Per la prima volta sulla piana di Sibari, il 21 giugno scorso, Papa Francesco – senza accennare agli scivolosi distinguo tra scomuniche latae sententiae e ferendae sententiae – ha dichiarato che i mafiosi “sono scomunicati”. Nel corso degli anni più volte la Chiesa aveva affrontato il tema della scomunica dei mafiosi senza mai pervenire a una tale cristallina chiarezza. Lo aveva fatto nel 1944, nel 1952 e nel 1982 esprimendo attraverso l’episcopato siculo l’estensione generica ai mafiosi della scomunica che colpisce “tutte le manifestazioni di violenza criminale”. Era tornata sul tema nel 1994 per ribadire “l’insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo” di “tutti coloro che, in qualsiasi modo, deliberatamente, fanno parte della mafia o ad essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa”. Aveva ancora accennato a tale insanabile opposizione in successivi documenti ufficiali del 1996, del 2010 e del 2012.
Questa volta, però, è diverso. In primo luogo perché la parola “scomunica” appare in maniera chiara. In secondo luogo perché alla scomunica nei confronti dei mafiosi il Papa affianca la dura critica contro “gli idoli del denaro, della vanità dell’orgoglio, del potere, della violenza”.
Così, papa Francesco supera le riflessioni del documento della Conferenza episcopale Italiana che nel 2010 – nell’affrontare il tema dello sviluppo e della solidarietà e il rapporto tra Chiesa italiana e Mezzogiorno – non aveva fatto cenno al problema della corruzione.
Il papa denuncia, invece, senza remore, corrotti e corruttori che con le mafie fanno i loro affari e che delle mafie spesso sono parte attiva e insostituibile. Affronta con coraggio il punto nevralgico del denaro, delle donazioni, spesso ibrido ponte tra chiesa e malaffare: “Scandaloso chi dona alla Chiesa ma ruba allo Stato”, dichiara papa Francesco, definendo la vita dei “cristiani e dei preti corrotti” “una putredine verniciata”. Puntando il dito contro la “dea tangente” e dicendo no “agli interessi di partito e ai ‘dottori del dovere’ e ai ‘sepolcri imbiancati’” (Il Fatto Quotidiano, 11.11.2013 e 27.03.2014).
E sul tema dei corrotti è tornato con chiarezza durante l’incontro con la delegazione dei penalisti italiani, affermando che: «La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione» (Udienza a una Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23 ottobre 2014).
È un passo avanti di non poco conto che prende atto del complesso reticolo criminale che mischia violenza, denaro e potere e che può rendere protagonista la Chiesa di un radicale processo di rinnovamento.
Nel corso degli ultimi dieci anni – dall’assassinio di Padre Puglisi e dall’anatema pronunciato nella Valle dei Templi da Giovanni Paolo II – il rapporto tra mafia e religione, tra mafia e Chiesa, si è modificato. Ma in quale direzione è avvenuto tale cambiamento?
Nino Fasullo, sacerdote redentorista, commentando il nuovo corso iniziato nel 1993 ne individua i tratti distintivi nel «fatto che né la chiesa è disposta a tacere sulla mafia né la mafia ha più bisogno della chiesa. Avanza la secolarizzazione e la laicizzazione della chiesa e della mafia, per cui le due prendono strade autonome e divergenti» (in “Segno”, anno XXXIV, n. 298, 2008, pp. 7-13 ).
Personalmente ritengo che la situazione sia più complessa. Seppur non manchino segnali che vanno nel segno della secolarizzazione – il caso di Matteo Messina Denaro, primo mafioso che si dichiara esplicitamente non credente è emblematico – la realtà presenta aspetti molto più sfumati e alle rivendicazioni di laicismo fanno da controaltare evidenti richiami a nuove forme di pseudo sacralità. Per questo, non credo imminente, almeno nel nostro paese, né l’abbandono della simbologia religiosa né il ricorso alla fede da parte dei mafiosi. Il valore simbolico e l’accreditamento che le sacre liturgie conferiscono alle mafie è difficilmente sostituibile con altre dimensioni simboliche altrettanto condivise e d’impatto. Quello religioso è un linguaggio universale denso di emotività al quale non è semplice – soprattutto in alcuni ambienti sociali – riuscire a rinunciare. Ma anche se ciò avvenisse non sarebbe una vittoria per la chiesa se essa non prendesse coscienza delle nuove/vecchie forme in cui il crimine e l’illegalità si manifestano, delle nuove/vecchie alleanze che possono prodursi.
Le cronache giudiziarie parlano di strani movimenti di capitali di dubbia provenienza che transitano attraverso le banche vaticane. E anche su questo papa Francesco ha cercato di dare un segno di discontinuità e di chiarezza istituendo specifici organi di controllo affiancati da referenti da lui delegati a seguirne i lavori.
Non si tratta, infatti, più di affrontare la semplice criminalità organizzata ma un sistema criminale nel quale sguazza la corruzione e nel quale, attraverso i crimini dell’economia, si fondano nuove relazioni asimmetriche che snaturano la democrazia e giustificano la disuguaglianza sociale.
La nuova criminalità mafiosa, del resto, utilizza sempre più la corruzione come strumento-chiave per la penetrazione nel tessuto politico e istituzionale dello Stato, evitando di ricorrere a metodi cruenti di acquisizione delle posizioni di potere. Un recente documento della Commissione Europea lancia l’allarme sulla corruzione in Italia, che da sola copre la metà del totale della corruzione stimata in tutta l’Europa (La Stampa, 3.02.2014). Uno studio effettuato dal Center for the Study of Democracy, porta dati statistici a sostegno dell’ipotesi che esista un’elevata correlazione tra la diffusione della corruzione e l’incremento di attività illecite della criminalità organizzata. Un circolo vizioso dove corruzione è causa ed effetto della presenza della criminalità organizzata, in una dimensione sistemica del potere criminale divenuta abituale nel nostro Paese.
Lungo la scia dei soldi mafiosi è frequente incrociare potenti interessi politici, ingenti capitali della finanza, oscuri accordi con insospettabili soggetti istituzionali. Nel sistema delle reti criminali avviene il transito depenalizzante dell’illecito dentro i territori di una “nuova” legalità. Il degrado della democrazia, legato alla diffusività delle pratiche corruttive abbassa i “costi morali” connessi all’ingresso nelle aree grigie, dissolvendo riprovazione morale e pubblica indignazione.
Se, allora, davvero la Chiesa vuole scegliere l’opzione evangelica in favore dei poveri, è necessario che tranci finalmente lo stretto legame che – nel corso della sua storia – la ha esizialmente legata all’alleanza con i potenti. Portandola a stringere incomprensibili legami con i dittatori spagnoli e latino-americani, a salutare il dittatore Mussolini come l’uomo che “la Provvidenza ci ha fatto incontrare”.
Del resto, l’Italia culla del cattolicesimi è anche culla dello stragismo e della corruzione. Paese che abbonda di una massa di politici cattolici corrotti che non provano colpa né vergogna e che vengono additati come buoni cristiani perché elargiscono alla Chiesa le briciole dei soldi che hanno rubato.
Ecco perché le parole di papa Francesco possono avere un effetto dirompente.
Ad esse si affiancano altre decise prese di posizioni contro mafie e corruzione. Come la critica di mons. Ravasi contro l’indifferenza etica e religiosa che, come “una mucillagine”, ha travolto il mondo della finanza, agendo come “sistema collaudato” nel quale dilaga l’amoralità, la “totale indifferenza sul bene e sul male nel segno del proprio interesse”.
Se lungo e travagliato è stato l’iter che ha condotto a dichiarare pubblicamente l’ovvia inconciliabilità tra mafia e Vangelo, resta difficile capire perché sulla mafia vi siano state tante esitazioni e tanti dubbi che la Chiesa non ha manifestato su problemi di analoga e vitale importanza, come l’aborto, il divorzio, l’eutanasia.
“Amo la Chiesa che interferisce”, ha scritto recentemente don Luigi Ciotti, rispondendo a distanza di vent’anni alle parole con le quali il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia spiegava le bombe mafiose contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro proprio con le “interferenze” della chiesa contro la mafia.
E commentando le ultime minacce rivoltegli da Totò Riina ha ribadito la sua critica spietata alla corruzione: “Queste minacce sono la prova che questo impegno è incisivo e graffiante, gli toglie la terra sotto i piedi […] Per me l’impegno contro la mafia è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, delle violenze, al suo stare dalla parte delle vittime, dei giovani, degli esclusi” (Luigi Ciotti, Amo la Chiesa che interferisce, in “Narcomafie”, n. 9, 2014, p. 64).
Dentro la Chiesa il processo di cambiamento è iniziato, ma le spaccature sono ancora evidenti. Sono emerse anche in occasione del Sinodo straordinario sulla famiglia che ha visto il mancato raggiungimento della maggioranza su questioni calde come quelle del divorzio e della omosessualità.
La svolta impressa da papa Francesco porta oggi al centro del dibattito le questioni spinose cui abbiamo accennato. Bisognerà capire però, quanta parte del clero vorrà interpretare la propria missione pastorale seguendo coraggiosamente la direzione tracciata da queste parole e andando oltre l’annuncio e i proclami.
Già, dentro e fuori dalla Chiesa, si alimenta il dibattito su come applicare, nel quotidiano, nel rapporto concreto con le persone, gli effetti della scomunica papale. L’auspicio è che – nel cercare le soluzioni concrete e nell’esprimere i necessari chiarimenti procedurali – la Chiesa non si spacchi ancora una volta, dilacerata dai distinguo e da un’ambigua pietas, indebolendo la forza di quest’atto dirompente e lasciando spazio per l’apertura di insidiose crepe nelle quali i “devoti” corrotti, collusi e mafiosi abilmente sanno infiltrarsi.