Questo intervento è uscito nel volume Bobbio ad uso di amici e nemici (I libri di Reset – Marsilio 2007).
Quando l’accademia celebra un Maestro, lo scopo enunciato è sempre quello di mettere in luce i suoi contributi originali, quelli che più hanno influenzato le dottrine successive, quelli, se ce ne sono, che hanno lasciato la loro impronta sulla vita stessa della società o delle istituzioni. Ma poi, inevitabilmente, ciascuno dei partecipanti finisce anche per misurare i contributi del Maestro su ciò che egli stesso pensa ed è venuto elaborando; e quindi finisce anche per criticarlo e per metterne in luce quelle che ne considera le aporie o le contraddizioni. Sui contributi di Bobbio, e in tutte le direzioni che prima ho enunciato, si possono riempire biblioteche intere. Eppure, nemmeno lui è sfuggito a questo destino, come palesemente dimostra questo nostro volume. E io trovo giusto che sia così, per lui come per chiunque altro, perché è per l’appunto questa dialettica che ci aiuta ad affinare le nostre analisi della realtà e quindi ad accrescere la nostra comprensione della realtà stessa.
Detto questo, e constatato perciò che le critiche rivolte a Bobbio nelle pagine ‘celebrative’ del nostro volume non hanno nulla di impertinente o di non pertinente rispetto alla celebrazione, devo anche aggiungere che alcune delle più ricorrenti mi paiono sbagliate e non riesco a condividerle.
Bobbio è sempre stato eccentrico rispetto alla stragrande maggioranza di noi, perché – è vero – ha avuto un eclettismo assolutamente fuori norma: giurista positivo e filosofo, liberale e socialista, discepolo di Locke e seguace di Mosca e di Pareto. Ma desumere – come mi pare si faccia- dalle matrici eclettiche del suo pensiero che si tratta di un pensiero contraddittorio, significa essere in qualche modo deduttivamente prigionieri delle pareti entro le quali, a differenza di lui, si è lavorato. Naturalmente nessuno la mette così e gli argomenti forniti a mo’ di prova ci sono e cercano di essere motivati. Ma non li trovo convincenti e penso che al fondo giochi l’idea, sbagliata, che Bobbio abbia cercato di muoversi in un universo troppo ampio, che si sia incuriosito di troppe cose e che alla fine, proprio questo, abbia perso il filo delle necessarie coerenze.
Io la vedo in tutt’altro modo e penso che le contraddizioni che emergono da Bobbio non siano sue, ma degli spicchi, spesso enormi, della realtà su cui egli lavora. Si dirà che questo è il classico espediente retorico per non dispiacere al Maestro e per tacitare con uno svolazzo i suoi critici. Vediamo. La critica più diffusa è quella del presunto ossimoro su cui egli ha speso larghissima parte di sé, il socialismo liberale. E’ una critica che trova alimento, da una parte in quel che rimane delle roccaforti ideologiche che hanno vissuto e cercato di far vivere come inconciliabili nel secolo scorso il socialismo e la libertà degli individui, dall’altra nella palestra filosofica dove da decenni vengono contrapposte come a loro volta inconciliabili la libertà e l’eguaglianza.
Checché si dica, fra le roccaforti e la palestra ci sono sempre stati canali di comunicazione e gli estremismi con i quali, in sede filosofica, si sono escluse o l’eguaglianza o la libertà come secondo termine compatibile con quello dei due che si fosse prescelto come primo, mi sono sempre apparsi accanimenti logici ispirati più da passione che da ragione. E’ un fatto che il muro costruito dalla passione, e dalle conseguenti ideologie, lo hanno saputo rompere autori di entrambe le sponde . Il che dimostra che da entrambe le sponde lo si è percepito come un muro sbagliato e che, in particolare, tale è apparso non solo ai liberali ‘passionevoli’ ( come tende ancora oggi a pensare la sinistra più intransigente), ma anche ai riformisti di provenienza socialista. Insomma, prima di Calogero, prima dei Rosselli, prima dello stesso Bobbio, c’era stato Bernstein. Ed è arduo considerarlo ancora oggi un rinnegato.
Oggi poi, in tempi non più solo di filosofi della retorica, ma anche di filosofi dell’economia, da Albert Hirschman ad Amartya Sen, libertà ed eguaglianza appaiono assai più complementari di quanto non riuscissero ad apparire in passato. Purchè si sia disposti a capire ciò che proprio Bernstein aveva messo in luce con (allora) sconvolgente chiarezza: valori e principi non stanno insieme come i pezzi di un puzzle che, una volta identificati e innestati l’uno nell’altro, stanno lì fermi per sempre in disegni pre-scritti. Essi, anche quando sono fra loro coerenti, generano ordini ed equilibri semplicemente possibili, affidati per ciò stesso a scelte e a comportamenti umani che possono inverarli, ma anche deformarli e distruggerli. Su questa premessa, non solo sta in piedi il socialismo liberale di Bobbio, ma si può dimostrare – ed è stata dimostrata- la irrinunciabilità reciproca di libertà ed eguaglianza.
In termini solo in parte diversi si pone una seconda questione che giganteggia nel pensiero di Bobbio, quella della difesa della democrazia liberale e della ripetuta constatazione della sua stessa ‘impossibilità’ in presenza delle oligarchie e delle organizzazioni collettive che finiscono per prevaricare la libertà dei singoli. Intanto va detto che, se questa è una contraddizione, essa va imputata non soltanto a Bobbio, ma a un’ampia schiera di studiosi, e cultori, della democrazia liberale, da Robert Dahl a Ralph Dahrendorf, da Mancur Olson a James March e Johan Olsen; non a caso tutti autori che la democrazia liberale l’hanno studiata non nella fase elitaria delle origini, ma in quella seguita al suffragio universale. Secondariamente, e conseguentemente, va constatato che la stessa democrazia è, non meno del socialismo liberale, una potenzialità , un approntamento di spazi nei quali l’equilibrio è possibile, ma non è mai garantito da meccanismi di automatica espulsione dei fattori squilibranti o deformanti. Lungo tutto il ventesimo secolo è emerso che le organizzazioni rappresentative possono deformare la loro azione a beneficio di sé medesime piuttosto che dei loro rappresentati, che nei loro meccanismi interni possono addirittura comprimere la libertà dei singoli che attraverso di loro si dovrebbe invece esercitare, che la democrazia, quindi, può diventare equilibrio oligopolistico, generando tutti i comportamenti opportunistici che sono tipici di un tale equilibrio. Parlare, su queste premesse, di ‘impossibilità’ della democrazia non significa negarla, significa negarne un inveramento da paradiso terrestre, sottolineare la sua permanente imperfezione e il bisogno non meno permanente che si difenda l’apertura dei suoi spazi.
Ma insomma, la critica ai partiti che dalla metà degli anni ’70 accomunò buona parte degli autori (da Costantino Mortati allo stesso Bobbio) che li avevano salutati come veicoli della democrazia dei cittadini, non era forse argomentata con le entropie che i partiti avevano generato, con l’uso che facevano del consenso allo scopo prevalente di misurare gli spazi rispettivi di occupazione dello Stato, con la difficoltà di una effettiva partecipazione politica nella loro vita interna? Né dire questo era negare la democrazia o auspicare l’abolizione dei partiti ai fini di una democrazia migliore. Era richiamare alla necessità dell’antiruggine, in assenza di che, certo, le ossificazioni potevano distruggere tutto. E più tardi l’antiruggine viene usato, più possono andare in pezzi gli stessi pilastri ai quali lo si applica. Il che in buona parte è accaduto nella vicenda italiana dei primi anni ’90.
Sin qui – come dicevo – Bobbio e la sua apparente contraddizione sulla democrazia godono di una compagnia numerosa. La vera domanda che mi rimane – e su di essa il Bobbio degli ultimissimi anni non ha avuto modo di lavorare in presa diretta- è quella che riguarda il futuro della democrazia nella società post-partitica, frammentata, individualizzata e fortemente affidata alle aggregazioni mediatiche, in cui stiamo entrando. Davanti ai rischi di una politica fondata soltanto su collanti emotivi e populisti ovvero su legami ferreamente categoriali, viene quasi da rimpiangerle le malformazioni della democrazia costruita sulle grandi organizzazioni della società industriale fordista. Almeno a quelle si poteva applicare l’antiruggine e si viveva nella ragionevole aspettativa di una ciclicità capace di ricostituire nel tempo l’equilibrio ottimale. Ma ora, ora che i partiti sono troppo deboli e non troppo forti, ora che il consenso dipende sempre più largamente dalla possibilità di raggiungere famiglie e individui attraverso i mass media e quindi dalle risorse di cui si dispone per farlo, ora che il dissenso sempre più si manifesta o con la simbologia della protesta o all’opposto con il ripiegamento nella vita privata, ora che siamo su questo crinale, qual è il futuro della democrazia?
Robert Dahl, che non meno di Bobbio è da sempre cultore della democrazia liberale, dice che non lo sa: confida nei crescenti livelli di istruzione, nella possibilità per i singoli di mettersi sempre più in grado di scegliere ( e non di farsi scegliere o ‘catturare’), ma sente egli stesso che qualcosa di profondo è cambiato. Schiacciato tra il potere economico e il potere mediatico, il potere democratico rischia di sopravvivere come una loro derivata.
Questi sono oggi i termini della questione. E in questi termini – dicevo – Bobbio non l’ha esplicitamente affrontata. Ma il suo leit motiv più recente – quello dei diritti e quindi della democrazia fondata sui diritti – indica non l’antiruggine, ma l’antidoto su cui dobbiamo contare. E’ lo stesso, in fondo, di cui parla Dahl ed è quello a cui Sen affida la nascita delle democrazie dove ancora non hanno visto la luce. I grandi eclettici del nostro tempo sembrano dunque unanimi nell’indicarci la strada.