Iran: Il voto popolare per dei cambiamenti reali

Da Reset Dialogues on Civilizations

Nonostante tutto, in Iran il voto popolare conta. Riconoscerlo è inevitabile, di fronte al risultato di venerdì. Gli iraniani infatti hanno rieletto per un secondo mandato il presidente della repubblica Hassan Rouhani, bocciando il candidato che si presentava come favorito dalla Guida Suprema e da tutto l’apparato di consenso della Repubblica islamica. L’affluenza alle urne è stata massiccia, cosa in sé notevole: ha votato il 75 per cento dei 56 milioni di elettori, secondo i dati del ministero degli affari interni. Rouhani è stato rieletto con oltre 23 milioni di voti, pari al 57 per cento, un mandato ancora più forte di quello avuto quattro anni fa. Il suo diretto avversario, il conservatore Ebrahim Raisi, si è fermato a 15,7 milioni di voti (il 38,5 per cento). Un risultato netto. Sabato sera folle di iraniani si sono riversati a festeggiare nelle strade di Tehran e molte altre città.

“Il messaggio della nazione è chiaro, l’Iran ha scelto la via dell’interazione con il mondo rifiutando la violenza e l’estremismo”, ha detto sabato il presidente rieletto, in un breve discorso trasmesso dalla tv di stato. Ha anche ringraziato l’ex presidente Mohammad Khatami, figura di riferimento dei riformisti, e questo è un gesto significativo: nominare Khatami è esplicitamente vietato da un ordine della magistratura. In altre parole, Rouhani ha voluto inaugurare il suo secondo mandato sfidando apertamente i poteri più conservatori della Repubblica Islamica.

Hassan Rouhani non è un riformista: è un moderato, “pragmatico”, casomai vicino all’ormai scomparso Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Ma ha raccolto l’appoggio di uno spettro politico che va dai riformisti ai conservatori moderati, e ha il favore degli elettori: ovvero ha il più ampio consenso nazionale mai visto almeno dai tempi della rivoluzione. Quattro anni fa Rouhani era stato eletto a grande maggioranza con il mandato di far uscire l’Iran dall’isolamento internazionale e mettere fine alle sanzioni, salvare l’economia, ripristinare un po’ di libertà dopo gli anni soffocanti di Ahmadi Nejad. Ora viene rieletto con una maggioranza ancora più ampia: gli iraniani hanno deciso di dargli ancora tempo. La disillusione, il “tanto non cambia nulla”, gli appelli a boicottare il voto non hanno fatto presa.

Eppure, non tutte le speranze suscitate quattro anni fa si sono realizzate. Senza dubbio il risultato più importante dell’amministrazione Rouhani è l’accordo sul nucleare, firmato nel luglio 2015 ed entrato in vigore nei primi mesi del 2016. Ma l’accordo doveva portare alla fine delle sanzioni, quindi alla ripresa dell’economia, e questo è avvenuto solo in parte; sono sì riprese le vendite di petrolio (che resta la principale fonte di reddito dello stato), ma le relazioni commerciali restano limitate e l’Iran non è tornato a pieno nel circuito bancario internazionale. Nell’ultimo anno e mezzo sono stati annunciati investimenti stranieri e joint venture che poi tardano a concretizzarsi: perché troppi, in Europa, temono di incorrere in ritorsioni da parte statunitense. L’avvento di Donald Trump a Washington ha aumentato l’incertezza.

Così la vita materiale degli iraniani non è migliorata, cosa su cui hanno battuto gli avversari del presidente. Ebrahim Raisi, che aveva scelto come slogan elettorale “lavoro e dignità”, ha ripetuto infinite volte che l’accordo “è fallito”, che l’Iran “è stato umiliato”, “gli iraniani non vedono miglioramenti sulla propria tavola”, che restano recessione e disoccupazione. Sembrava una linea d’attacco facile (alcuni osservatori internazionali hanno definito “populista” il candidato ultraconservatore). Ma non ha fatto presa sugli elettori.

Bisogna anche dire che Rouhani ha contrattaccato con una durezza inusuale. Vale la pena di ricordare alcune delle affermazioni fatte durante la campagna elettorale, perché dicono qualcosa sullo scontro politico che accompagnerà il suo secondo mandato. In primo luogo sulla gestione dell’economia e della cosa pubblica: durante un comizio Rouhani si è rivolto al suo principale avversario, senza nominarlo, dicendo “Volete gestire il paese? Prima diteci come avete gestito Mashad”. Il riferimento è esplicito: Raisi è il capo (“custode”) della fondazione Astan-e Qods Razavi, che è considerata la più ricca fondazione del modo islamico e gestisce il santuario dell’Imam Reza, uno dei più importanti santuari dell’islam sciita. Simili fondazioni non sono solo organizzazioni caritatevoli ma sono veri e propri gruppi economici, e sono esentasse. “Vogliamo leggi che valgano per tutti, non vogliano istituzioni esenti dalle tasse. Perché i comuni cittadini devono pagare le tasse e voi no?”, ha detto Rouhani in un’altra occasione. Il suo governo ha tentato invano di imporre anche alle fondazioni un regime fiscale; si può immaginare che tornerà alla carica. Ma non sarà una battaglia facile: anche perché fondazioni come quella guidata da Raisi sono parte di quel settore “semi-statale” che include anche aziende legate alle Guardie della Rivoluzione, cioè la prima istituzione militare e di sicurezza del paese che costituisce anche un potere economico e politico.

Rouhani ha attaccato in modo inusitato anche i vertici delle Guardie della rivoluzione, pur senza nominarli: ad esempio quando li ha accusati di sabotare l’accordo sul nucleare con inutili provocazioni (come quella di scrivere sui missili usati durante un test la frase, in ebraico, “Israele deve scomparire dalle pagine del tempo”). Ha detto che le Guardie della Rivoluzione e i Basij (la milizia rivoluzionaria usata tra l’altro nella repressione di manifestazioni di protesta) devono restare fuori dalla politica. Ha attaccato i media a loro legati. Ha attaccato Irib, la radio-tv di stato, che “prende finanziamenti dal governo e intanto lavora contro il governo”. Ha parlato di libertà, criticato la censura.

“La nazione respingerà coloro che per 38 anni hanno imprigionato e ordinato esecuzioni”, ha detto inoltre Rouhani durante la campagna elettorale: anche questo è un riferimento esplicito all’avversario Raisi, che ha fatto tutta la sua carriera come magistrato (fa parte del tribunale speciale del clero) e nel 1988 era parte della commissione speciale che ha ordinato l’esecuzione di migliaia di oppositori detenuti: in un’estate furono uccise 3.800 persone, secondo quanto denunciò poi l’ayatollah Hussein-Ali Montazeri. Rouhani così ha nominato uno degli episodi più terribili della repubblica islamica, e anche dei più indicibili. Il tabù è stato rotto da Ahmad Montazeri, figlio del defunto ayatollah, che nell’agosto 2016 ha diffuso la registrazione di una riunione in cui il padre si rivolgeva a quei magistrati, criticando con asprezza le esecuzioni: “un crimine per cui la storia ci condannerà” (è per quello che Montazeri, fino ad allora considerato il successore di Khomeini, è stato invece emarginato e messo agli arresti domiciliari).

C’è anche questo dunque, dietro al voto di venerdì: la maggioranza degli iraniani si è espressa contro il candidato che rappresenta questo oscuro passato, contro un potere disciplinare fuori da ogni scrutinio pubblico, il potere degli arresti arbitrari e delle esecuzioni. Si riferiva a questo il presidente Rouhani, sabato sera, quando ha detto rivolto agli elettori: “Avete detto no a chi voleva riportarci al passato”.

Dunque il presidente Rouhani oggi ha un mandato ancora più forte. Ma questo non significa che avrà vita facile. Da un lato, perché gli elettori gli hanno concesso tempo ma ora si aspettano cambiamenti concreti, dalle libertà civili al lavoro. Dall’altro, perché il quadro internazionale non è favorevole: gli iraniani hanno votato per la diplomazia e la distensione, ma l’amministrazione di Washington manda segnali opposti e le correnti neo-con premono per l’isolamento dell’Iran. (Anche per questo è significativo che il primo e finora unico messaggio di congratulazioni al rieletto Rouhani sia venuto da Federica Mogherini, capo della politica estera dell’Unione europea).

E poi, perché l’apparato che ha sostenuto Raisi non si rassegnerà certo alla sconfitta. A Tehran lo scontro di potere sarà casomai più aspro, che si tratti dei diritti umani e delle libertà civili, o della gestione dell’economia e della cosa pubblica. I poteri paralleli, dalla magistratura agli apparati di sicurezza ai gruppi “semi-statali” che controllano l’economia, non cederanno un centimetro.

Infine, è probabile che nel prossimo futuro lo scontro si concentrerà sulla successione alla Guida suprema, considerato che l’ayatollah Ali Khamenei ha 77 anni (ed è in cattiva salute, a quanto pare). Chi o cosa prenderà il suo posto, se una persona oppure un organo collegiale, e che forma prenderà in futuro la repubblica Islamica, sono temi ormai discussi apertamente a Tehran.

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