Il tredici agosto 1961 Berlino scoprì l’esistenza del muro. Per scelta del regime comunista quel giorno vennero tagliati tutti i collegamenti tra i due settori di Berlino, Est e Ovest. Sotto gli occhi esterrefatti della popolazione dell’uno e dell’altro versante cominciò a prendere forma una barriera insuperabile, accompagnata dall’ordine di sparare su chiunque tentasse di attraversarla.
Tre marzo 1992. In un famoso articolo pubblicato su «La Stampa» Mikhail Gorbaciov scrisse: “Tutto ciò che è successo nell’Europa Orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza questo papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale.” Queste parole ci svegliano, ricordandoci per quanto tempo quel sistema venne rispettato e da molti anche glorificato. Dunque ricordare quel che fece Giovanni Paolo II è importante, non per la ricorrenza, ma per capirla. Cosa fece? Proprio tenendo a mente il timore e la glorificazione scopriamo che Giovanni Paolo II ebbe la forza di dire “il re è nudo.”
Sfide di un pontificato
E’ strano: proprio questa ipotesi dà attualità all’opera del papa polacco, e lo vediamo meglio soffermandoci su un dettaglio che lo avvicina al papa di oggi, Francesco. Il pontificato di Giovanni Paolo II infatti era cominciato da poco quando, ad Assisi, un interlocutore gli disse di non dimenticare la Chiesa del silenzio. Lui rispose che quella Chiesa non esisteva più, perché dalla sua elezione parlava con la sua voce. Anche il pontificato di Francesco è cominciato con un invito simile. Seduto accanto a lui durante il conclave del 2013, il cardinale Claudio Hummes quando apparve chiaro che Jorge Mario Bergoglio stava per divenire papa gli disse, “non dimenticarti dei poveri.” E poco dopo, dal balcone, il papa venuto non dall’est ma dal sud annunciò il suo nome: Francesco. Come a dire che da quel momento i poveri avrebbero parlato con la sua voce.
Non si tratta di rendere simili due papi molto diversi. Ma trent’anni dopo il crollo del muro di Berlino proprio questo ci porta a comprendere che il muro di ieri resiste nel muro di oggi. Wojtyla e Bergoglio hanno indicato la nudità di diversi monarchi, ma proprio le periferie di Jorge Mario Bergoglio, sfida vivente alla globalizzazione piatta, possono condurci trent’anni dopo al cuore dell’urgenza di Giovanni Paolo II.
Da figlio dell’est Wojtyla voleva una Chiesa compatta, da figlio del global south Bergoglio la vuole poliedrica. Ma la diversità non impedisce al nuovo di farci meglio comprendere il vecchio. Per esempio: dei crimini del sistema sovietico oggi sappiamo tutto. Ma di noi, del nostro rapporto con quel sistema? Perché di Wojtyla abbiamo considerato primario l’aiuto materiale a Solidarnosc, cioè i finanziamenti, anche vaticani sebbene in prevalenza americani? Per chiunque ricordi che Stalin a Yalta avrebbe chiesto di quante divisioni disponesse il papa può essere così, sebbene quegli aiuti, quei finanziamenti, oggi ci appaiano il lascito più problematico per la Chiesa. Ma è questo il punto? O non impedisce l’emergere di un’altra storia?
Un viaggio storico
Andiamo con ordine. Appena eletto papa Karol Wojtyla cominciò a pensare al suo primo viaggio in Polonia. Le istruzioni arrivarono abbastanza presto e i suoi collaboratori informarono le autorità di Varsavia che il nuovo pontefice intendeva visitare il Paese in occasione dei 900 anni dal martirio di San Stanislao, nel maggio del 1979. Sarebbero stati sufficienti due giorni di visita, avrebbero subito specificato dalla Santa Sede. I polacchi, ovviamente, non sapevano come dire di no, pur volendolo fare. E così il segretario del PCUS del tempo, Leonid Breznev, liquidò il suo omologo polacco, Edward Gierek, dicendogli di fare come ritenesse, purché poi non si fosse pure lamentato delle conseguenze. L’avvertimento ebbe i suoi effetti e da Varsavia presentarono tantissime richieste al Vaticano, tra le quali quella, tassativa, di spostare la data: secondo una ricostruzione pubblicata dagli spagnoli di ABC il punto centrale sarebbe stato “niente maggio, niente memoria di Stanislao”: solo una data successiva sarebbe andata bene. La Santa Sede fece passare del tempo, poi si dimostrò disponibile allo spostamento, chiedendo solo di prolungare la visita di altri quattro giorni. L’accordo venne dunque definito, il rischio maggiore sembrava evitato. Ovviamente le operazioni di polizia e di intelligence, di sorveglianza e spionaggio, coinvolsero mezza Europa, da Francoforte a Berlino est, da Mosca a Varsavia, con Stasi, polizia e altri servizi coinvolti in ogni modo. Le stesse infiltrazioni tra i pellegrini furono ovviamente numerosissime. Giovanni Paolo II lo sapeva meglio di tutti, già prima del 2 giugno 1979, quando atterrò in Polonia. Quel giorno, a Varsavia, chiese allo Spirito di discendere sulla terra e rinnovarla, aggiungendo solo la parola “questa”: “rinnova questa terra”.
Quella parola in realtà non aggiungeva nulla, ma cambiava tutto. Lì, a Varsavia, un polacco poteva dire quello che tutti pensavano e nessuno osava dire. Il muro della paura venne giù in quel momento? Probabilmente non per tutti, probabilmente non per sempre, ma indicò a tutti la finestra mancante. Prima del sostegno materiale a Solidarnosc, il fatto concreto che vale la pena di evidenziare è proprio questo: i muri schiacciano fino a che gli si consente di fare paura. Pensarlo vuol dire pensare che quel viaggio non sia finito.
Politica della pazienza
La scelta di Wojtyla non partiva dai calcoli della realpolitik, del realismo, ma lo poneva al servizio di principi e interessi dei popoli. La riprova di questo l’abbiamo nel binomio Wojtyla-Casaroli. E già, proprio lui, che ai tempi di Paolo VI aveva elaborato e gestito la famosa “ostpolitik”, la linea della pazienza e del dialogo con i regimi dell’est, fu scelto dal papa come nuovo Segretario di Stato, in servizio proprio dal ‘79. La prudenza al servizio del coraggio, non il contrario, fu alla base dell’approccio di Giovanni Paolo II, che non sarebbe stato possibile senza il cardinale Agostino Casaroli. Perché il timore e la glorificazione persistenti al tempo confermano che la grande “novità Wojtyla” fu il suo rifiuto di accettare per calcolo il gigante dai piedi d’argilla. La storia ci ha dato tantissimi esempi di questo, da Kissinger in giù sono state tantissime le indicazioni che il mondo politico considerava impossibile cambiare le cose nell’est. Si escludeva la sfida perché nessuno voleva farla, da fuori. E quella dall’interno? Questo realismo si accavallava a giudizi politici inconsapevoli della forza del tempo (cioè dei processi) rispetto allo spazio (cioè al potere) che si pensava sigillato: lo stesso Helmut Kohl ancora nell’89 affermava che né lui né il suo interlocutore avrebbero vissuto abbastanza da poter vedere l’unificazione della Germania: l’unificazione giunse l’anno successivo.
Giovanni Paolo II ha rotto da dentro ciò che da fuori sembrava infrangibile e lo ha fatto con accanto il cardinale Casaroli, perché se il pastore doveva pensare al gregge il capo di stato doveva cercare nuove relazioni diplomatiche con i paesi del blocco sovietico. Questo fatto incontrovertibile è dimostrato da quanto disse nel suo primo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, quando espresse il desiderio di rivedere in Vaticano i diplomatici di quei Paesi che un tempo avevano relazioni con la Santa Sede. Si trattò di un riferimento esplicito. È questo il contesto in cui gli aiuti materiali a Solidarnosc trovano un senso. Non istigare una sedizione, ma credere in un processo.
Infatti all’inizio cosa c’è stato? C’è stato il rifiuto del modello ungherese, nel quale la Chiesa del cardinale Lékai di fatto si affiancava al regime in cambio di un quieto vivere. Commentando un intervento del primate polacco Wyszynski prima del conclave con esplicito riferimento al primate ungherese del tempo Wojtyla disse: “È la degna risposta alla pusillanimità del cardinale Lékai”. E cosa aveva detto Wyszynski? Che il sistema sovietico non era un fato, ma una realtà in crisi. Ecco allora che il vecchio e provato, in tutti i sensi, cardinale di Praga, Tomàsek, quando si mostrò ormai incapace di combattere ancora e quindi pronto suo malgrado a prendere le distanze dal fermento critico verso il regime di Charta 77, ricevette dal Papa missive private, incoraggiamenti fino al nuovo inizio con Charta 77.
Parole di pietra
Elemento connesso è stato il lavoro costante nel e dal mondo della diplomazia. I tre viaggi in Polonia prima della caduta del muro, nel 79, nell’83 e nell’87 ne sono stati la principale conferma: e chi lo ha detto meglio di altri è il ministro degli esteri di Gorbacev, Eduard Shevardnadze, dopo il viaggio dell’87: “Solo la sua parola poteva scongiurare una guerra civile.” Esagerazioni? Il professor Andrea Riccardi ha dato conto di un’indicazione al riguardo che spiega davvero tanto. Ha riferito infatti un giudizio sovietico che paragonava i viaggi di Wojtyla con il ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini. Così emergono due aspetti: il primo riguarda la paura, che rispetto ai tempi non lontani di Yalta e del sarcasmo sulle divisioni del papa era dunque passata nel campo sovietico, che con quel paragone coglieva appieno l’importanza dell’azione della Chiesa. Il secondo è la capacità, sempre da parte sovietica, di cogliere quanto la mobilitazione di milioni di persone è davvero difficile da controllare. No, non esagerava Eduard Shevardnandze.
I tre viaggi di Giovanni Paolo II in Polonia prima della caduta del muro sono stati dunque il cuore di una stagione storica che non si è esaurita certo in quei tre viaggi. Questo capitolo cruciale, il passaggio dalla rassegnazione alla trasformazione, non può dirsi pienamente raccontato se non si tiene conto del dialogo e delle evidenti contraddizioni interne. Tutto questo passa per Gorbacev, Jaruzelski e il patriarcato di Mosca.
Il primo corno, il dialogo, si capisce bene leggendo una frase di Wojtyla rivolta a Gorbacev durante il loro primo incontro in Vaticano, “quegli sforzi che voi state conducendo non sono solo di grande interesse per noi. Ma noi li condividiamo” ed un’altra attribuita a Wojtyla dall’esperto di questioni polacche Tad Szulc e rivolta al generale Jaruzelski nel 1983, durante il suo secondo pellegrinaggio polacco: “Generale, non si offenda. Non sono contro il socialismo, ma voglio soltanto che abbia un volto umano.” Facendone espressa citazione nella sua biografia di Giovanni Paolo II il professor Andrea Riccardi scrive: “Il papa pensa a un’evoluzione del socialismo verso forme democratiche?” Proprio Jaruzelski nel 1990 avrebbe detto al cardinal Casaroli: “Il tempo ci ha insegnato l’umiltà. Ci ha insegnato la sensibilità ai valori universali.” Tutto questo va insieme all’altro corno della questione, quello che abbiamo chiamato della “contraddizione”. Riguarda infatti lo stesso mondo cristiano e si manifesta nella fotografia scattata da Wojtyla nell’87 della politica del patriarcato di Mosca, anello estremamente importante del complesso meccanismo orientale. Ecco cosa disse quell’anno al riguardo ad Andrea Riccardi: “Il problema della Chiesa russa è il cesaropapismo. Ora come ai tempi degli zar: continua la stessa mentalità. È per questo che dipendono dallo Stato sempre ed in tutto. Certo anche loro hanno avuto i loro martiri. E quanti sono! Ma non possono dirlo e non possono parlarne. E poi c’è l’idea della terza Roma che in fondo non si è spenta. Fare della Chiesa di Mosca la nuova Roma. Il cesaropapismo è il problema.”
Rileggere dunque la storia del ruolo di Karol Wojtyla nella caduta del muro di Berlino trent’anni dopo, dopo esserci illusi di essere stati testimoni della fine dell’epoca dei muri, vuol dire scoprire che la memoria ci inganna se non ci aiuta a vedere che quegli anni non sono ancora passati; chi gioiva per il crollo del muro di ieri oggi magari esulta erigendone un altro… mentre i cesaropapisti sono sempre molto potenti, adesso anche nel mondo cattolico.