L’Iran continuerà a rispettare l’accordo sul nucleare, anche se gli Stati uniti d’America hanno deciso di tirarsi fuori, finché gli altri firmatari faranno altrettanto e finché gli interessi iraniani saranno garantiti. Lo ha dichiarato l’ayatollah Ali Khamenei, il Leader supremo e prima autorità della Repubblica islamica dell’Iran – pur aggiungendo che la decisione americana dimostra ciò che aveva sempre pensato, che il nucleare è un pretesto: “Abbiamo rispettato l’accordo e limitato le nostre attività, ma l’ostilità americana non è finita”. Il presidente Rohani ha voluto soprattutto rassicurare i suoi concittadini: il paese saprà proteggere i suoi interessi e la sua economia. La Banca centrale iraniana ha comunicato che dispone di abbastanza valuta forte da far fronte alle necessità. L’Iran potrà assorbire il colpo, questo è il messaggio.
La realtà è che tra gli iraniani prevalgono incertezza e pessimismo, ed era così anche prima che il presidente Donald Trump annunciasse la sua decisione. “Gli iraniani temono instabilità, crisi. Riesce difficile sperare nel futuro”, dice l’economista e politologo Saeed Leylaz. Vicino ai riformisti (dopo le contestate elezioni presidenziali del 2009 ha pagato con la galera le sue critiche all’allora presidente Mahmoud Ahmadi Nejad), oggi Leylaz è tra i consiglieri del governo Rohani: l’ho incontrato a Tehran alla vigilia dell’annuncio di Washington. “Anche prima di stracciare l’accordo, l’amministrazione Trump ha lavorato per destabilizzare l’economia iraniana”, mi ha detto. È bastato mantenere l’Iran ai margini del circuito finanziario internazionale: le banche europee sono state riluttanti a lavorare con quelle iraniane, per non rischiare ritorsioni da parte americana. L’Iran ha potuto ricominciare a esportare petrolio, certo, e l’interscambio commerciale con l’Europa è aumentato; ma gli investimenti in grandi opere, infrastrutture, porti, energia, sono per lo più rimasti alo stato di “memorandum d’intesa”. Se e come le potenze europee riusciranno a proteggere le proprie relazioni con l’Iran per tenere vivo il Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, si vedrà nelle prossime settimane. Intanto l’incertezza resta.
Gli uffici di cambio di piazza Ferdowsi, nel centro di Tehran, sono un buon promemoria delle difficoltà che attraversa l’Iran. Il 10 aprile scorso il governo ne ha ordinato la chiusura, sospendendo il mercato libero della valuta, per arginare il crollo del rial che in poche settimane aveva perso fino al 35 per cento del suo valore. Nel 2013, quando il presidente Rohani ha inaugurato il suo primo mandato, servivano 36 mila rial per comprare un dollaro; alla fine del 2017 ne servivano 40mila, il mese scorso 60 mila. “La crisi del rial ha ragioni più politiche che strettamente economiche”, sostiene Saeed Leylaz. In parte ci sono state manovre speculative condotte da piazze finanziarie estere con il preciso scopo di mettere in difficoltà l’Iran. Poi c’è una massiccia fuga di capitali: “Negli ultimi due anni oltre 30 miliardi di dollari hanno lasciato il paese”, osserva, “e nelle ultime settimane anche molti piccoli risparmiatori, spaventati dalle tensioni crescenti, sono corsi a comprare dollari, ovviamente in banconote”. Insiste: “L’Iran ha abbastanza riserve in valuta forte per finanziare le sue importazioni, anzi avrebbe un surplus. Ogni mese le banche iraniane aprono lettere di credito per cinque o sei miliardi di dollari. Ma l’esportazione di capitali ha cambiato il quadro, perché comporta una corsa a comprare cash, banconote”. Ora è possibile cambiare valuta solo in banca, in quantità limitate e al tasso ufficiale di 42mila rial per un dollaro e 48mila per un euro. Ma è chiaro che, spinte speculative a parte, “per fermare la fuga di capitali bisogna convincere gli iraniani che si prepara un futuro stabile”, osserva Leylaz: “E questo è fuori dal controllo del governo Rohani”.
Anche l’ondata di proteste che ha interessato molte città iraniane alla fine di dicembre rientra nel quadro. La dinamica è ormai nota: una protesta contro il carovita nella città di Mashhad – seconda città del paese, sede di un importante santuario sciita – è stata promossa da forze ultraconservatrici; queste però hanno perso il controllo della situazione e le proteste si sono estese a numerose città di provincia, con slogan conto tutto l’establishment, la corruzione, i privilegi, e contro il Leader supremo, Khamenei. “Attenzione a ingigantire: i manifestanti erano poche decine di migliaia in tutto il paese”, osserva Leylaz (numerose testimonianze dirette parlano di singole manifestazioni di poche migliaia; un’analisi pubblicata dal ministero dell’interno iraniano parla di circa 40 mila). Anche così però “è stato un segnale d’allarme per l’intero sistema e forse soprattutto per i conservatori, che non si aspettavano un’esplosione di rabbia fuori dal loro controllo”.
Chi ha partecipato alla protesta? Soprattutto le classi sociali più modeste, piccola borghesia, lavoratori, disoccupati di lungo corso. Non che l’economia sia peggiorata, anzi: ma queste sono le persone che non hanno visto migliorare la propria situazione, e non hanno fiducia nel futuro.
“È la legge delle aspettative. I dati economici sono leggermente migliorati negli ultimi due anni, ma non abbastanza in fretta”, riconosce Leylaz. La produzione industriale ha ripreso a salire, superando il livello del 2010 (cioè prima del crollo avvenuto negli ultimi due anni dell’amministrazione Ahmadi Nejad). La disoccupazione ha leggermente scesa, i salari reali dei lavoratori stanno recuperando e “i consumi aumentano, come testimoniano le 900 mila automobili in più vendute ogni anno”, continua Leylaz. Ma gli ultimi a sentire i miglioramenti sono le classi più basse; negli ultimi anni i conflitti di lavoro sono stati numerosi, benché localizzati.
La spinta delle proteste alla fine ha avuto qualche effetto. In febbraio il governo ha decretato un aumento del salario minimo del 20 per cento: considerato che l’inflazione non supera il 10 per cento “è stato, in termini reali, il più netto riequilibrio a favore dei lavoratori dai tempi della rivoluzione”, afferma Leylaz. “Ma restano nodi fondamentali da risolvere. Abbiamo 6 milioni di giovani nel sistema dell’istruzione superiore, e ogni anno un milione e mezzo di giovani qualificati entra nel mercato del lavoro. Per creare posti in misura adeguata servono investimenti”. (Un noto sociologo, in una conversazione informale, rimprovera al governo Rohani proprio di non aver deluso i giovani: “Abbiamo una giovane forza lavoro, istruita e con grandi aspirazioni. Ma il governo non ha saputo farne una forza dello sviluppo”).
Un’altra fonte di tensioni è la peggiore siccità vissuta dall’Iran negli ultimi cinquant’anni: “Circa 7 milioni di persone rischiano di non avere abbastanza acqua da bere, l’estate prossima, e altri 7 milioni di persone, agricoltori, rischiano i raccolti. Sommati sono il venti per cento della popolazione iraniana”, continua Leylaz: teme un’estate di conflitti. Non solo: “Il sistema di welfare sta collassando, il sistema bancario è precario, va ricostruito un sistema fiscale. E bisogna riportare trasparenza nel sistema economico”, continua.
E questo ci riporta alla lotta di potere in corso a Tehran. L’amministrazione di Rohani ha tentato di imporre alcune misure di trasparenze e di tassare i redditi delle fondazioni religiose, tra cui alcune sono vere e proprie potenze politiche ed economiche: come la miliardaria Astan Quds Razavi, la fondazione del mausoleo di Mashhad, holding a cui fanno capo numerose aziende e manifatture, oltre all’industria del pellegrinaggio (è diretta da Ebrahim Raisi, già candidato presidenziale sconfitto da Rohani nel maggio scorso). È chiaro che tassare le fondazioni religiose significa attaccare i centri di potere più oltranzisti e meno trasparenti della Repubblica islamica: il governo ci è riuscito solo in parte, tassando le aziende controllate. Lo stesso vale per il tentativo di limitare l’influenza economica delle Guardie della Rivoluzione, che controllano interi settori (telecom, porti, infrastrutture) e gestiscono una grande varietà di imprese commerciali.
“Tutto questo però ha una sola posta in gioco”, osserva Leylaz: l’assetto futuro della Repubblica Islamica, quando l’ayatollah Khamenei lascerà questo mondo. Mai nominata in modo esplicito, la successione al vertice della Repubblica Islamica è sul tavolo già da qualche tempo. “Ormai è chiaro che quel giorno ci sarà una svolta. Come? Più che previsioni, possiamo fare auspici. Una continuità formale nelle istituzioni del paese ma una società civile più libera. Molti prevedono libertà nei comportamenti, nella vita civile, ma controllo ferreo sul sistema politico”. Modello Putin? “C’è una sola istituzione in Iran che abbia la capacità di esercitare un simile controllo sul paese, e sono le Guardie della rivoluzione. Ma non sarà necessariamente un sistema dispotico: per governare l’Iran i militari hanno bisogno dei riformisti, di forze politiche dotate di legittimità”. Certo è che l’influenza dei militari sul potere è sempre più ampia. “Mai nella storia dell’Iran il nazionalismo è stato così forte. E salverà l’Iran: qui nessuno vorrebbe vedere il paese destabilizzato, non faremo la fine dell’Iraq o della Siria”. Se l’obiettivo dell’amministrazione Trump era nuocere al regime di Tehran o ai suoi militari, ha avuto l’effetto contrario.
Credit: Atta Kenare / AFP