Articolo apparso sul numero 108 di Reset, gennaio febbraio 2008
Richard Rorty, il grande erede del pragmatismo americano scomparso nel giugno 2007, porta a compimento un lungo cammino di questa tradizione di pensiero traendone insegnamenti che si possono così sintetizzare: 1) la democrazia è più importante della filosofia e la lezione più attuale del pragmatismo è che la filosofia deve farsi da parte per non minacciare il primato della democrazia sulle ideologie; 2) dobbiamo distinguere tra una filosofia privata e una filosofia pubblica, perché si tratta di ordini di pensiero che hanno funzioni diverse. Molti contrasti filosofici dipendono da questa confusione.
Si capirà meglio alla fine il senso di queste due conclusioni. Cominciamo ora dal fatto che per Rorty il pragmatismo è stato ed è «la maggior gloria della tradizione intellettuale» degli Stati Uniti. Lo diceva e scriveva «senza ironia». Ma metto le virgolette perché il celebre filosofo dell’ironismo e della contingenza non concedeva mai ai suoi enunciati lo statuto della monumentalità e, in certo senso, non diceva mai nulla se non con ironia, invocando anzi il costume della «frivolezza» come antidoto da utilizzare in presenza di ogni genere di possessori di verità. Ma insomma lo pensava sul serio: il pragmatismo americano era, ed è, una gloria americana, una rete di pensieri e orientamenti culturali ancora attiva, capace di influenze sulla vita politica, e da Rorty raccomandati alla sinistra, che gli era cara. Rorty aggiungeva che nessuno quanto James e Dewey ha avanzato «una proposta tanto radicale al fine di rendere il nostro futuro diverso dal nostro passato». La proposta filosofica del pragmatismo è secondo lui una buona ispirazione per un sapiente riformismo e sperimentalismo sociali, improntati alla tolleranza, al pluralismo, al liberalismo, alla democrazia.
Non sorprende che negli anni Ottanta un rilancio del pragmatismo nella vita intellettuale e anche nella vita politica americana sia avvenuto in un contesto vicino a Rorty, a opera di Cornel West anche per effetto del suo insegnamento a Princeton. Rorty si sente molto a suo agio presentando il suo pensiero in una linea di continuità dentro la tradizione del pragmatismo e in generale dentro la storia della democrazia americana. Non sente il bisogno di sottolineare una propria originalità e si rappresenta come un «sincretista», anzi come un modesto «galoppino» del sincretismo, portatore d’acqua, manovale della filosofia. La sua originalità e intelligenza filosofica emergono in realtà a ogni pagina e soprattutto nella semplicità e chiarezza con cui riescono a mostrarci i propri risultati come interpretazioni illuminanti dei suoi predecessori. Non è proprio il caso di parlare di neo-pragmatismo, basterebbe accettare la sua auto-descrizione come di un continuatore della linea di pensiero americana, pragmatista e liberale, che con Dewey e, soprattutto James, riprende una intuizione dei padri fondatori della Costituzione americana sul pluralismo religioso e prosegue poi con John Rawls.
Quest’ultimo viene collocato da Rorty nel flusso principale di questa corrente e, in certo senso, come lucido punto di arrivo che colloca le istituzioni liberali e democratiche, il miglior prodotto della conversazione umana e di un determinato percorso storico, al di sopra della filosofia. Un «sopra» che nel linguaggio ironista, antifondazionista e filosoficamente disincantato di Rorty, significa semplicemente: sono più importanti della filosofia. E sia dunque la benvenuta una filosofia capace di dire che quelle preziose istituzioni, nate da unioni di esseri umani che hanno trovato dei ragionevoli accordi su quel che è giusto e bene anche a partire da opinioni radicalmente diverse, valgono più di ogni teoria filosofica. Questo sbocco ha il pregio o comunque l’effetto inevitabile di ridurre l’importanza dei discorsi filosofici, tanto che si può parlare, per la disciplina di Aristotele e Platone, di una situazione terminale o post-filosofica. Il punto di arrivo può però anche essere descritto semplicemente come «il liberalismo politico».
Il pragmatismo è una filosofia che a questi traguardi apre naturalmente la strada, almeno nelle sue forme predilette da Rorty, quelle rappresentate da James e Dewey, meno o per niente da Peirce, prima, e dal ramo analitico del pragmatismo, venuto poi, rappresentato da Quine e Sellars, i quali tutti, dal punto di vista di Rorty, ricascano in vecchi vizi della filosofia, rendendola prigioniera o dell’epistemologia o dello «specchio», cioè della presunta corrispondenza tra concetti e realtà. Le vecchie gabbie in cui era finita la philosophia perennis sempre impegnata in battute di caccia per catturare la preda dei «risultati incontestabili in relazione a questioni di supremo interesse e di suprema rilevanza per le nostre vite».
Quel che è importante e che definisce agli occhi di Rorty l’apporto del pragmatismo al progresso del sapere è proprio la rottura con questa perenne battuta di caccia, cartesiana, e in particolare con le ultime sue versioni: la filosofia empirista e neokantiana e in generale l’intera tradizione epistemologica kantiana. Il suo merito principale, quello che tale appare a lui stesso (in attesa che noi decidiamo se accogliere o no questo punto di vista), non è quello di proporre una teoria della verità, della conoscenza o della morale migliore delle altre, ma proprio di non proporne alcuna. Il pragmatismo nella sua forma più limpida, secondo Rorty, è una critica in radice al «tentativo comune a Kant, Husserl, Russell, C.I. Lewis di trasformare la filosofia in una disciplina fondazionale». È un merito in negativo, nel non fare, ma allo stesso tempo è anche un merito in positivo, nel fare, cioè nell’accogliere l’apporto prezioso della scienza al progresso umano e dell’illuminismo all’emancipazione sociale. Questo versante positivo lo differenzia, sempre agli occhi di Rorty, da un altro genere di nemici della metafisica – Nietzsche e Heidegger – che erano a lui cari, ma che avevano il vizio di avversare sia il progresso tecnico che quello sociale.
Il pragmatismo è per Rorty il movimento storico del pensiero che ci libera dalla nevrosi cartesiana della ricerca della certezza, ma senza distruggere il senso del progresso tecnico, sociale e politico. Consente di abbandonare sostanzialismi e metafisiche, ma di mantenere strumenti mentali efficaci per amare e difendere la democrazia. La funzione del pragmatismo rortyano si può descrivere in tre mosse che così sintetizzo, ricavandole dalle pagine di Rorty.
La prima mossa consiste nel chiarire che il pragmatismo è anti-essenzialismo applicato a nozioni come verità, conoscenza, linguaggio, morale. Diciamo vero, è vero ciò che è bene nel senso della credenza, niente di più. Non ci sono da qualche parte oggetti, essenze o quant’altro che corrisponda a questo che diciamo esser vero.
La seconda mossa è quella che elimina ogni differenza metafisica tra fatti e valori insieme a ogni differenza metodologica tra morale e scienza. Alla teoria dobbiamo sostituire la phronesis, una sapienza pratica (viene da Aristotele e la ritroviamo in Gadamer) che procede per tentativi e aggiustamenti, che cerca di confrontare le proprie credenze con quelle degli altri. Quando diciamo che l’amore è preferibile all’odio non abbiamo né oggetti corrispondenti a quelle parole da esibire, né assoluti, né teorie dimostrate. Abbiamo solo una certa esperienza pratica condotta nel tempo che avvalora quella convinzione.
La terza mossa consiste nel liberare la nostra indagine da ogni vincolo che non sia quello del discorso e nell’imparare a convivere con la contingenza dei punti di partenza, come con la contingenza dei punti di arrivo. Non c’è da sperare che qualche cosa di esterno e oggettivo ci costringa a credere nella sua verità. Non c’è neanche modo di sapere quando si è raggiunta la verità o quando si sta per raggiungerla. Abbiamo a disposizione l’eredità dei nostri simili e l’unico buon criterio direttivo è quello di dialogare con loro.
Fatte queste tre mosse, il pragmatismo si difende a ragion veduta dall’accusa di relativismo. E lo fa rivendicando con sapiente e riflessiva moderazione i risultati che ricava dal resoconto di una storia, la storia delle idee e dei fatti che hanno condotto una discreta parte dell’umanità ad applicare criteri liberali, pratiche di rispetto degli altri esseri umani e della loro diversità che consistono in quel genere di ordinamenti che chiamiamo democrazia. Per quanto l’approssimazione sia larga non si fa fatica a difendere un concetto del genere dall’accusa di chi vorrebbe che, se esso è privo di fondamenti in una qualche essenza o primo principio o verità oggettiva garantita da una filosofia generale certificata, diventa per ciò stesso evanescente, inafferrabile, nullo. Meglio sarebbe stare in guardia contro chi muove accuse di questo genere al relativismo, perché, se lo fa, sta quasi sicuramente cercando di rimproverarci di non accettare una sua credenza che ci vorrebbe infliggere come assoluto.
Così definito il posto del pragmatismo nella storia del pensiero, Rorty individua ripetutamente in James il pensatore pragmatista «più pragmatista» degli altri, quello che ha accentuato il carattere del pragmatismo come fuga dall’astrazione, dalle soluzioni verbali, dalle cattive ragioni a priori, dai principi fissi, dai sistemi chiusi, dai falsi assoluti, quello che di più predilige la concretezza, i fatti, l’azione, la forza che vediamo operare nelle nostre esperienze, quello che più nettamente afferma la libertà e la possibilità contro il dogma, l’artificio e la pretesa di una verità definitiva.
La verità delle idee è per James la loro capacità di operare, la loro satisfactoriness, la loro adeguatezza e utilità. È James quello che più chiaramente ci mostra come il pragmatismo non sia una nuova forma di epistemologia trascendentale, ma la fuga da ogni epistemologia. Egli non è solo un pensatore pratico, empirico, innamorato dei fatti solidi e dei dettagli concreti, ma anche quello che – specialmente in Volontà di credere (1897) – mostra come «il suo principale movente» sia quello di «collocare la credenza di suo padre nella società quale forma redenta dell’uomo sullo stesso piano delle teorie delle scienze dure». James vuole in sostanza compiere un passo che piace molto a Rorty: quello che consiste nel cancellare una presunta differenza di statuto e di rango tra credenze scientifiche e credenze sociali e anche tra credenze per le quali si offrono prove (la scienza) e credenze che si adottano senza prove (la religione).
Ci sono funzioni diverse che, nelle loro differenze, tutte però si misurano in termini di efficacia (efficacia nel costruire ponti, efficacia nell’ispirare un partito politico, efficacia nel confortare lo spirito). Questa unità di vedute nel trattamento delle credenze viene definita «olistica» da Rorty, che la pone in contrasto con le tendenze neopositivistiche di altri, come Sidney Hook, che cercano invece di trapiantare in America il neopositivismo, ennesima versione della nevrosi cartesiana e della caccia alle certezze attraverso un linguaggio argomentativo formalizzato.
Perché è importante per Rorty questo lato olistico del pragmatismo, rappresentato da James? Perché esso ridimensiona l’idea che i risultati delle scienze naturali siano sufficienti a dare un significato alle nostre vite e insieme anche il tentativo di attribuire la sfera del senso della vita a un rango intellettuale di second’ordine, un rango nel quale si scrivono poesie e si dipingono quadri. «Questo lato del pragmatismo si propone di evitare che lo scienziato della natura venga investito del ruolo culturale lasciato vacante dal filosofo-superscienziato, quasi che l’immagine naturalistica del mondo bastasse in qualche modo a raggiungere gli scopi per cui sono stati inventati gli dei, le idee platoniche e lo Spirito hegeliano.» Il pragmatismo di James ci serve – dice Rorty – con il suo olismo, con la sua visione unitaria del pensiero, proprio perché vuole lasciare vacante il ruolo culturale tradizionalmente occupato o da una scienza con pretese invasive o da una superscienza filosofica con le solite sfrenate ambizioni di assoluto e di fondamenti.
Meglio portare avanti la vita intellettuale senza dare troppa importanza alla linea divisoria tra la filosofia e le altre forme della cultura, tanto meno se poi qualcuno pretende che il mestiere del filosofo che insegna la via alle altre attività culturali sia la strada maestra. Meglio dunque che la filosofia in quanto tale chiuda la bottega. Cosa che in effetti Rorty fece, anche con una scelta coerente sul piano personale, abbandonando l’insegnamento della filosofia a Princeton per prendere una cattedra di humanities in Virginia e accentuando il suo interesse per la letteratura. Rorty ci ha aiutato negli ultimi anni del suo lavoro, e fino alle sue ultime conferenze (come quella di Teheran del 2004, in Reset N.86, Nov-Dic 2004) a cogliere il nesso molto forte tra questo aspetto del suo pragmatismo e il pensiero politico liberale, tra la liberazione dall’ossessione cartesiana e le pratiche delle società liberali, tra il distacco da ogni tentazione fondazionistica e la democrazia.
È tipico e originale di Rorty aver definito questo nesso attraverso due passaggi per molti aspetti sconcertanti, di cui parlavo all’inizio, anche se apparirà ora più chiaro il loro posto nella traiettoria liberale del suo pensiero: il primo consiste nell’affermare l’idea della «priorità della democrazia sulla filosofia» e il secondo nel separare la «filosofia pubblica» dalla « filosofia privata».
Il primo passaggio prende le mosse da Thomas Jefferson (ma si potrebbe anche dire diversamente e semplicemente, dalla storia costituzionale americana) e consiste nella neutralizzazione della minaccia delle religioni alla convivenza sociale nello Stato liberale. Esso comincia da lì e prosegue appoggiandosi al pensiero di John Rawls per neutralizzare, oltre alle religioni, tutte le ideologie e filosofie. Il secondo passaggio, conseguenza del primo, consiste nella separazione di filosofia privata e filosofia pubblica.
Primo passaggio – Il contributo di Jefferson è sintetizzabile nella celebre battuta: «Non mi reca offesa alcuna il fatto che il mio vicino dica che ci sono venti dei o che non ce n’è nessuno». L’assunto di Jefferson quando immagina di che cosa si alimenti la coesione sociale in uno Stato dove circolino diverse fedi religiose è – come spiega Rorty – che «una facoltà morale comune al tipico teista e al tipico ateo è sufficiente alla virtù civica». Jefferson non intendeva dire che le religioni erano per lui inessenziali o che la vita religiosa della comunità fosse indifferente per la sfera politica. Al contrario ci teneva a proteggere attivamente la libertà religiosa, la libertà – diremmo noi con Isaiah Berlin – «positiva» di praticare il proprio credo. Sosteneva che le singolarità di ciascuna fede, ciò che le fa diverse le une dalle altre, è irrilevante ai fini dell’ordine sociale, ma è rilevante e forse essenziale ai fini della perfezione individuale. Il pericolo per la società non viene dalla religione ma dal fanatismo, ovvero dal fenomeno per cui taluni pretendono di portare le proprie opinioni su questioni ultime nel campo delle azioni pubbliche con effetti su tutti i cittadini che non possono essere giustificati di fronte a coloro che non condividono quella fede.
Questo compromesso «jeffersoniano» – non si può non cogliere – ha un’aria di famiglia con il compromesso rawlsiano (che ne è un discendente) che dalle religioni si estende alla dottrine comprensive (ogni forma di ideologia con riflessi sulla società). Nella sfera pubblica e nel dibattito politico dentro un ordinamento costituzionale democratico si entra motivati dalle idee di qualunque dottrina comprensiva, ma alla condizione di usare il linguaggio della «ragione pubblica», non quello della fede o delle ideologie. Le dottrine comprensive (ideologie e religioni) devono lasciar fuori i loro «bordi» che ne fanno la singolarità e limitarsi a giocare nell’ambito della ragione pubblica attraverso le aree di sovrapposizione o intersezione (overlapping), nelle aree che hanno in comune e sulle quali si trovano comuni principi etici (così come per il Jefferson di Rorty le facoltà morali comuni al tipico teista e al tipico ateo). La democrazia liberale non ha dunque bisogno di una giustificazione filosofica perché qualunque tentativo di formularla entrerebbe in contraddizione con altri tentativi. Né ha bisogno di una teoria dell’io, dell’individuo o del soggetto quale che sia. In breve, la democrazia liberale può cavarsela senza presupposizioni filosofiche. Affermata con Jefferson l’autonomia della democrazia dalla religione, e con Rawls la sua autonomia da qualunque ideologia fondativa, la democrazia va difesa, secondo Rorty, come una priorità sopra, e da, qualunque filosofia.
Nella sfera pubblica di una democrazia, come l’esperienza ci insegna bene, molti temi dell’indagine filosofica e delle ideologie religiose sono fonti di conflitto. Ed è dunque bene che siano messi tra parentesi. Nel caso di contrasto tra visioni filosofiche confliggenti su una materia politica, il rimedio migliore potrebbe non consistere nel tentar di formulare concezioni filosofiche migliori sugli stessi temi, ma nel trascurare benevolmente questi temi. Sulla giustizia è bene con Rawls far valere pragmaticamente un consenso per sovrapposizione, cioè un consenso che comprenda tutte le dottrine filosofiche e religiose antagoniste per quello che hanno e che trovano in comune, continuando poi ciascuna in una propria sfera la propria singolare ricerca.
La filosofia come ricerca della verità in relazione a un ordine morale e metafisico indipendente è una cattiva premessa per conflitti, non per un ordine giusto. Se per esempio ci troviamo di fronte a un problema di tolleranza religiosa o di schiavitù, non andiamo alla ricerca di una teoria generale, non andiamo ad ancorarci a una filosofia, ma cerchiamo modestamente di organizzare le idee intuitive fondamentali che abbiamo intorno alla tolleranza o per l’abolizione della schiavitù, e cerchiamo di sviluppare i principi impliciti in queste intuizioni. Ci sforziamo in altre parole di formulare criteri efficaci per cui coloro che condividono l’idea di eliminare la schiavitù o di proteggere la tolleranza possono riunire le loro forze e ottenere il risultato, senza cavillare sulle differenti teorie dell’io, dell’uomo, del cosmo, della giustizia che li possono invece dividere. Contentiamoci di una idea storicistica, fattuale, concreta del progresso sociale e della giustizia, non pretendiamo di appellarci a niente di supremo collocato magari nella «natura» dell’uomo o nella «ragione». È fuorviante secondo Rorty anche appellarsi ai diritti, come vorrebbe Ronald Dworkin.
Secondo passaggio – Questa linea di condotta che espelle quasi completamente dalla vita sociale e politica le pretese delle dottrine comprensive e delle religioni e che afferma la priorità della democrazia sulla filosofia, significa che dottrine e religioni con le loro domande e risposte sul senso della vita e sul nostro posto nel mondo non hanno più importanza? Ovviamente no. Le questioni di quel genere sono da riservare per Rorty all’ambito della vita privata. Non che non se ne debba più parlare in pubblico, più precisamente esse dovranno essere «sganciate sia dalla coercizione legale che dalla politica sociale». La politica sociale non ha bisogno di altra legittimazione «che non sia quella dell’accordo coronato da successo tra individui che si scoprono eredi delle stesse tradizioni e posti di fronte agli stessi problemi. Questa sarà una società che incoraggia la fine dell’ideologia e che considererà l’equilibrio riflessivo come l’unico metodo necessario per discutere la politica sociale». Equilibrio riflessivo è quella condizione che si raggiunge attraverso la ricerca di un accordo in un processo deliberativo con aggiustamenti resi possibili anche tra opinioni discordanti grazie all’esistenza di comuni principi condivisi. Equilibrio riflessivo è anche la capacità di mantenersi vigili nei confronti dei rischi di «esagerazione», sconfinamento, perdita di controllo di cui è capace qualunque buona causa, qualunque buona ragione. La riflessività di Rorty – lo ha messo bene in luce Aldo Gargani – consiste nel sapere «ascoltare il male» che si annida non nell’avversario delle proprie «finalità positive», ma nei pericoli imprevedibili che si annidano dentro «qualunque gesto etico o politico» e nella perseveranza con la quale lo si persegue, che può trasformare una bene intenzionata campagna per la giustizia in una catena di crimini e violenze.
Quella società liberale e riflessiva tenderà a scartare giustificazioni delle decisioni politiche basate su spiegazioni filosofiche dell’io o della razionalità. Essa è il risultato di una storia: abbiamo dei criteri pratici per valutare il resoconto di quel che le nostre società hanno attraversato, del modo in cui si sono trovati dei buoni accordi per regolare i conflitti religiosi, per ridurre le sofferenze e le crudeltà, per aumentare il benessere dei nostri concittadini. Non è vero che ci priviamo così di criteri per scartare progetti assurdi. Possiamo continuare a definire folli le prospettive politiche di Nietzsche o di Loyola. Un governo disegnato da questi due non starebbe «dentro i confini della sanità mentale» perché questi confini ci sono e «sono istituiti da quello che noi possiamo prendere sul serio», dove quel «noi» sta per una comunità storicamente costituitasi, e rappresenta unioni sociali che sono caratterizzate da una certa cultura condivisa.
In conclusione, i caratteri della ragionevolezza di una società liberale sono storici, non sono definiti da oggetti, essenze o da una metafisica (neppure kantiana, e anche per questo Rorty rifiuta una interpretazione kantiana e universalistica di Una teoria della giustizia di Rawls). La metafisica l’abbiamo abbattuta anche grazie alle parole offerte da Dewey, Heidegger, Davidson e Derrida, che hanno così contribuito a modo loro – indebolendo e smantellando la grande filosofia perenne – al rafforzamento della democrazia (paradossalmente, rispetto magari alle loro intenzioni, a togliere di scena una filosofia con pretese di supremazia). E a chi obbietta (nietzsceanamente) che le democrazie producono individui grigi, mediocri e calcolatori e non eroi coraggiosi da ammirare, Rorty obietta che «questo può essere un prezzo ragionevole da pagare per la libertà politica». Il disincanto del mondo e la frivolezza aiutano gli esseri umani a essere più pragmatici, tolleranti, liberali. Chi rimpiange il mondo incantato (come fanno certi comunitari e tanti religiosi) farebbe bene a ragionarci sopra, perché è molto difficile essere incantati da una visione del mondo ed essere tolleranti con le altre.
In una fase recente della sua vita, a partire da una semplice constatazione vissuta nella propria esperienza intellettuale – condivideva moltissimo della filosofia di Derrida, ma anche molte idee essenziali di Habermas – e non per ragioni di tipo «diplomatico», Rorty formula una problematica distinzione tra filosofia pubblica e filosofia privata (lo fa in Habermas, Derrida e le funzioni della filosofia, nella raccolta Verità e progresso, 1998), sostenendo che si tratta di due «pensatori complementari e non antitetici», perché rappresentano, entrambi in modo eccellente e con risultati importanti, due attività «che è meglio tenere distinte, da una parte lo sforzo del singolo individuo pensante di liberarsi dei suoi predecessori, dall’altra l’impresa collettiva di far crescere la libertà e l’uguaglianza». La filosofia dell’intersoggettività di Habermas non si discosta dal percorso storico del progresso verso la neutralizzazione jeffersoniana-jamesiana-rawlsiana delle religioni prima e delle ideologie poi, anzi suona un po’ la stessa musica se la ascoltiamo bene: essa tende a considerare vero tutto quello che viene concordato in una libera discussione e mette da parte il problema dell’esistenza di un oggetto metafisico. Dunque la sua è una filosofia che concorre alla maturazione di un pensiero liberale immune dai guasti prodotti dai «bordi» singolari delle dottrine comprensive, quando pretendono di cantare le loro ragioni ultime e di farle diventare azioni pubbliche. Rorty non accetta che si facciano valere «validità universali», è l’unico rimprovero – in verità non così marginale – che ha da muovere al kantiano Habermas, ma ciò su cui concorda con lui è più importante di ciò su cui sono divisi. E vale anche in questo caso la priorità della democrazia sulla filosofia. Una priorità su cui anche nella filosofia di Habermas – sostiene Rorty e possiamo convenire con lui – ci sarebbero le premesse per concordare.
Diverso anche il giudizio di Rorty e Habermas su Heidegger e Derrida. Spiega Rorty: «Io leggo Heidegger e Derrida come ottimi filosofi privati», Habermas li legge «come cattivi filosofi pubblici». Leggendoli «come filosofi pubblici falliti» che mirano «all’autorassicurazione della modernità», ovvero a dare all’età moderna qualcosa che sostituisca la religione, «Habermas fa una mossa che io (Rorty) non voglio fare: pretende che un Heidegger e un Derrida forniscano una giustificazione pubblica dello loro pratiche», «li vuole trattare come se rivendicassero quella che lui chiama “validità universale”». Invece si occupano di «nuove possibilità private la cui pertinenza alla speranza sociale liberale è solo contingente e accidentale». Da una parte sta il bisogno privato di autonomia e dall’altra il bisogno pubblico di una visione sinottica dei fini di una società democratica tenuta insieme dall’accordo.
Una distinzione analoga si affacciava già in Contingenza ironia e solidarietà (1989), in quel caso non tra filosofia privata e filosofia pubblica, ma tra storicismi dominati dal desiderio di autocreazione e autonomia individuale (Heidegger e Foucault) da una parte, e storicismi (Dewey e Habermas) dominati dal desiderio di dare vita a una comunità umana più giusta e più libera dall’altra parte. Rorty si rifutava anche in quel caso di scegliere tra loro, ma aspirava a usarli entrambi per scopi diversi. Autori come Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Proust, Heidegger, e Nabokov ispirano i loro lettori come modelli di perfezione individuale, ci parlano come poeti; autori come Marx, Mill, Dewey, Habermas ci parlano invece come concittadini; il loro impegno è sociale, lo scopo è rendere le nostre istituzioni più giuste e meno crudeli (pag. XIV).
Abbiamo detto prima che Rorty ammirava di James l’olismo, l’integrità del pensiero umano nelle sue varie manifestazioni disciplinari. Sembra affacciarsi con queste distinzioni (pubblico/privato, storicismi individuali/storicismi collettivi) un dualismo al quale non è facile arrendersi, perché la nostra identità di cittadini pensosi della sorte comune e quella di abitanti del mondo che legittimamente si interrogano sul senso del cosmo e della vita ci chiamano in causa in un modo che difficilmente possiamo eludere. Talora si mostra più acuta la domanda del primo genere, talora quella del secondo.
Ma ha fondamento un rimpianto per un pensiero e una produzione culturale capace di rispondere a domande di tutti e due i generi? L’olismo di James, che Rorty condivide, propone di considerare nella loro integrità le manifestazioni della creatività intellettuale, scientifica, filosofica, letteraria, religiosa, ideologica, poetica attribuendo loro uguale dignità e difendendosi dai tentativi imperialisti di qualcuna di loro di avere la meglio sulle altre. Prendere atto di un dualismo, che si propone ora tra filosofie pubbliche e filosofie private, ma che potrebbe anche assumere altre vesti, significa per Rorty non arrendersi ma servirsi della nostra dotazione, del nostro stare dentro una interazione con il mondo e con gli altri, in un modo flessibile e intelligente, forse opportunista. L’affacciarsi del rimpianto per un sapere unitario capace di risposte pubbliche e private non è altro che una nuova manifestazione della nevrosi cartesiana che nasce dal rimosso platonico, che alberga forse dentro ciascuno di noi. L’utopia, romantica o neopositivista che sia, ci porterebbe fatalmente a una nuova gerarchia di saperi, nemica di quel pragmatismo che si serve delle idee che servono nel momento che servono per gli scopi che in quel momento ci premono. Che premono a noi come individui in cerca della propria perfezione o come cittadini di una comunità in cerca di una maggiore giustizia.
Nota bibliografica
Le citazioni di Rorty sul pragmatismo sono tratte da «Pragmatismo, relativismo e irrazionalismo», uno scritto del 1979 incluso nella raccolta Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli 1986. Il suo più recente pensiero politico e le sue proposte per la sinistra, anche con riferimenti autobiografici, si trovano in Achieving Our Country, 1998, edizione italiana Una sinistra per il prossimo secolo, Garzanti 1999, un libro che si apre con una dedica a Walt Whitman e John Dewey. Cornel West, filosofo della religione, è uno dei più celebri intellettuali neri d’America, ha curato con John Rajchman una influente raccolta di testi del pragmatismo, Post-Analytic Philosophy, uscita nel 1985 per Columbia University Press e ha poi pubblicato The American Evasion of Philosophy, A Genealogy of Pragmatism, Un. of Wisconsin Press, 1989, un volume programmatico sulla tradizione pragmatista americana proposta come base per un moderno attivismo riformista e progressista. Sulla copertina uno schematico albero, il cui tronco è rappresentato da Ralph Waldo Emerson e i rami dagli esponenti del pragmatismo fino a Rorty. A questo sono seguiti molti altri volumi di West, volti alla diffusione del pragmatismo «profetico»: Prophetic Reflexions, Race Matters, Keeping Faith. Rorty si autodefinisce «galoppino» del sincretismo prendendo la espressione da Stuart Hampshire, come spiega in una nota di Verità e progresso. Scritti filosofici, una raccolta del 1998, tradotta in italiano da Feltrinelli nel 2003. Da questo volume sono tratte le citazioni sul tema della distinzione tra filosofia pubblica e filosofia privata. Rorty ha contributo negli anni a «Reset» con articoli e interviste.
…e aggiungerei, che, pensando a Nietzsche e Heidegger (ma in generale tutti i filosofi) , difficilmente si puo’ dire che la loro sia una filosofia “privata” (o debba essere considerata tale)…immaginiamo un Nietzsche che del suo “così parlo’ zarathustra” si senta dire che e’ un’ottima filosofia privata, quando non c’e nulla di piu’ “universale” (per l’occidente) del suo tentativo di disfarsi della metafisica per arrivare all’uomo nuovo, dopo che “Dio e’ morto”! O Heidegger che pensa al nascondimento degli dei di fronte alle trasformazioni tecnologiche (falso pero’ dire che lui era contro la tecnologia, era bensì contro la sua pervasività, quella che fa dire a Severino essere l’estrema follia dell’Occidente che pensa che le cose nascano dal nulla e nel nulla finiscano,dando spazio alla tecnica di rappresentare la soluzione al terrore della fine dell’uomo nel nulla) e dice “solo un dio ci puo’ salvare”! Da cosa? da un essere-nel-mondo che ha perso la sua capacita’ di pensare (la cosa stessa, l’essere) e vive in un puro fare che e’ mortifero…. Rorty forse non pensava che la filosofia occidentale aveva vinto, attraverso il suo compimento nella Techne , e stava uniformando a s’è il mondo intero… Non pensava forse che la filosofia e l’occidente stavano già declinando perche’ ormai c’e solo occidente e quindi piu’ nessun occidente, essendo l’Altro (l’Oriente) inglobato nella trasformazione tecno-cibernetica del pianeta…la’ dove c’ e’ un cellulare c’e gia’ da sempre Platone!
diceva, se ricordo bene,Aristotele che per decidere se e’ necessario o no filosofare, bisogna filosofare…ora tutto quello che si evince da quanto sopra scritto su Rorty, fa di lui un filosofo…dire che deve avere preminenza la democrazia sulla filosofia “e’ fare filosofia”…dire che religioni,ideologie ,filosofie devono tener fuori i loro bordi e’ a sua volta una “filosofia” che dice essere la democrazia il sistema migliore di convivenza (trascurando il fatto, peraltro, che la democrazia non nasce da un gesto “opportunista” del tipo ” ci conviene la democrazia” bensì nasce da lotte sanguinose, dove una parte, la borghesia in questo caso, decide che le monarchie assolute non vanno piu’ bene, e lo fa dando per “assolutamente” buona la democrazia stessa a danno (che naturalmente condivido) delle classi nobili che della democrazia avrebbero fatto volentieri a meno…cosi’ e’ per la schiavitù : non viene eliminata (dopo secoli e secoli in cui aveva egregiamente “funzionato”) perché ad un certo punto si e’ pensato che fosse meglio per tutti eliminarla…anche qui la sua abolizione fu frutto di lotte furiose e il motivo altro non era che un uso piu’ efficace del lavoro che da schiavistico diventava salariato, mantenendo nel suo fondo una impronta schiavistica anche se remunerata (in funzione del plusvalore)…anche dire che le religioni devono auto limitarsi per esistere insieme, trascura il fatto che ciascuna religione (parlo delle tre monoteiste) ha il suo fondamento di verita’ irriducibile a quello delle altre…Cristo era veramente il figlio di Dio, per i cristiani, oppure si attende ancora il Messia, per gli ebrei, oppure ancora Cristo era solo uno dei tanti profeti, per i musulmani…e ciascuna di queste religioni poggia su una verità che non puo’ che essere assoluta e fondante…anche se non si arriva al fondamentalismo sanguinoso (come pure era successo in passato) tuttavia si tratta di Assoluti che coesistono ma che non possono che affermare, in fondo, la falsita’ degli altri Assoluti….ora dire che queste religioni devono rinunciare ai loro ” bordi” e’ come dire che, per il mantenimento della democrazia (che, direbbe Carlo Sini, e’ una pratica tra le tante politiche che si sono avute in passato… Che vada difesa non c’è dubbio, ma fino a che punto senza fare anche della democrazia un Assoluto e dunque alla fine una Superstione e un fondamentalismo?) dovrebbero rinunciare alla loro verità, limitarla, confinarla in nome di un dialogo che trovi si’ punti in comune ma che mentirebbe, in ultima analisi, sul contenuto di Verita’ Assoluta che, per es. Il Cristianesimo, ha a suo fondamento in eludibile, pena la sua stessa sopravvivenza…e che dire poi della egemonia “assoluta” della Techne (vedi Severino) che da mezzo e’ diventata fine portando al progressivo annientamento delle grandi ideologie (tra cui il capitalismo) e la riduzione a farsa della democrazia stessa?