Il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, già arrivando all’appuntamento fissato in una Roma improvvisamente afosa, non perde tempo e si dimostra capace di andare dritto al punto anche dicendo che chiede ragguagli sui campionati europei: “Davvero gli europei sono divisi sul razzismo”? È stato solo un rapido cenno al seriale inginocchiarsi di una squadra senza che l’altra faccia altrettanto, già prima di cominciare a discutere, che forse indicava quel diffuso spaesamento post-pandemico sul quale si è conclusa la conversazione. Forse impauriti cerchiamo rifugi e capri espiatori? Che fare? Con quali scorte morali possiamo affrontare le montagne russe di una crisi sanitaria che è anche economica, sociale e culturale?
«Partirei dalla certezza, dal vero capo di questa matassa che se non individuiamo non riusciremo a sbrogliare – risponde Impagliazzo -: ci si salva insieme. Se dobbiamo partire di qui, che nessuno si può salvare da solo, allora per proseguire dobbiamo vedere che non possiamo tornare indietro, non ci è data la possibilità di tornare dove eravamo, ma dobbiamo cominciare un nuovo cammino, che è un po’ come ricominciare, tutti insieme ovviamente. Allora, se le cose stanno così, se davvero nessuno può salvarsi da solo, vuol dire che c’è bisogno di Europa, che abbiamo bisogno di Europa… E per fortuna l’Europa c’è, il PNRR dimostra a tutti che l’Europa è un grande aiuto. Ma l’aiuto finanziario, indispensabile, non basta. Noi abbiamo anche bisogno di immigrazione regolare. La nostra società ha urgente bisogno di immigrati regolari.
L’inverno demografico che stiamo vivendo sarà irreversibile tra poco, già nel 2036 visto che ad oggi, in questo 2021, un quarto degli italiani sono ultra-settantenni. Se abbiamo bisogno di immigrazione regolare non è per recuperare o “per correggere il saldo demografico”: questo non è il punto e non credo sia possibile. Ne abbiamo bisogno per salvare la società del welfare state. Pensioni, servizi, sanità pubblica, coesione: chi pagherà tutto questo? Dunque oggi abbiamo il dovere di interrogarci sul passato ma anche su che società sia la nostra, una società di anziani. In questi giorni, nella lettera con cui ha respinto la richiesta di dimissioni dell’arcivescovo di Monaco, il papa ha affermato che “la politica dello struzzo non porta a niente”. Dunque occorre essere chiari: esiste il diritto per tutti a vivere e morire a casa propria! È un obiettivo che dobbiamo tenere a mente e perseguire perché lo dobbiamo ai tanti anziani morti di Covid in questi mesi terribili e lo dobbiamo anche a chi per mesi è rimasto da solo, in condizioni e strutture quantomeno problematiche. Dunque nel nostro PNRR la questione sanitaria e la questione sociale si identificano diventando una questione sola. Non possiamo fallire o fingere di non vedere per via del prezzo enorme che abbiamo pagato, che hanno pagato le tante persone che non ci sono più».
Eppure mentre ripartiamo molti affermano che alcuni lavori non sono richiesti, non si riesce a trovare personale, soprattutto nel centro sud. È un’osservazione che stupisce soprattutto davanti alla rilevanza della disoccupazione. È il prodotto di vecchi e nuovi assistenzialismi?
Si potrebbe rispondere con l’analisi economica e le diverse contestualizzazioni possibili di questa constatazione. Di certo non c’è corrispondenza tra domanda e offerta, tra qualità della domanda e dell’offerta. Le politiche assistenziali e l’idea di farsi aiutare anche dai familiari hanno certamente qualche rilievo, ma i dati più rilevanti sono le dimensioni del sommerso, del lavoro nero e della scarsità di giovani. Poi indubbiamente nel contesto sociale attuale prevale una tendenza al rinvio, alla ricerca di una protezione familiare. Ma il fatto è che non possiamo restare fermi. Allora vorrei allargare lo sguardo partendo da un altro piccolo dato: la Coldiretti è dovuta andare di corsa a prendersi 130 agricoltori in Marocco. Possiamo divergere nelle conclusioni sulle cause di tutto questo, ma non possiamo non convergere sul fatto che abbiamo bisogno di immigrazione regolare: se questa è la realtà non si può negare l’urgenza di immigrazione regolare, impiegando anche la sponsorship, la chiamata diretta da un datore di lavoro a una persona che gli dà garanzie dall’estero. È un meccanismo pulito, onesto, semplice, che deve essere garantito almeno per il periodo di prova. Fare come lo struzzo, cioè non vedere questa esigenza e restare nella stasi, nell’immobilismo, nel rinvio, penalizza tutti, chi anela e chi ha bisogno. Oggi nel nostro Paese si registra una carenza di 63 mila infermieri. Non sono figure che si creano dalla mattina alla sera. Ci sono Paesi vicini o lontani, come il Perù tra questi ultimi, che hanno grandi scuole e tradizioni al riguardo. Dunque mi limito a dati di fatto che non vogliono cancellare le critiche verso alcuni modi di fare o di essere. Il rifiuto di certi lavori però va considerato nel contesto non solo dell’assistenzialismo: questo c’è, ma bisogna considerare anche il valore dello status e i suoi costi per valutare.
Passiamo allora al sinodo della Chiesa italiana. È una novità attesa o per alcuni auspicata da decenni, che sembra però arrivare in sordina, poco considerata. Eppure se i giovani avvertono così importante il valore dello status, forse se vedessero un’altra offerta, un’altra visione della vita e della società di cui sono parte le cose potrebbero cambiare in meglio, per tutti.
Il sinodo italiano è un’opportunità storica per la Chiesa e per l’Italia e direi che molti vescovi non hanno capito la portata e il valore del sinodo offerto e proposto da Papa Francesco. Certo, se lo pensassimo come un appuntamento per parlare di noi e delle nostre questioni ecclesiali sarebbe quasi un’occasione persa, abbiamo bisogno di quel sinodo dal basso verso alto e dall’alto verso il basso che propone Francesco. Cosa vuol dire? Per me vuol dire che dovrebbe essere una grande costituente, una costituente in profondo rapporto con la realtà nazionale. Guardiamo alle nostre città, al rapporto tra generazioni, tra centro e periferie: è il modo migliore per capire che – come ha detto Francesco – le nazioni non sono un museo. In questo momento non dovremmo usare il primo sinodo della Chiesa in Italia per parlare tanto di noi stessi: serve una Chiesa estroversa, che avvii un sinodo italiano aperto alla società, al mondo. Questo sinodo sarebbe di interesse concreto per tutti, anche fuori dalla Chiesa. Per usare il linguaggio del Concilio Vaticano II direi che il sinodo deve essere l’occasione per comprendere i segni dei tempi, aprendo così spazi per contrastare questa idea di declino, per recuperare rispetto al timore di un declino. Soprattutto dopo il trauma del Covid questa costruzione ecclesiale, sinodale, può essere un’occasione di eccezionale importanza, anche per noi. Bisogna trovare un‘altra sintonia con il Paese mostrando la bellezza della proposta cristiana. Ma se tu ti fissi solo su alcuni punti non raggiungi più nessuno. Ricordo che Papa Francesco ha affermato che “l’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali”. È solo toccando il cuore delle persone che si ritrova attrattiva. Occorre risvegliare le energie partendo dalla realtà, dal concreto, dal quotidiano. E dalla testimonianza.
I fatti scorrono velocemente; un giorno impressionano, due giorni dopo quasi svaniscono. Non bisogna farsi condizionare, ma neanche distrarsi, non considerarli. E alla fine, leggendo i giornali, si ha la sensazione di un numero crescente di persone allo sbando che creano una scia di violenze efferate quanto gratuite, ingiustificabili. Davanti a tutto questo la sensazione che le culture, laiche e religiose, debbano aiutare questo Paese a ritrovarsi è sempre più forte. E forse il ruolo delle religioni è avvertito ancora più prevalente se si considera la crisi dei partiti di massa, dei sindacati, dei famosi corpi intermedi. Ma il dialogo rimane un qualcosa di astratto, lontano, un fatto di o da élites o da addetti ai lavori.
Credo che tutti leggendo di tanta violenza abbiamo la sensazione di uno spaesamento. Come se le persone avvertissero che il mondo è diventato troppo grande: i vantaggi creati dalla globalizzazione esistono, i progressi conseguiti ci sono noti: la diminuzione della fame nel mondo, la diminuzione della povertà estrema, la diffusione dei mezzi di comunicazione, sono fatti conosciuti e riconosciuti da tutti ma che poi sembrano svanire davanti all’ignoto, all’incontrollabile. La crisi economico-finanziaria del 2008 è nata lontano da qui, negli Stati Uniti, ma poi, rapidamente ha coinvolto continenti, distrutto speranze e così ha seminato spaesamento. Analogo spaesamento è stato causato dalla pandemia del 2020, cominciata in una città lontana, in Cina. In questo spaesamento i riferimenti diventano molto importanti, come fossero beni rifugio. Dunque è vero, il dialogo deve partire dal concreto, o potremmo dire dal basso, non dall’alto. Insieme dobbiamo confrontarci sul e nel quotidiano, nelle periferie, partendo dalla quotidianità.
Questo spaesamento diffuso dice che abbiamo paura, il vento freddo della storia sembra gelarci. Però dopo la grande scoperta del virtuale ci rendiamo conto di aver bisogno di superare il virtuale: è un’altra grande lezione di questa pandemia. Il virtuale non può bastarci, abbiamo bisogno di legami, di grandi momenti comuni. L’Italia non fa eccezione e la Chiesa ha a disposizione la rete capillare delle parrocchie che può mettere al servizio della società, come una grande risorsa. Perché se questa rete viene gestita con missionarietà allora può avvicinare tanti aiutando ad uscire da questo spaesamento preoccupante. Il sinodo visto così non è una sfida, ma un’opportunità imperdibile.