Un’amica femminista mi ha chiesto di scrivere un pezzo che rispondesse a questo interrogativo: in che misura il mio lavoro sarebbe stato diverso se mi fossi confrontato con le femministe di fine anni Sessanta e Settanta e avessi imparato da loro? Ho provato a soddisfare la sua richiesta, con uno stile più personale di quello che adotto di solito ma – spero – con la consueta sollecitudine.
Prima di cominciare, devo fare una premessa. Nel 1953 mi sono fidanzato – e successivamente l’ho sposata – con una femminista bolscevica, che non mi avrebbe mai permesso di tenerle aperta la porta, di aiutarla con il cappotto, di pagarle il cinema o di fare qualsiasi altra delle cose che si dava per scontato i ragazzi facessero per le ragazze a quei tempi arretrati. Abbiamo avuto due figlie, paladine dell’uguaglianza e polemiche su questo tema fin dall’esatto momento in cui hanno acquisito coscienza di sé. Ho voluto crescerle in una società in cui fossero libere di fare… qualsiasi cosa volessero. Quindi ben prima di aver letto un qualsiasi opuscolo femminista ero già votato al principio propugnato da August Bebel secondo cui non può esistere una società giusta in mancanza di una “parità dei sessi”.
Ma questo po’ di correttezza politica non necessariamente è stato sinonimo di quella che potremmo definire intelligenza di genere. Se avessi avuto quel tipo di intelligenza, cosa avrei scritto con approccio diverso? L’opera su cui concentrarci è innanzitutto Sfere di giustizia, che ho scritto all’inizio degli anni Ottanta. Il saggio tratta della distribuzione dei beni e dei mali sociali, dei vantaggi e degli oneri della vita comune e comprende una dissertazione sui ruoli e i riconoscimenti tradizionalmente attribuiti a uomini e donne. Quel libro ha suscitato moltissime reazioni, parecchie delle quali di orientamento critico, e a mio avviso le critiche più interessanti sono state quelle prodotte da autrici femministe.
La più autorevole di queste autrici è stata la Susan Moller Okin degli ultimi anni, membro di punta della straordinaria prima generazione di studiose accademiche che hanno scritto di teoria politica negli Stati Uniti, tra le quali ricordiamo Carol Pateman, Jean Bethke Elshtain, Amy Gutmann, Nancy Rosenblum e Iris Marion Young (quest’ultima, come Okin, prematuramente scomparsa). Okin era una studentessa di Harvard e ha scritto la tesi con me; nel 1979 ha trasformato quella tesi nel suo primo saggio, Le donne nel pensiero politico occidentale. Il suo secondo libro, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, è uscito in America nel 1989. Ne ho scritto un risvolto di copertina, definendolo una “critica brillante ed estremamente convincente alle teorie attuali”. Una di quelle teorie era la mia. Ora intendo chiedermi cosa avrei potuto imparare dalla critica di Okin se lei l’avesse scritta e io l’avessi letta prima di Sfere di giustizia.
Perché comprendiate fino in fondo la sua critica devo soffermarmi brevemente sulla tesi di quel libro, che tuttora ritengo perlopiù corretta. Sfere di giustizia è una “difesa del pluralismo e dell’uguaglianza” in cui ci si contrappone all’idea che sia un unico principio o un unico insieme coerente di principi a definire la giustizia distributiva per ogni epoca e ogni luogo. Nel saggio sostengo invece che i beni sociali andrebbero distribuiti in conformità con il significato che hanno nell’esistenza della gente che li produce e che li divide o condivide. Beni diversi si inseriscono in “sfere” diverse, nell’ambito delle quali principi distributivi diversi vengono applicati da agenti diversi, in diversi modi, con diversi risultati. Se l’istruzione è concepita come preparazione alla cittadinanza democratica, dev’essere richiesta e garantita a tutti i futuri cittadini a prescindere dal loro talento e dalla loro intelligenza (da qui le scuole pubbliche e la frequenza obbligatoria). Se invece l’istruzione è intesa come preparazione, per esempio, al sacerdozio, intelligenza e devozione diventano due criteri legittimi per la sua distribuzione, e i sacerdoti più anziani sono agenti distributivi legittimati, ma in questo caso ovviamente l’obbligo diventa sbagliato e, nel contesto di una società laica, altrettanto lo è il finanziamento pubblico. Se l’istruzione è vista come percorso di formazione per fisici e ingegneri, i giusti criteri distributivi diventano intelligenza e competenza, gli esperti in questi settori diventano i giusti agenti di distribuzione e, visto che entra in gioco la sicurezza pubblica, sono necessarie regolamentazioni e licenze.
Come suggeriscono questi esempi, la distribuzione a volte dev’essere universale e trasversale a tutta la società, altre volte condizionata e meritocratica. Oltretutto, se solo pensiamo al nostro specifico contesto sociale, esistono molti altri possibili criteri: la devianza dalla norma (nel caso degli interventi giudiziari), il bisogno (per quanto concerne l’assistenza sanitaria e il welfare), l’anzianità (quando è in gioco la giustizia nei licenziamenti), l’uguaglianza (come nella logica una persona/un voto), la popolarità (come nel caso della distribuzione di potere politico tramite elezioni democratiche), addirittura l’inventiva e la fortuna (come nel mercato). Sono i nostri criteri, le nostre “convenzioni condivise” come le ho chiamate, ma possiamo immaginarne anche altre relative ad altre epoche e altri contesti. I modelli di distribuzione si riferiscono a specifiche società e culture e al significato che i beni sociali hanno per i loro membri.
Tale argomentazione consente, anzi addirittura impone, una distribuzione impari in parecchie sfere: le elezioni legittimano una distribuzione impari del potere politico, le politiche di ammissione meritocratica operano delle distinzioni tra alcuni studenti e altri, i processi si concludono con assoluzioni e condanne, nel libero mercato c’è chi vince e chi perde. Ma la mia teoria era che se i meccanismi di distribuzione fossero autonomi, se ogni bene venisse distribuito per le giuste ragioni, nelle varie sfere prevarrebbero diverse tipologie di individui. Il successo in una data sfera (l’acquisizione di potere politico, l’accumulo di denaro) non porterebbe con sé altri beni come mera conseguenza, come accade oggi, e il risultato complessivo sarebbe quello di una “uguaglianza complessa”, che può essere meglio compresa come insieme di ineguaglianze sparse ed eterogenee.
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Secondo Okin una teoria del genere non sarebbe risultata utile alle donne, perché le convenzioni sociali relative all’istruzione, all’occupazione professionale, alle cariche politiche e a molto altro, nella nostra società e in ogni altro contesto, portano all’esclusione radicale delle donne relegandole in una posizione assolutamente marginale. Per esempio, nel settore dell’istruzione superiore era ampiamente condiviso il principio secondo cui certe discipline e certe carriere fossero appannaggio esclusivo degli uomini. Le donne “non volevano” studiare le scienze dure né competere (con uomini che magari avrebbero sposato) per dottorati e cariche di facoltà. In politica e nel lavoro, le donne erano perlopiù confinate in ruoli di “assistente”: avevano l’incarico di prendere appunti alle riunioni, di organizzare viaggi, di tenere l’agenda e, quel che è più importante, di spiegare agli uomini, che non ne avevano idea, come si tratta con la gente. Le scelte politiche e i colloqui di lavoro erano ritenuti compito da uomini. Non c’era spazio, né risorse, per una critica interna basata su un significato sociale o una convenzione condivisa.
A questa obiezione ho risposto (in diversi saggi di critica sociale) che un’idea di istruzione che, per dire, escludesse o marginalizzasse le donne non poteva essere definita una convenzione condivisa perché verosimilmente le donne non la condividevano. Si poteva trattare piuttosto della concezione propria del gruppo dominante, non della società nel suo complesso, e dovevano per forza esserci delle concezioni alternative da poterle contrapporre, per contrastare, per esempio, il predominio degli uomini nel settore dell’istruzione. Una critica legata al contesto della società, e rispettosa di esso ma contraria alle disuguaglianze che vi si registrano, avrebbe potuto trovare nella coscienza delle donne escluse materiale utile per formulare una critica dell’esclusione.
Okin replicò sostenendo che semplicemente non fossi riuscito a cogliere il carattere totalizzante del patriarcalismo. Il predominio maschile era ratificato ovunque, in ogni aspetto della vita quotidiana, in ogni sfera distributiva, in tutte le creazioni culturali e le esperienze storiche in grado di produrre “significato” (nei testi religiosi e nelle pratiche di fede, nella vita politica, nei vari generi di letteratura popolare, nelle convinzioni della gente, nel “senso comune”). Ovviamente, le donne non si opponevano. In ogni società umana, si conformavano al proprio ruolo subordinato. Cos’altro avrebbero potuto fare? Il significato sociale prodotto dagli uomini era, volere o volare, sempre accettato dalle donne. Quando i significati sociali “si sovrappongono, coincidono e si mostrano integrati e gerarchici”, scriveva Okin, è improbabile che idee discordanti riescano a emergere o svilupparsi. “Più profondo è il predominio e più pervasiva l’ideologia, tra le varie sfere, meno possibilità ci sono che il sistema complessivo prevalente venga messo in discussione o che gli si opponga resistenza”.
Solo dei principi universali di giustizia potrebbero spianare la strada a una critica ad ampio spettro del sistema generale di definizioni patriarcali. Una concezione di giustizia che parta dall’uguaglianza umana, e nello specifico dall’uguaglianza tra i sessi, una concezione in radicale contrasto con le “convenzioni” proprie di questa (e di qualsiasi altra) società, è l’unica base da cui potrebbe svilupparsi una politica egualitaria.
Okin era una donna dell’Illuminismo, e ben presto si trovò a confrontarsi non solo con i teorici del pluralismo come me ma anche con le femministe radicali, ostili al razionalismo e al monismo proprio dell’Illuminismo, che invocava una “politica delle differenze” e l’avvento di una società multiculturale. Furono queste donne (e molti uomini che scrivevano sullo stesso tono) a determinare la genesi del suo saggio più famoso, “Is Multiculturalism Good for Women?”. A suo avviso sicuramente le danneggiava, perché le diverse culture che si proponeva di conciliare erano, per la maggior parte, ostili alle donne. Far spazio alla differenza voleva dire che non sarebbe rimasto abbastanza margine per la critica culturale e la giustizia universale.
Su questa materia di dibattito ero più vicino a Okin che ai suoi oppositori. Malgrado difendessi una versione (moderata) di multiculturalismo, sostenevo che gli Stati democratici avessero il dovere di intervenire nei contesti culturali razzisti o misogini non solo per rendere possibile una via d’uscita (a questo proposito Okin scrisse un altro memorabile articolo sostenendo che il diritto di fuoriuscita non fosse sufficiente) ma anche per tutelare i soggetti più vulnerabili all’interno del gruppo. Ero però anche convinto che tali soggetti vulnerabili dovessero iniziare ad agire in prima persona e che lo avrebbero fatto al meglio se avessero seguito modalità che risultassero significative per i propri simili e che poggiassero sulla loro storia e sulle loro tradizioni condivise. Dovevano fare riferimento a testi che avessero un’eco anche per i loro oppressori, come aveva fatto Martin Luther King Jr. recitando il passo della Bibbia sulla creazione a immagine di Dio o citando la Dichiarazione di Indipendenza sui diritti inalienabili dell’uomo.
Quel che credo mi sia sfuggito in tali argomentazioni era il crudo realismo che connotava la descrizione tratteggiata da Okin della posizione culturale delle donne: il senso di costrizione assoluta che le donne avevano provato per gran parte della storia e che ancora provano in gran parte del mondo contemporaneo. Esse si sentono intrappolate in una cultura e una politica che non offre loro alcuna possibilità di riflettere criticamente sulla loro condizione o di immaginare, per non dire pianificare, un ruolo diverso. Qualsiasi memorabile passo sull’uguaglianza sia mai esistito nella tradizione è stato sempre preinterpretato per escluderle. Ogni strada alternativa è bloccata; sono prigioniere, sia sul piano fisico che su quello mentale.
Ovviamente, chiunque descriva se stessa in questo modo sta già pensando criticamente. La descrizione della condizione della donna fatta da Okin è già un guardare dall’esterno e quel che vuole suggerire è che la liberazione può arrivare solo da fuori. C’è quindi bisogno di principi politici e morali indipendenti da qualsiasi cultura oppressiva esistente. Non sono sicuro di credere che tutt’oggi, anzi specialmente oggi, ci siano così tante femministe radicali che operano per trasformare dall’interno le ortodossie islamica, ebraica, cristiana e indù. Ma di certo avrei scritto qualcosa di diverso se avessi colto la forza del quadro tratteggiato da Okin relativamente alle donne che vivono in culture patriarcali assolutamente schiaccianti.
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L’oppressione delle donne è diversa da qualsiasi altra forma di oppressione. Lo sappiamo tutti, ma la maggior parte degli intellettuali di sinistra continua a scrivere dell’oppressione come se potesse assumere un’unica forma, quella di un gruppo di gente che preme per tenere sotto un altro gruppo. Le donne però non sono un “gruppo” come tutti gli altri; non vivono tutte insieme come i nativi di una nazione conquistata o gli operai di un quartiere degradato o gli ebrei o i neri di un ghetto. Le donne vivono con i loro oppressori, che sono anche i loro padri, i loro mariti, i loro amanti, i loro figli. La loro oppressione inizia a casa, non perché le loro famiglia siano povere ma in virtù delle dinamiche familiari interne di dominio e subordinazione, che vengono poi replicate in ogni sfera dell’esistenza.
E se le donne non accettassero questa replica? Cosa accadrebbe, si chiedeva Okin, se le donne di tutto il mondo “si convincessero (a dispetto di tutti gli ostacoli) che sono anche loro esseri umani a pieno titolo e che qualsiasi principio di giustizia venga applicato tra i loro oppressori debba a ragione applicarsi anche a loro?”. Avremmo allora un profondo disaccordo politico-culturale, “due concezioni inconciliabili di ciò che è giusto”. E come si potrebbe risolvere tale controversia senza ricorrere a un qualche standard univoco e universale? Credo che esista una possibile risposta a questa domanda, che trae spunto dalla teoria di Antonio Gramsci sull’egemonia. Le culture egemoniche, secondo Gramsci, devono rivendicare l’universalità come condizione della propria legittimità. Perciò esiste sempre una versione locale dei principi universali alla quale le forze di opposizione possono fare riferimento. Non ne tratterò oltre in questa sede; la teoria gramsciana non era affrontata in Sfere di giustizia perché non ne ho colto la necessità finché non ho letto il saggio di Okin.
Avevamo ancora un ulteriore motivo di disaccordo che risulta rilevante in questa sede. Io sostenevo che la disparità all’interno della famiglia dovesse essere gestita indirettamente. Prima bisognava riformare tutte le altre sfere di distribuzione: assicurarsi che le donne venissero trattate equamente in tutti gli ambiti in cui venissero applicati criteri meritocratici; accertarsi che i loro bisogni venissero riconosciuti altrettanto rapidamente di quelli degli uomini nella distribuzione di assistenza sanitaria e welfare; assicurarsi che le loro capacità imprenditoriali avessero altrettanto libero sfogo dei talenti maschili (quale che fosse l’effettivo o auspicabile grado di questa libertà); accertarsi che avessero libero accesso all’arena politica quanto gli uomini. Se la società fosse stata trasformata in tutti questi modi (e anche in altri), la famiglia sarebbe mutata di conseguenza. La parità all’esterno, per così dire, avrebbe determinato la parità a casa. Ero diffidente riguardo a eventuali interventi più diretti nell’intimità della vita familiare, o forse semplicemente non mi andava di pensarci.
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A posteriori, non so a che genere di intervento statale sarebbe stata favorevole Okin. Ma di certo era una grande fautrice dell’intervento ideologico. La disparità nel contesto familiare avrebbe dovuto diventare per lei oggetto di veemente e costante critica. Sono certo che avesse ragione, per quanto non sono sicuro che ci saremmo trovati d’accordo su come formulare tale critica. Ovviamente, il personale attiene alla sfera politica, ma non nello stesso modo dell’impersonale e alcune autrici femministe non si sono mai accorte della differenza. Dobbiamo aspirare a che i rapporti economici, sociali e politici impersonali diventino oggetto di scelta politica e regolamentazione legale. I rapporti personali e familiari vanno protetti, tranne che nei casi estremi (comunque molto più comuni di quanto ci piaccia pensare) di minori abusati e partner malmenate. Tuttavia, una teoria di cosa sia la famiglia e di cosa dovrebbe essere è cruciale per la formulazione di qualsiasi teoria della giustizia.
Okin si congratulò con me, con una punta di sarcasmo, per aver inserito in Sfere di giustizia “una postilla e una nota a pié di pagina” in cui definivo i lavori di casa un’attività che sarebbe stata da dividere equamente tra uomini e donne. È vero, oggi scriverei molto di più a questo riguardo di quanto non feci negli anni Ottanta e ora mi preoccuperei, come non ho invece fatto allora, del perché una maggiore eguaglianza nelle sfere della politica, dell’istruzione e dell’economia non si sia riverberata nella vita familiare come avevo pensato che accadesse. L’approccio indiretto non ha trasformato in maniera significativa la distribuzione dei compiti nei lavori domestici e nella cura dei figli. Sicuramente ci sono stati dei cambiamenti in meglio ma non della portata che avevo immaginato. Il saggio di Okin rappresenta un’integrazione necessaria alle mie argomentazioni (e a quelle di tutti gli studiosi a cui fa riferimento).
La critica pratica della disparità di genere è solo agli albori. Continuerò a cercare di renderla una critica “di sfera”, operata attraverso le convenzioni relative ai diversi beni e mali sociali, attraverso diversi criteri distributivi e diversi agenti di distribuzione. Ma le esatte modalità con cui realizzare l’uguaglianza complessa nell’ambito familiare mi è meno chiaro oggi di quanto non mi fosse nel 1980 e questo è forse un piccolo passo avanti. La famiglia dev’essere quello che Christopher Lasch ha definito un “rifugio in un mondo senza cuore”. Ma non può continuare a essere una fonte delle diseguaglianze che rendono questo mondo senza cuore. Difendere al tempo stesso l’intimità e la giustizia: è questo il compito della prossima generazione di teorici della politica.
Traduzione di Chiara Rizzo
Analisi – e autocritica – molto molto interessante. Finalmente se ne riparla!
Sicuramente un auspicabile superamento del concetto di famiglia potrebbe rendere possibile un approccio al discorso di genere diverso rispetto al tradizionale dibattito sui ruoli domestici, che non sembra rappresentare la chiave per lo scardinamento della disparità uomo – donna. Tali ruoli saranno difficilmente modificabili finché si continuerà a parlare di “famiglia”.
E’ chiaramente opportuno portare avanti una critica su piani diversi, sia quella sui diversi criteri, agenti e destinatari/e di distribuzione sociale sia quella sulla questione di genere come dibattito a sé stante. Il principale lascito del femminismo radicale è stato quello di diffondere la consapevolezza del privato come politico, ma non ci si può più limitare ad opporre il politico al privato, la struttura alla sovrastruttura, l’individuo al gruppo. Queste dicotomie/antitesi, che pure hanno fornito gli strumenti per una presa di coscienza necessaria, perdono oggi di senso alla luce dell’assunto, giustamente spiegato nell’articolo, che le donne non sono paragonabili a un minoranza oppressa, come invece può essere un gruppo religioso o etnico. Non sono un gruppo da salvaguardare o da contrapporre a una maggioranza, fatta di uomini oppressori. Siamo consapevoli, che a differenza degli anni ottanta in cui i gruppi femministi erano ancora molto attivi, nella contemporaneità le donne spesso non si fanno più neppure portavoce della loro oppressione. Per lo meno non più con quella forza.
E’ solo una minoranza tra le donne, quella che nel mondo si costituisce come gruppo intento al cambiamento del proprio stato di oppressione. Come dice Okin, il senso di oppressione universale intrappola le donne in un’impossibilità di critica. E’ altrettanto vero, però, che ribaltare la cultura egemonica è comunque un gesto che non ci si può aspettare intraprenda l’egemone, per quanto sia interessante che un uomo si chieda quale valore avrebbe aggiunto il dibattito femminista se il pensiero maschile intellettuale ci si fosse confrontato nel parlare di giustizia sociale. La liberazione dalla trappola, passa anche per un’equa distribuzione dei mezzi di emancipazione e quindi per la possibilità di incontrare altre donne, di tornare a individuare degli interessi e dei desideri comuni, riaprendo la porta delle proprie case.