il tassista indiano che lavori a Londra o per dei messicani che vivano a New York o nel Messico e che decidano a cavallo delle frontiere su affari comuni da realizzarsi in città messicane. Questi sono solo alcuni esempi, ma la letteratura è vastissima. Ne deriva che l’insediamento territoriale non è più, com’era al tempo dello Stato nazionale, un imperativo per la vita sociale e per il realizzarsi di una comunità. Bisogna aggiungere che le relazioni e i legami sociali e politici di natura non territoriale che si sviluppano nella società cosmopolitica non sono stati ancora scoperti, affermati e incoraggiati. Insomma, io rispondo alla tua domanda dicendo: sì, io credo che lo sviluppo della modernità non sia lineare e che possa spezzarsi in qualsiasi momento per ragioni endogene. La “gabbia d’acciaio” della modernità di cui parlava Weber si sta aprendo, sollecitata da una pluralità di modernizzazioni divergenti.

D.Z. La globalizzazione, sostieni nel tuo libro, è una realtà irreversibile – a livello economico, ecologico, tecnico-comunicatico, civile, dell’organizzazione del lavoro, etc. – che nessun protezionismo, vecchio o nuovo, può arrestare o condizionare: né il protezionismo “nero” dei nazionalisti, ormai obsoleto; né il protezionismo “verde” degli ecologisti radicali che oggi riscoprono lo Stato nazionale come un “biotipo” in estinzione e si affannano a proteggerlo; né, infine, il protezionismo “rosso” che rilancia anacronisticamente a livello mondiale la parola d’ordine della lotta di classe.

U.B. Sì, è così. C’è un “riflesso protezionistico” presente in tutti i paesi e che è sostenuto da tutti i partiti politici. Naturalmente se ne possono capire le ragioni. Nessuno è preparato per le grandi trasformazioni in corso. Tutti sperano che la globalizzazione distrugga i presupposti in base ai quali i propri vicini hanno costruito la loro casa e organizzato la loro vita. Accade così che la globalizzazione produca qualcosa che si potrebbe chiamare “effetto chiocciola”. Ma ritirarsi nella propria tana non sarà molto utile. Rifiutarsi di prendere atto di ciò che sta accadendo oltre l’uscio di casa e non accettare di esporsi al rischio del nuovo non può essere un modo efficace di prepararsi al futuro.

 

5. La funzione degli Stati nazionali

D.Z. Ma non pensi che ci siano aspetti della globalizzazione che i paesi della “periferia” del mondo dovrebbero tentare di contrastare, anche con mezzi politici, per resistere alla forza omologatrice del mercato e dei suoi correlati ideologici? L’idea di nazione e di Stato nazionale può essere davvero considerata come un oscurantistico relitto del passato? Non è forse vero che l’intera tradizione della democrazia rappresentativa, del rule of law e della stessa dottrina dei diritti dell’uomo sono indissociabili dalla vicenda storica dello Stato nazionale sovrano?

U.B. Lo Stato nazionale si sta trasformando, certo, non non si può dire che sia avviato all’estinzione. Può persino rinforzarsi, come ho sostenuto nel mio libro, divenendo uno Stato cooperativo, uno Stato transnazionale o cosmopolitico. Ma non sarà più, comunque, uno Stato nazionale nel vecchio senso. Per realizzare il suo “interesse nazionale” lo Stato della seconda modernità deve attivarsi simultaneamente a vari livelli locali e transnazionali ed entro istituzioni molto lontane dai suoi confini. Uno Stato, ad esempio, può persino usare l’Europa come un pretesto per non prendere decisioni locali o per dare attuazione a livello europeo a decisioni per le quali il governo nazionale non disporrebbe del sostegno della maggioranza interna. Attori globali come le imprese multinazionali dispongono di un grande potere nell’ambito degli affari di uno Stato nazionale poiché possono aumentare o ridurre l’offerta di posti di lavoro. Ma un nuovo protezionismo regionale potrebbe ciononostante rivelarsi efficace. Nel mio libro ho proposto un esperimento mentale: proviamo ad immaginare un mondo nel quale i costi dell’informazione e del trasporto oltre le frontiere nazionali aumentino in misura significativa. Le economie regionali ed i mercati regionali – quelli dell’Unione europea, ad esempio – ne avrebbero certamente dei vantaggi.

D.Z. Sono d’accordo con te. Aggiungerei soltanto che l’enfasi globalista sottovaluta il fatto che lo Stato nazionale sembra destinato non solo a conservare a lungo molte delle sue funzioni tradizionali, ma anche ad assumere funzioni nuove che non potranno essere assorbite da strutture di aggregazione regionale o globale. Solo uno Stato nazionale democratico sembra in grado di garantire un buon rapporto fra estensione geopolitica e lealtà dei cittadini e già per questo svolge secondo me una funzione non facilmente surrogabile, anche nei confronti degli eccessi delle rivendicazioni etniche. E forse non andrebbe dimenticato, come ha sottolineato Paul Hirst, che le persone sono molto meno mobili del denaro, delle merci e delle idee, per non dire dei contenuti della comunicazione elettronica: le persone sono molto più “nazionalizzate” e sarà comunque al loro radicamento nazionale e territoriale che si dovrà fare appello anche in futuro per dare legittimità alle istituzioni sovranazionali.

U.B. Attorno a questo punto si è sviluppata la più importante controversia nell’ambito della teoria politica contemporanea: è possibile una democrazia oltre l’ambito dello Stato nazionale? Oppure lo Stato nazionale va considerato come il solo ambito istituzionale entro il quale può realizzarsi lo Stato di diritto e quindi la tutela dei diritti dell’uomo? Ci può essere una legittimazione democratica ottenuta attraverso procedure transnazionali? Secondo me, almeno per quanto riguarda l’ambito europeo, questa discussione ha un valore puramente teorico. È una pura illusione pensare che sia possibile riportare indietro l’orologio della storia e tornare in Europa ai tempi della democrazia nazionale. Non ci sarà democrazia in Europa se non sarà una democrazia rafforzata sul piano transnazionale. La democrazia è stata inventata oltre mille anni fa in ambito locale. Poi, nel corso della prima modernità, ha assunto una dimensione nazionale. Ora e nel prossimo futuro la democrazia deve essere reinventata a livello transnazionale. È questo il senso del progetto democratico per l’Europa.

D.Z. D’accordo, ma il problema si pone soprattutto fuori dall’Europa, dove la dimensione transnazionale è ben più problematica. Tu scrivi nel tuo libro che ormai viviamo in una società mondiale ove qualsiasi rappresentazione di “spazi chiusi” non può che essere fittizia. E lo Stato stesso è ormai pensabile soltanto come uno “Stato trasnazionale”, la cui “società civile” è attraversata da una moltitudine di agenzie e istituzioni transnazionali come le grandi imprese economiche, i mercati finanziari, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’industria culturale e così via. Detto in poche parole, tu pensi che la specificità della globalizzazione stia nell’estensione, nella densità e nella stabilità della rete di interdipendenze fra globale e locale (la cosiddetta “glocalizzazione”) di cui l’umanità intera sta prendendo coscienza attraverso la comunicazione massmediale. La globalità, sostieni, è ormai l’orizzonte cognitivo al quale nessuno può sottrarsi. Ma forse ti si potrebbe obiettare che ci sono interi continenti – penso ad esempio all’Africa – e ampie fasce di nuovi poveri e di nuovi analfabeti all’interno persino dei paesi più ricchi che restano esclusi dall’orizzonte cognitivo della globalità (e dall’uso dei mezzi elettronici che ne diffondono la consapevolezza riflessiva).

U.B. Ti rispondo raccontando una storia. Alcuni anni fa un’antropologa, specializzata nello studio della Cambogia rurale, arrivò in un piccolo villaggio cambogiano, dove intendeva svolgere la sua ricerca sul campo. La sera venne invitata in una casa privata per un intrattenimento. L’antropologa si aspettava di scoprire qualcosa sui passatempi tradizionali sopravvissuti in quello sperduto villaggio asiatico. Invece la serata fu dedicata ad assistere alla trasmissione televisiva del film Basic Instinct. In quel momento il film non era stato ancora proiettato nei cinema di Londra. Dunque, la globalizzazione in questo senso non può in alcun modo essere arrestata. Gli antropologi non fanno che ripetere la sostanza di questa storia: le culture locali del globo oggi non possono essere studiate e capite senza tener conto dei ‘flussi globali’, come ha sostenuto fra gli altri Appadurai. Ma, certo, questo non esclude che le diseguaglianze sociali siano in aumento.

 

6. Verso un capitalismo senza lavoro e senza vincoli fiscali?

D.Z. Zygmunt Bauman ha parlato di una nuova stratificazione della popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati. E tu stesso ricordi che i paesi dell’Unione Europea, negli ultimi vent’anni, sono diventati più ricchi in una proporzione che si aggira fra il cinquanta e il settanta per cento. Nonostante ciò in Europa abbiamo oggi venti milioni di disoccupati, cinquanta milioni di poveri e cinque milioni di senza tetto. Non è questo l’indice di nuove, più profonde diversità in potere e ricchezza fra gli abitanti del pianeta? Non potrebbe essere questo l’inizio della “brasilizzazione” del mondo?

U.B. Ho appena finito di scrivere un libro – Die schöne neue Arbeitswelt (Il bel nuovo mondo del lavoro) – nel quale respingo la tesi della “brasilizzazione” dell’occidente. Rovesciando un giudizio di Marx, si potrebbe infatti sostenere che molte aree del “Terzo mondo” mostrano all’Europa l’immagine del suo futuro. Per un verso – ed è l’aspetto positivo – si potrebbero indicare elementi come lo sviluppo di società multireligiose, multietniche e multiculturali, stili di vita intraculturali e una moltiplicazione delle sovranità. Per un altro verso – e questo è l’aspetto negativo – dovremmo segnalare il diffondersi di aree di informalità, la flessibilità del lavoro, la deregulation di ampi settori dell’economia e delle relazioni di lavoro, l’aumento della disoccupazione e della sotto-occupazione (lavoro a part-time, lavori a termine e a cottimo, lavoratori domestici ed altre categorie che non è facile designare con le terminologie tradizionali). A tutto ciò bisogna aggiungere, come tu hai detto, la radicalizzazione delle diseguaglianze e un alto tasso di violenza e di criminalità.

D.Z. Il “globalismo economico” è, nel tuo lessico teorico, cosa ben diversa dalla globalizzazione. È l’ideologia ultra-libertaria – tu parli addirittura di “metafisica del mercato globale” – che cerca di nascondere i rischi che in particolare i processi di globalizzazione economico-finanziaria comportano. Il pericolo di gran lunga più grave, tu sostieni, viene dai settori più forti dell’economia globalizzata: viene cioè dalla capacità che le grandi imprese industriali e finanziarie hanno di sottrarsi ai vincoli della solidarietà nazionale, in particolare all’imposizione fiscale. La struttura delle grandi corporations è tale che esse possono scegliere a piacere e cambiare velocemente le sedi geografiche o funzionali dei propri fattori di produzione, ottenendone grandi vantaggi e sottraendosi alle regole poste dagli organi statali. Quali contromisure sono secondo te possibili, al di fuori dell’idea del “governo mondiale” e dello “Stato mondiale” che anche tu mi pare consideri come una prospettiva non realizzabile?

U.B. Non dobbiamo illuderci: un capitalismo che fosse concentrato esclusivamente sulla proprietà e sul profitto, che voltasse le spalle ai lavoratori, al Welfare State e alla democrazia finirebbe alla lunga per autodistruggersi. Perciò oggi non c’è soltanto il rischio che milioni di persone restino senza lavoro. E non è a repentaglio soltanto il Welfare State. La libertà politica e la democrazia sono a rischio! Dobbiamo domandarci: qual è il contributo che l’economia globale e le corporations multinazionali offrono per sostenere la democrazia a livello nazionale o cosmopolitico? Noi dobbiamo fare in modo che l’economia si faccia responsabile del futuro della democrazia rinforzando, ad esempio, la politica transnazionale in Europa. Ma dobbiamo anche tentare di rinforzare le organizzazioni transnazionali dei consumatori e, in generale, la cosiddetta global civil society.

D.Z. Lo sviluppo delle tecnologie elettroniche – automazione, informatica, telematica – aumenta la produttività delle imprese multinazionali che tendono a disfarsi sempre più della forza-lavoro che non sia altamente qualificata. Sta affermandosi un capitalismo globale che è in grado di sottrarsi in larga parte ai costi del lavoro e in prospettiva al lavoro stesso. È questa la tenaglia che anche nei paesi industriali sta stritolando le nuove generazioni, sempre più colpite dalla inoccupazione e dalla disoccupazione. Ma ad essere minacciati più in generale sono tutti i cittadini che non appartengano alla minoranza di coloro che sono in grado di svolgere mansioni tecnologicamente sofisticate. La maggioranza dei cittadini, anche quando trovano lavoro, sono costretti dalla logica della “flessibilità” ad accettare occupazioni precarie e poco retribuite e che spesso da sole non bastano a garantire loro una sussistenza dignitosa.

U.B. Questo è assolutamente vero. Dobbiamo riconoscere che persino nei cosiddetti paesi del pieno impiego come gli Stati Uniti e l’Inghilterra fra un terzo e la metà delle persone che lavorano sono oggi “lavoratori flessibili”, secondo i molti e molto ambigui significati del termine. Accade qualcosa di simile a ciò che è accaduto a proposito del cosiddetto “modello familiare normale”. Ciò che un tempo era tipico sta diventano un fenomeno minoritario. Ed è per questo che dobbiamo ripensare e riformare il Welfare State sulla base di questa mutazione morfologica del lavoro e della vita privata.

D.Z. Ma è davvero possibile riformare il Welfare State? Siamo ancora in tempo per farlo? Nel tuo libro sottolinei il fatto che mentre crescono i profitti delle grandi imprese stanno esaurendosi nei paesi occidentali le risorse finanziarie tradizionalmente destinate alle pensioni, ai servizi sociali e all’assistenza degli anziani. Si esauriscono perché le grandi imprese sono in grado di sottrarsi non soltanto ai costi del lavoro ma anche ai vincoli dell’imposizione fiscale. Ciò provoca naturalmente una crisi dei bilanci statali che possono far conto sempre meno delle entrate fiscali legate alle attività produttive. Non è dunque soltanto il lavoro che viene a mancare: vengono a mancare le risorse pubbliche. Non c’è allora il rischio che ogni forma di Welfare State sia ormai destinata all’estinzione e che i difensori dei diritti sociali nei paesi occidentali si stiano battendo per una causa ormai persa per sempre?

U.B. No, io non lo penso. In Europa oggi abbiamo, in modo inaspettato, una larga maggioranza di governi orientati a sinistra, incluse l’Italia, la Germania, la Gran Bretagna e la Francia. Il dibattito attorno alla “Terza via” riguarda sostanzialmente la riforma del Welfare State nell’era della globalizzazione. Nel suo libro, The Third Way, Antony Giddens traccia le linee di una società di positive welfare e di strategie di investimento. Questo è l’inizio della discussione sulle strutture di un’Europa sociale e democratica che si continuerà sicuramente nei prossimi anni.

D.Z. Tu ritieni dunque, assieme a Giddens e ai socialdemocratici europei, che ci siano delle risposte politiche capaci di neutralizzare i rischi più gravi della globalizzazione economica e di rilanciare il progetto di una nuova modernità. È questo, secondo me, l’aspetto più suggestivo, ma forse anche il più problematico, del tuo libro. Tu enfatizzi le possibilità correttive di una serie di interventi che sottopongano a regole politiche e a logiche cooperative le forze anarchiche dei mercati globali. Fra questi interventi tu segnali in particolare l’incremento della cooperazione internazionale, l’affermazione di una concezione “inclusiva” della sovranità degli Stati, il ricorso a meccanismi di partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese, policies di grande impegno nel settore della formazione, il sostegno delle attività professionali autonome (nei settori delle nuove tecnologie, delle culture sperimentali, dei mercati di nicchia e delle imprese pubbliche).

U.B. Sì, è così. Ma sono consapevole delle resistenze politiche e delle critiche avanzate da parte di ambienti intellettuali. Il Zeitgeist postmoderno induce a credere fortemente nella fine della politica e della razionalità sociale. Io intravedo al contrario l’emergere di una grande stagione politica. Ma, lo ammetto, nel quadro di una “modernità riflessiva” l’autodefinizione soggettiva di una situazione si identifica con la situazione stessa. Questa è una delle ragioni che mi portano ad essere così nettamente contrario al pensiero postmoderno: potrebbe rivelarsi una profezia autoadempientesi. E sarebbe per di più una profezia molto noiosa e pericolosa.

D.Z. Mettiamo pure da parte il pessimismo intellettuale dei postmoderni ed ipotizziamo che la tua profezia politica sia capace di autoadempiersi virtuosamente. Resta il problema dei nuovi spazi e dei nuovi soggetti di una politica transnazionale. Le tue indicazioni vanno nel senso di un recupero della politica a livello globale, dopo che la politica degli Stati nazionali ed entro gli Stati nazionali sembra sempre meno efficace e sempre più lontana dal modello rappresentativo. Ma quali sono, secondo te, le arene transnazionali ove si possono realizzare gli obbiettivi che tu indichi? E dove sono le forze politiche ed economiche potenzialmente interessate a questo tipo di interventi correttivi? O pensi ad una rivoluzione negli stili di vita dei cittadini occidentali che li allontani dai valori del mercato e li renda immuni dalla sua potente e intrusiva ideologia acquisitiva?

U.B. Sì certo, hai ragione, sono necessari dei nuovi soggetti politici: dei partiti cosmopolitici capaci di operare in termini di rappresentanza transnazionale degli interessi, ma che lo facciano entro le arene politiche degli Stati nazionali. Questi soggetti possono perciò affermarsi, sul piano programmatico ed organizzativo, soltanto in forme plurali: e cioè come movimenti nazionali e globali nello stesso tempo, come partiti locali in rappresentanza di “cittadini globali”. I partiti cosmopolitici dovrebbero porsi in competizione con i partiti nazionali entro competizioni politiche (apparentemente) nazionali. Essi sarebbero i primi attori in grado di sperimentare sul piano politico le strategie già da tempo adottate delle corporazioni industriali e di liberarsi dalla gabbia territoriale dello Stato nazionale. E dovrebbero essere attivi a vari livelli e porre gli interessi degli Stati nazionali in concorrenza fra loro. Ma, ci si può chiedere, dove sono gli elettori disposti a farsi rappresentare da questo tipo di partiti cosmopolitici? Secondo me è nelle grandi metropoli, nelle “città globali” che possono emergere una comprensione postnazionale della politica e una corrispondente concezione postnazionale dello Stato, della giustizia, dell’arte, della scienza e delle relazioni pubbliche. Ma non voglio dire certo con questo che sia sufficiente essere collegati con la rete di Internet per divenire cittadini globali.

 

6. Quale ordine politico mondiale?

D.Z. Resta tuttavia aperto, secondo me, il tema delle forme e delle istituzioni della politica transnazionale: un tema che nel tuo libro non affronti in modo esplicito, salvo l’assunzione del processo di integrazione europea come un importante punto di riferimento pratico e teorico. Ma i fenomeni di integrazione regionale oggi in atto in alcune delle aree più ricche del pianeta sembrano difficilmente esportabili a livello globale. Possono anzi essere visti come un rafforzamento della logica particolaristica della sovranità statale, anziché come un passo innanzi verso l’auspicato traguardo di una governance democratica del mondo. La formazione di un “super-Stato europeo”, e cioè di una entità politico-economico-militare dotata di poteri eccezionalmente elevati, è una prospettiva rassicurante ai fini di una attenuazione dei rischi della globalizzazione economica?

U.B. Non credo in un superstato europeo. Anche questo sarebbe un modello di modernizzazione di carattere lineare, anziché riflessivo. L’Europa è un eldorado di differenze e personalmente penso che dovrebbe restare tale anche nell’era della globalizzazione. Ma nello stesso tempo l’Europa è il laboratorio dove sperimentare una società ed una politica cosmopolitica. L’adozione della moneta unica ci spinge in questa direzione. Quanto più l’Euro avrà successo tanto più urgentemente l’Europa avrà bisogno di un’anima democratica. Una volta realizzata l’unione monetaria l’Europa deve irrobustirsi grazie a nuove idee politiche e a dibattiti, istituzioni e associazioni civili che travalichino le frontiere degli Stati membri. Soltanto un’Europa intellettualmente vitale è in grado di rielaborare la vecchia idea europea di democrazia per la nuova era globale.

D.Z. Consentimi in conclusione qualche domanda relativa alle funzioni che secondo te il diritto internazionale può svolgere per contenere le spinte eversive della globalizzazione economica e per garantire un nuovo ordine mondiale. Nel tuo libro citi Zum ewigen Frieden di Kant e a tratti sembri simpatizzare con l’ideale di un “diritto cosmopolitico” e di un “pacifismo giuridico”. Ti chiedo: pensi, assieme a Kelsen e ai suoi epigoni, che il diritto e le istituzioni internazionali siano lo strumento principale per garantire l’ordine mondiale e in particolare una pace stabile ed universale? Condividi, in altre parole, le tesi kelseniane di Peace through Law?

U.B. Le condivido senz’altro. All’alba della seconda modernità dobbiamo chiederci: chi sono, sul piano intellettuale, i padri fondatori della società globale cosmopolitica? Per me, fra gli altri, sono di grande attualità Kant e Kelsen ma anche, per esempio, Nietzsche, Hannah Arendt e Montaigne.

D.Z. E qual è secondo te il probabile destino delle Nazioni Unite? La globalizzazione ne favorisce, o ne richiede, un rafforzamento o è destinata a travolgerle? Sono in grado non solo di garantire la pace fra gli Stati, ma di contrastare la diffusione della produzione delle armi da guerra e di vincere la sfida delle grandi organizzazioni criminali – commercio delle armi, delle droghe, delle donne e degli emigranti – che ormai hanno assunto dimensioni globali?

U.B. La democrazia transnazionale dovrà tenere conto di alcuni fondamentali cambiamenti intervenuti nell’organizzazione transnazionale del crimine e della violenza. Le distinzioni classiche fra “guerra” e “pace”, “interno” ed “esterno”, “società civile” e “barbarie” – distinzioni associate all’autonomia dello Stato nazionale – sono ormai superate. Nello stesso tempo è possibile identificare nuove tendenze civili che potrebbero fornire le basi per una pace stabile. Le Nazioni Unite devono sicuramente essere rafforzate. Ma il fenomeno della globalizzazione del crimine e della violenza richiede anche una risposta da parte di una struttura di cooperazione di tipo statale.

D.Z. C’è chi ha parlato recentemente di una global expasion of judicial power. Che cosa pensi in particolare a proposito dei nuovi Tribunali penali internazionali: quelli già operanti per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda e quello, permanente e universale, il cui statuto è stato approvato a Roma nel giugno scorso? Ritieni che possano offrire un contributo significativo al mantenimento della pace e alla tutela dei diritti dell’uomo? Pensi anche tu, come Jürgen Habermas, che l’obbiettivo ultimo debba essere una giurisdizione penale universale e, al suo servizio, una forza di polizia sovranazionale?

U.B. Naturalmente, una corte internazionale sarebbe, nel lungo periodo, una grande conquista a favore di un ordine cosmopolitico. Si tratta di un progetto totalmente irrealizzabile? Io penso di no. È un progetto altrettanto irrealistico quanto lo fu la richiesta di democrazia 150 anni fa nella chiesa di San Paolo a Francoforte (durante la rivoluzione tedesca). Ma io spero che in questo caso si faccia.

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